Signore in blues protagoniste sullo schermo noir

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Marie Bryant in They Live By Night

E’ scritto nella Bibbia e te lo insegnano anche a scuola / Se un uomo ti mette le mani addosso, ti userà come se tu fossi un mulo… / Tutti gli uomini sono malvagi». Quella di All Men Are Evil è la scena al contempo più comica e drammatica di Strategia di una rapina (Odds Against Tomorrow è il più poetico titolo originale), il crepuscolare film noir tratto da un celebre thriller di William P. McGivern, sceneggiato anonimamente da Abraham Polonsky (vittima del maccartismo), incisivamente diretto per la United Artists da Robert Wise (nel 1959, tra altri due capolavori, Non voglio morire e West Side Story) e splendidamente musicato da John Lewis: interpreti Robert Ryan e Shelley Winters, Ed Begley e Gloria Grahame, maschere impareggiabili del cinema dark, e il produttore stesso, un intenso Harry Belafonte, raro protagonista afroamericano nel vasto panorama del genere.

Harry Belafonte in Odds Against Tomorrow

Il cantante e vibrafonista Johnny, il personaggio in cui si cala Belafonte (lo doppia, al vibrafono, Milt Jackson), è reduce da un violento tête-à-tête con il gangster cui è legato da un debito che continua a crescere per le sue sciagurate scommesse alle corse; e scarica furia e tensione ubriacandosi, fumando e rispondendo con scriteriata enfasi a Annie, la stagionata sciantosa del night club interpretata da Mae Barnes, e finendo per stravolgerne il concerto con martellate stridenti, dissonanti, sullo strumento.

Mentre la cattiveria degli uomini sembra uscire dal rancoroso contesto erotico dei versi blues scanditi a tempo di rumba da Mae, con la soffice energia della sua voce dalla cremosità acidula e dai margini terrosi, e fissarsi sul comportamento brutale e irrazionale di Johnny (e, di riflesso, sulla spietatezza del bandito che lo minaccia: «All them cats is calloused», declama lui al vibrafono), la corpulenta cantante, irritatissima, interrompe la danza saltellante di fronte al microfono, pronuncia l’ultimo «all men are evil» e con sguardo severo scaglia contro Johnny un infuriato, inequivocabile, «daddy, that’s you!», e si allontana con uno scoppiettante mugolio a labbra chiuse, scuotendo il capo tra incredula, scoraggiata e rabbiosa.
Per la fantasista newyorkese (1907-1997) fu forse il punto culminante di una carriera lunga e articolata. Formidabile ballerina di charleston e tip tap tra Harlem e Broadway negli anni ruggenti (fece parte della seconda edizione della classica rivista di Eubie Blake e Noble Sissle, Shuffle Along), Mae Barnes fu in seguito una beniamina del jet set statunitense, attrazione di locali come il Ciro’s di Hollywood o il Playboy di Chicago. A teatro, nel 1954, apparve nel musical By The Beautiful Sea, di Arthur Schwartz e Dorothy Fields; e prima e dopo Strategia di una rapina consolidò la sua popolarità in televisione. Per esempio nel varietà Chicago And All That Jazz, dinamica rievocazione del jazz chicagoano degli anni Venti e Trenta che si apriva sullo schermo con una potente rullata di Gene Krupa. Agghindata da ragazza emancipata degli anni Venti, con una fascia sulla fronte, Mae Barnes danzava ancora con pugnace grazia, saltando e alzandosi le gonne, e cantava Hello Central, Give Me Doctor Jazz con voce raschiante, dalle smerigliature agrodolci, scandendo i versi con feroce swing, di fronte a una band di meravigliosi veterani, da Lil Hardin Armstrong a Henry «Red» Allen.

All Men Are Evil è stato anche uno dei non molti esempi, nel classico ventennio del noir, di esibizione musicale che non si limita a decorare il racconto filmico, a lasciarne temporaneamente sospesa la tensione con suggestiva eleganza (come avviene in tante, tipiche sequenze in club: esemplare l’apparizione di un Nat King Cole dall’aura esotica per interpretare la magica ballad Blue Gardenia, nell’omonima pellicola di Fritz Lang del 1953), ma che, un po’ come avviene nei migliori musical, aggiunge elementi alla caratterizzazione di storia e personaggio, offrendo una sorta di commento su più livelli.
Un decennio prima dell’indimenticabile scontro Barnes-Belafonte un ruolo affine aveva avuto una singolare scena canora del film d’esordio di Nicholas Ray, They Live By Night, del 1948, tormentato e seducente road movie noto da noi con il più blando titolo La donna del bandito e basato sul romanzo del 1937 di Edward Anderson Ladri come noi (una frase più volte ripetuta nel dialogo), che più tardi ispirerà anche l’omonima pellicola di Robert Altman (Thieves Like Us, in Italia ribattezzata Gang).

 

 

Farley Granger e Cathy O’Donnell in They live by night (1948)

Calata in un cupo vortice di crimine, cinismo e crudele predestinazione, la tenera e breve storia d’amore tra l’evaso Bowie (Farley Granger), candido rapinatore trasformato dalla stampa in pericoloso bandito, e Keechie (Cathy O’Donnell), gentile creatura cresciuta tra squallore e delinquenza, trova il suo climax – in uno strano equilibrio tra apparente serenità e precipizio inarrestabile degli eventi – nel momento in cui la giovane coppia in fuga, provando a vivere «come le altre persone», si concede una serata elegante in un supper club di una città del Sud. Tra i tavolini, con la sua angolare sinuosità di danzatrice e il suo stilizzato contralto dalla grana ramata e dalle modulazioni holidayane, si muove Marie Bryant, la mississippi-neorleansiana già apparsa qualche anno prima accanto a Lester Young nel memorabile cortometraggio Jammin’ The Blues. (M.d.R. in fondo all’articolo trovi il video del cortometraggio).

Marie modula con gusto Your Red Wagon, il blues di Richard M. Jones rielaborato da Don Raye e Gene De Paul: quando si avvicina a Bowie e Keechie, i due sorridono incantati, e intanto la scafata e sofisticata allure della cantante, per contrasto, mette in rilievo tutta la loro disarmante, ingenua rusticità e vulnerabilità. I versi che Marie dedica loro («If you didn’t have love songs to fit my key / Baby, please don’t sing those blues to me») e il senso generale del brano, con l’espressione idiomatica del titolo (sono affari tuoi, devi cavartela da solo), accentua questa distanza e sembra alludere all’isolamento e alla fragile sopravvivenza del ricercato. E improvvisamente la canzone è interrotta da un avventore ubriaco che cade addosso a Keechie; nella confusione che segue sentiamo Marie riprendere a cantare il blues mentre Bowie viene riconosciuto dal proprietario del locale che – pistola in pugno – lo caccia via verso una fine ormai imminente.

La locandina di In A Lonely Place. L’irascibile sceneggiatore Dix Steele (Bogart) è sospettato di omicidio, ma la sua vicina di casa Laurel Gray (Gloria Grahame) lo scagiona.

In uno dei successivi noir di Nicholas Ray, Il diritto di uccidere (In A Lonely Place, 1950, che modifica un bel romanzo di Dorothy B. Hughes), elegante e magnetico intreccio di seduzione, sospetto e omicidio nella Hollywood di agenti, produttori e sceneggiatori, i più maturi e sofisticati protagonisti, Bogart e Gloria Grahame, vivono un’analoga pausa di relax musicale e sentimentale. Seduti in un club a bere e fumare intorno al pianoforte, ascoltano Hadda Brooks suonare e sussurrare I Hadn’t Anyone Till You. Il messaggio della languida ballad di Ray Noble sembra specchiare l’intimità del momento, colto negli sguardi dei due, mentre qualcosa nelle dense ombreggiature blue della voce di Hadda ne preannuncia la caducità, attraverso un velo sottilissimo di minacciosa grazia.

Luciano Federighi