Il Torino Jazz Festival è da molti anni un crogiolo di nuove proposte in continua evoluzione. Ha saputo attraversare senza interruzioni difficili anni del Covid, e l’edizione 2024 è da record. Un festival sotto tutti i punti di vista all’insegna della inclusione.
Prima di tutto dal punto di vista delle scelte del cartello, capace di spaziare dalla storia vivente del Free Jazz con Roscoe Mitchell, al Jazz-Rap multietnico di Sélébéyone, alla moderna classicità del trio piano-basso-batteria di Gonzalo Rubalcaba, al genio compositivo-improvvisativo di John Zorn, passando per l’intimità del sax solo in acustico per pochi ascoltatori di Sakina Abdou e moltissimi altri appuntamenti di alto valore.
Poi bisogna lodare le locations: equamente sparse in tutta la città dal centro alla periferia, così che quest’ultima cessi di essere considerata tale.
Per ultimo l’intreccio col cinema, nella città sede del Museo Nazionale della settima arte: è stato possibile assistere agli straordinari tre film documentari del simpaticissimo regista ed attore francese Mathieu Amalric su John Zorn e la sua maniera di creare.
Questi documentari avevano tra loro soggetti diversi: il musicista in concerto e dietro alle quinte per Zorn I, il compositore al lavoro con altri musicisti per Zorn II, il terzo film, davvero commovente, racconta la storia della volontà di Zorn di comporre un duo per vocalizzi e pianoforte da affidare alla grande cantante Barbara Hannigan, e tutti gli sforzi della Hannigan per venire a capo di una partitura ai limiti della voce umana.
Un documentario che appare come un film di invenzione, segno che la realtà può eguagliare la fantasia e superarne l’emozione nell’istante in cui lo spettatore si rende conto che è tutto vero.
Oltre a questa appassionante trilogia si è potuto assistere alla anteprima assoluta di Steve e il Duca, con dieci brani che il regista Maresco commissionò a Steve Lacy per onorare Duke Ellington nel suo centenario e rimasti sinora inediti.
Dunque vortice di eventi che ha letteralmente investito la città ma la cui ricchezza e varietà ha attirato spettatori fin da paesi esteri portando al tutto esaurito a quasi tutti i concerti ed alzando l’asticella della eccellenza per i festival nazionali.
Abbiamo potuto seguire pochi concerti ma indiscutibilmente significativi della varietà della offerta.
Il solo di Sakina Adbdou al sax tenore e contralto ha rappresentato una sfida non indifferente, favorita da una dimensione acustica con gli spettatori a pochi metri dalla giovane musicista francese. Dentro ad un flusso intimistico privo di asperità ma sommessamente complesso come un flusso di coscienza la sassofonista ha lanciato a ciascuno dei fortunati spettatori liane con cui lanciarsi nel suo universo introspettivo, nel tentativo di un coinvolgimento totale.
Una pratica rischiosa, in quanto la interazione dei singoli spettatori può riuscire o meno, per cui alcuni di essi sono stati letteralmente stregati dalla esibizione, altri la hanno subita senza riuscire ad esserne coinvolti.
Di tutt’altra dirompente energia il concerto del gruppo Down Bit Duke, con Francesco Bearzatti al sax e clarinetto, nel loro “Omaggio Fantascientifico a Duke Ellington” che prevedeva la proiezione sullo schermo retrostante ai musicisti di spezzoni del film di Otto Preminger Anatomy of a Murder del 1959 per il quale il Duca aveva composto una poi celebre colonna sonora.
I video proiettati dietro i musicisti erano in parte originali ed in parte sezionate in riquadri alternati ad oscurità. L’ardito progetto prevedeva di usare spezzoni della colonna sonora originale ricampionati digitalmente in una serie di beats e formanti un materiale di partenza da elaborare in un groove sinergico alle immagini in bianco e nero.
Da questo intento estremamente cerebrale non è uscita una prestazione all’altezza degli intenti, fallendo l’amalgama tra una musica tumultuosa e ampiamente giocata su bassi profondi e tellurici con le immagini della pellicola, segno che questo progetto necessita ancora di rodaggio ed affinamento. Va però detto che questo concerto era da fruire in piedi, bevendo birra e socializzando a vari livelli, come se la musica fosse quasi un sottofondo ambientale e non un concerto da fruire a se stante.
Anche questo da la misura della progettualità del festival, che il pubblico giovanile ha dimostrato di gradire ampiamente, affollando i club dove si sono tenute molte esibizioni.
Situazione analoga ma progetto musicale molto più articolato, complesso e riuscito quello di Walter Prati e la sua Experimental Music Company. In questo caso la nutrita formazione, nella quale spiccava Daniele Cavallanti al sax tenore e Mario Mariotti alla tromba con Walter Prati al basso elettrico ed il giovane Guglielmo Prati alle elettroniche, aveva il compito di far rivivere le atmosfere del Davis elettrico di fine anni sessanta ed inizio settanta.
Il flusso delle linee solistiche e di assieme era accuratamente pianificato con le elettroniche lanciare loop e campionamenti di frasi prese da assoli di Miles Davis. I richiami diretti ed indiretti erano alle opere seminali di quel periodo, nate con la attiva collaborazione e direzione di Teo Macero, come “In A Silent Way”, “Jack Johnson”, ed elaborando dentro a questa materia sonora brani come Solar e Nardis per terminare con un geniale e spiazzante “Ascenseur pour l’échafaud”.
Anche in questo caso pubblico in piedi con i più interessati alla musica chiusi a semicerchi attorno al palco ed altri sparsi nel locale a chiacchierare senza che questo disturbasse minimamente la fruizione.
Con Roberto Gatto e il suo progetto “Time and Life – The Music of Tony Williams” si è ritornati ad una musica di stampo più tradizionale, dentro un teatro gremito e con alcuni spunti piacevoli, come il brano di apertura There Comes A Time, nel fantastico arrangiamento che Gil Evans partorì nel 1976 per l’album omonimo.
Il giorno dopo abbiamo avuto il piacere di rivedere una leggenda dell’avanguardia di Chicago come Roscoe Mitchell, accompagnato in duo da Michele Rabbia. Il polistrumentista si è esibito nella parte iniziale con un sax basso per poi suonare la successiva e maggior parte del concerto con un sopranino ricurvo. Due strumenti opposti usati con parsimonia nella linea di un minimalismo assoluto.
Michele Rabbia ha contornato ed arricchito le scarne e sintetiche frasi dei sassofoni con tutta la fantasia che gli è peculiare. Alla fine dell’esibizione, standing ovation del teatro gremito in ogni ordine di posti.
Raramente in un festival abbiamo ritrovato una voglia di partecipazione come in questo Torino Jazz Festival 2024.
Giancarlo Spezia