È stato severo e impietoso come sempre il Tristo Mietitore, lo scorso anno, nei confronti del pianeta musica. Per esempio, sotto i colpi della sua falce sono caduti alcuni eroi del rock, David Crosby e Jeff Beck, e assieme a loro un vecchio ragazzo del punk, Tom Verlaine, e la tormentata Sinéad O’Connor. Vittime illustri ne ha registrate anche il jazz e non sono certo nomi trascurabili: Carla Bley, Wayne Shorter, Les McCann, Ahmad Jamal, Peter Brötzmann, Ernst-Ludwig Petrowsky, Tony Oxley, Karl Berger. È un lungo elenco trasversale ai generi, perché qui la giustizia regna sovrana. Basti annotare in ordine sparso la fiammeggiante Tina Turner, il maestro Burt Bacharach, la deliziosa Astrud Gilberto, una cantante (ma non solo) come Jane Birkin, un crooner del calibro di Tony Bennett, George Winston, Ryuichi Sakamoto, una leggenda come Harry Belafonte. La lista potrebbe proseguire con altri caduti illustri o meno illustri, incluso Martin Davidson che a questo triste consesso si è unito a fine 2023, il 9 dicembre.
Davidson non è mai stato musicista, così come Jost Gebers, fondatore della FMP scomparso anch’egli lo scorso anno, ma alla musica ha dedicato tutta la sua vita fondando la casa discografica Emanem e dando voce come pochi altri a quello spicchio di suono noto come musica improvvisata. È sufficiente dare un’occhiata alla lista esuberante che ne compone il catalogo per rendersi conto del suo valore incommensurabile. In ordine sparso troviamo lo Spontaneous Music Ensemble in tutte le sue declinazioni, Paul Rutherford, Derek Bailey, Anthony Braxton, Steve Lacy, Kent Carter, Bobby Bradford, John Carter, John Butcher, Mark Sanders, Steve Beresford, Trevor Watts, Howard Riley, Phil Wachsmann, giusto per fare qualche nome.
A fine 2022, per via di una salute già piuttosto precaria, aveva scritto a chiare lettere sul sito di non avere in previsione alcuna pubblicazione concernente ristampe, riedizioni o altri inediti. La sua scomparsa compromette ulteriormente la sopravvivenza di un catalogo già ricco di defezioni, di album fuori stampa e non più arricchito da nuove uscite. Si tratta di un lascito cospicuo, ma come già avvenuto per la Incus dopo la scomparsa di Bailey (e ora si è sommata quella di Oxley), tutto potrebbe andare perso o quasi. Ad aggravare la situazione c’è anche lo stallo da anni di un’altra piccola, preziosa impresa discografica, la Psi, avviata da Evan Parker nel 2001 per recuperare i suoi album Incus dopo la rottura del sodalizio con Bailey. Davidson aveva aiutato Parker a trasformarsi anche in discografico e ospitato sul sito Emanen la neonata etichetta, garantendone la distribuzione nel rispetto dell’autonomia delle scelte artistiche. La Psi è ferma da anni e ora anche la sua piattaforma distributiva sembra destinata quantomeno a un lungo stop: proprio come il sito Emanem nel suo complesso, che al momento non accetta più nuovi ordini.
Il sodalizio di Davidson con Parker risaliva a molti anni addietro, non solo per via dei dischi Emanem del sassofonista. A loro due si doveva anche la nascita della rivista Musics, il più autorevole tra i numerosi periodici indipendenti pubblicati a metà dei Settanta in UK. A loro tre, in verità, perché quel foglio avventuroso e dotto nacque anche per merito di Madelaine, moglie di Davidson, una ex ballerina con qualche esperienza anche giornalistica conosciuta da Martin nel 1971 grazie al comune impegno in attività legate alla loro fede nel socialismo. L’idea della rivista è da attribuire proprio a Madelaine e venne resa concreta dal trio, trovando subito l’adesione degli esponenti di spicco tra gli sperimentatori sonori britannici. Musics svolse un ruolo chiave nel far conoscere teorie e prassi di quelle pratiche musicali nell’arco della sua breve vita dalla primavera del 1975 al novembre 1979: ventitré numeri bimestrali che videro impegnata tutta la nuova generazione di improvvisatori a fianco dei veterani come Bailey e Hugh Davies: David Toop, Beresford, Clive Bell, per esempio, offrendo un resoconto puntuale, tra cronache e recensioni, su tutto quanto accadeva in quel ribollente perimetro.
La Emanen aveva preso avvio pochi mesi prima, nel novembre del del 1974, un anno che vide la nascita di altre due etichette dedite alla documentazione del nuovo jazz britannico, ovvero la Ogun e la Bead. Il fermento creativo, insomma, andava tutelato e condiviso, registrandone gli atti più significativi. Quello della Emanem fu un esordio col botto: «Solo» di Steve Lacy, selezione di brani registrati il sette e l’otto agosto 1972 al Théâtre du Chene Noir di Avignone. Fu il suo primo album registrato in solitudine, anche se l’anno prima aveva pubblicato con la Saravah «Lapis» sempre da solo ma ricorrendo a sovraincisioni. Otto brani scelti personalmente da Lacy ai quali, nella ristampa su compact disc del 2012 («Avignon And After Volume 1», il nuovo titolo), ne vennero aggiunti altri quattro sempre provenienti dai concerti francesi e cinque registrati il 14 aprile del 1974 al Workshop Freie Musik di Berlino.
La prima di mille scelte coraggiose, perché davvero in pochi ai tempi avrebbero realizzato un disco per solo sassofono e per dare avvio all’attività discografica. Non furono meno radicali le uscite successive. Gli fece seguito nel primo anno d’attività «Face to Face» dello Spontaneous Music Ensemble, qui incarnato dai soli John Stevens e Trevor Watts, ovvero la sua versione più smilza ma non meno succulenta, e un altro duo superlativo, la coppia Anthony Braxton e Bailey ripresa in concerto alla londinese Wigmore Hall («Duo» è il titolo dell’album originale), nonché un quartetto infuocato, in pratica composto dal succitato duo SME e Kent Carter capitanati dal trombettista Bobby Bradford («Love’s Dream») e infine il più arduo dei primi dischi Emanen, senza compromessi fino in fondo: «The Gentle Harm of The Bourgeoisie» il solo trombone di Paul Rutherford.
Da quelle prime uscite per circa cinquant’anni, tra mille traversie, cambi di sede, emigrazioni, da un punto all’altro del pianeta, da Londra a New York, da lì nel New Jersey e nel Massachusetts, in seguito a Sydney, poi di nuovo a Londra e infine nel 2013 a Bilbao, dove la sua vita si è conclusa, Davidson ha eretto un vero e proprio monumento alla musica improvvisata, sempre sostenuto da Madelaine, documentandone evoluzioni, involuzioni e rinascimenti, arrivando a contare duecentocinquanta e passa album (riedizioni comprese), procedendo imperterrito per la sua strada, fregandosene altamente della commerciabilità del suo prodotto, badando alla sostanza, restando indifferente alle mode, pagando pegno all’intransigenza che inevitabilmente accompagna le crociate ma alla fine mostrandosi ammirevole per l’impegno personale e soprattutto per la qualità della musica che ha reso disponibile. Un lascito che appare senza eredi, almeno nell’immediato. Giocoforza temere la progressiva irreperibilità dell’intero catalogo. Una condanna già emessa per alcuni titoli, come si è detto, non più disponibili prima della dipartita di Davidson. Vale la pena soffermarsi su tre pezzi da novanta, prodotti da quel ragazzo troppo di periferia per essere un hippie e troppo hippie per essere di periferia, come gli capitò di definirsi, per avere una misura del patrimonio da salvare.
Spontaneous Music Ensemble
“tutti per uno, uno per tutti”
Spesso riproponendo nel formato compact disc gli album pubblicati su vinile negli anni Settanta, sfruttando appieno la capacità del dischetto digitale, Davidson aggiungeva in gran quantità materiale inedito in qualche modo riconducibile al disco oggetto della ristampa. In alcuni casi, invece, optava per l’abbinamento di due ellepì in qualche modo collegati tra loro (per formazioni ed epoca delle registrazioni).
È il caso di «Quintessence 1973-4», intestato allo SME di John Stevens, sintesi finale di una raccolta di registrazioni che vedevano il collettivo in azione a Londra in varie occasioni. L’operazione discografica merita di essere vista nel dettaglio perché è esemplare della politica editoriale seguita dalla Emanem. Una prima porzione aveva visto la luce ai tempi della migrazione in Australia dei coniugi Davidson. Si trattava di due dischi intitolati «Eighty-five Minutes» (Part 1 e 2), che porzionavano un concerto all’ICA (Institute Of Contemporary Arts) del 3 febbraio 1973 tenuto da Stevens assieme a Bailey, Evan Parker, Watts e Kent Carter. Una formazione che andò in scena allora e mai più.
Davidson mal tollerava il vinile e i suoi limiti, al contrario dei revivalisti d’oggidì, e non gli parve vero dieci anni dopo di ristampare i due dischi ancora in coppia, ma su due cd intitolati «Quintessence» (sempre 1 e 2), che regalavano anche una esibizione dello SME nell’occasione in duo e trio (Stevens, Watts con l’aggiunta di Carter) al Little Theatre Club il 3, il 4 (sul disco numero 2) e il 18 ottobre (sul disco numero 1). L’ennesima variazione di quel composto alchemico chiamato SME, incarnatosi in molteplici formazioni di cui qui è impossibile fornire un rendiconto minuzioso.
In ogni caso, una volta andati fuori produzione, i due dischi vennero raccolti in un doppio cd: «Quintessence 1973-4», appunto. Il quintetto si produsse in tre improvvisazioni talmente inafferrabili da dover ricorrere alla loro durata per intitolarle: Thirty-Five Minutes e Ten Minutes nel primo set e nel secondo Forty Minutes. Il risultato è tuttora una fonte inesauribile di sorprese e scoperte, che a ogni nuovo ascolto svela prospettive inedite e soluzioni inattese. Un flusso ininterrotto di espressione collettiva e al tempo stesso di cinque infiniti assolo, musica che prende forma e sostanza da un’intesa che ha del miracoloso considerata l’assenza di precedenti della formazione, limitatasi a un breve soundcheck avvenuto il giorno stesso del concerto.
Quanto al concerto al Little Theatre, il duo Stevens/Watts si confrontò in un reiterato faccia a faccia tra cornetta e soprano in Corsop, a tratti concitato e rude, mentre i vocalismi allucinati di Stevens e il controcanto ruggente di Watts in DAA-OOM, paiono appartenere a un canto tribale evocatorio realizzato in stato di trance. La composizione è presente anche nella versione in trio con Carter, ma monca, perché si interrompe dopo cinque minuti, ovvero a metà. La porzione più interessante del concerto al Little Theatre è però Rambunctious 1, improvvisazione con radici ben piantate nel jazz e atmosfera nel complesso pacata. Stevens e Carter si adoperano nel rendersi centro di gravità stabile, e anche nei momenti in cui il fraseggio di Watts si riduce a scheggia guizzante e Stevens si lascia andare a nuovi vocalismi tribali, l’insieme si conserva coeso. Meno riuscit,a e difatti conclusa più rapidamente, è la successiva Rambunctious 2. Nel complesso un manifesto dello spirito che animava lo SME, o sarebbe meglio dire una delle sue anime, e una illustrazione efficace del modo di intendere l’improvvisazione a metà anni Settanta, che pareva respirare a tratti la stessa aria che avrebbe sollevato il polverone punk.
Steve Lacy: due quintetti per una sola anima solitaria
La medesima operazione di accorpamento si verificò con due album del 1975 intestati a Lacy: «Saxophone Special» e «The Crust». A essere coinvolti nel primo album – una selezione di brani registrati alla Wigmore Hall il 19 dicembre del 1974 – furono altri tre sassofonisti (Steve Potts, Evan Parker e Trevor Watts), assistiti dai rumorismi di Michel Waisvisz e dell’ineffabile Bailey. Quest’ultimo era presente anche sull’altro disco, che riprendeva un concerto al 100 Club del 30 luglio 1973 assieme a Potts in un quintetto che disponeva di una sezione ritmica composta da John Stevens e Kent Carter. La somma diede luogo al cd uscito nel 1998 con il titolo di «Saxophone Special +», adeguato a sottolineare l’accumulo di materiale sonoro ivi contenuto, ivi compreso un inedito. Il dischetto, oggi fuori produzione, proponeva i due concerti in ordine cronologico. Ripubblicato in mono, dopo aver appurato un difetto sul canale sinistro della registrazione stereo, «The Crust» ha sapore amatoriale, a un passo dall’essere lo-fi, ma riprende l’alba di un lungo sodalizio, quello tra Lacy e Potts, che per molti anni sarebbe stato il suo ideale contraltare, capace di seguirne le frasi scheletriche e zigzaganti, di farsi complementare oppure di accentuarne i disegni, di rendere maggiormente discorsivi i costrutti, come si ascolta nel brano 38, omaggio a Coleman Hawkins con temperatura piuttosto elevata e avvio tanto scoppiettante quanto ossessivo. Brano bifronte, con Potts esuberante e Lacy quasi chirurgico nel suo assolo. Qui è in pratica assente Bailey, ma nel successivo Flakes, dedicato a Mark Rothko, i suoi ricami non euclidei sono in primissimo piano. Degna di nota è anche la miniatura conclusiva, Revolutionary Suicide, titolo preso in prestito dall’autobiografia di Huey P. Newton, storico leader delle Black Panthers: è una tipica, ossessiva costruzione lacyana, resa parossistica e surriscaldatissima. Il piatto forte è però composto dai brani di «Saxophone Special», a iniziare dal sontuoso Staples che rende immediatamente l’idea del potenziale di quel quartetto di sassofoni, che pur in assenza di prove, era capace di sviluppare intrecci, scontri, sovrapposizioni e momento corali all’unisono di un rigore e un calore stupefacenti. Coeva alla soluzione proposta da Anthony Braxton in «New York Fall 1974», la formazione con quattro sassofoni fu una delle illuminazioni lacyane dell’epoca, essendo antecedente all’imminente nascita dei quartetti che avrebbero codificato la formula, come il WSQ e il Rova. Lacy però volle aggiungere due disturbatori, convocati al fine di generare rumore, di sollecitare il caos, di stuzzicare e interferire. Il quartetto senza i due partner rumoristi si ascolta soltanto in un brano, Sops, e vede i quattro tutti al soprano, o verrebbe da dire a un unico sassofono soprano multidimensionale, considerata la coesione e al tempo stesso la ricchezza del flusso sonoro generato. Da solo varrebbe la ristampa dell’intero disco.
A conferirgli un carattere unico fu anche la maggiore crudezza dovuta sia al carattere allora sperimentale dell’esperienza sia proprio ai rumorismi, specie quelli di Waisvisz, anche se oggi suonano a tratti datati. Il risultato complessivo regge tuttora la prova del tempo e le complesse, labirintiche strutture rimangono affascinanti, per esempio in Swishes, dove si segnala Evan Parker insolitamente al baritono. Quinto e ultimo brano (con l’inedita seconda versione sul cd) è Snaps, e qui la sezione rumoristica è in bella evidenza. Le due versioni presentano, per propria natura, improvvisazioni differenti, cosa piuttosto evidente nell’assolo di Lacy sull’alternate take.
Derek Bailey: i monologhi della mezza età
In un’intervista apparsa nel 1977 sulla suddetta Musics, Bailey diede una spiegazione abbacinante della dinamica sottesa all’improvvisazione: «I tic diventano toc, i toc diventano tic». Difatti per quarant’anni adottò questo singolare procedimento, messo nero su bianco in particolare quando si esibiva in solitudine, come avvenne la sera del 15 dicembre 1989 al L.A. Contemporary Exhibitions. Nella megalopoli californiana Bailey tornava a esibirsi per la quarta volta, sempre in compagnia solo della sua chitarra, eccezion fatta per la sua prima volta a Los Angeles nel 1979, quando si era presentato assieme a Evan Parker. Pur non alterando i tratti tipici del suo personalissimo stile chitarristico, nell’occasione quel garbato, segaligno, arguto signore inglese suonò nell’occasione come non aveva mai fatto prima, risultando assai più accessibile che in altre occasioni, sfiorando un inaudito approccio melodico, un po’ come a volerlo accarezzare. Discretamente lineare, si lasciò andare anche ad accenni di flamenco, lampi e poco più, ma sensazionali. Tutto sempre alla sua maniera, impugnando nell’occasione una Epiphone Triumph del 1936, una chitarra acustica addobbata con un pick-up per violoncello e controllandone al solito il volume con un pedale. Nell’arco di un’ora le due improvvisazioni e il succinto bis cui diede vita Bailey andarono a comporre l’album Emanen intitolato «Lace».
Il chitarrista sciorinò l’intero suo catalogo fatto di pause, sfrigolii, corde percosse, scorticate, grappoli di note rapprese, quei tipici clusters intricati e strappati, singole note trattenute a lungo, il suono che si impenna, poi scema dando vita a un autentico corpo a corpo tra una chitarra e un uomo. Ci sono molti modi di suonare una chitarra, sconfinando dalle regole precostituite, oppure spingendosi ai limiti del possibile dentro le regole, rifuggendo dal virtuosismo o coltivandolo. Ci sono molti modi codificati, oppure se ne può inventare uno, personale, inimitabile, in continua evoluzione, reattivo, fondato in apparenza sul nulla, in caduta libera, una sfida continua, alla ricerca dell’improvvisazione pura, all’inseguimento della totale sregolatezza come unica/infinita possibilità di fare musica, tic, toc, tic, toc, appunto, piccoli suoni anarchici sprigionati da una semplice chitarra, acustica, elettrica, che tanto caustica e tanto aliena pare la prima volta che la si ascolta, come avviene quando si fa conoscenza per la prima volta (e anche dopo) dell’arte di Derek Bailey. Proprio per questo, l’ascolto di «Lace» è la guida ideale per iniziare a esplorare l’universo sonoro baileyano e proprio per questo è delittuoso, pur essendo ancora in circolazione diversi altri suoi dischi, che sia fuori catalogo: e chissà per quanto tempo rimarrà tale. Il prezioso documento venne pubblicato senza interventi da parte di Davidson che, come da richiesta dello stesso Bailey, si limitò a un editing minimale.
Si chiudeva così un decennio nel quale le cose non andarono proprio al massimo sul fronte della musica improvvisata, dopo quello fiammeggiante che lo aveva preceduto. Negli anni Ottanta, Bailey fu tra i pochi a mantenere dritta la barra del timone, approdando ai Novanta con nuove idee e la voglia di mettersi ancora in gioco su fronti inediti. Memorabili le sue sortite in Giappone con DJ Ninj e con il duo Ruins, ma anche le collaborazioni cinesi con la suonatrice di pipa
Min Xiao-Fen, premesse per quel finale di partita che sarebbe stata la collaborazione con David Sylvian per «Blemish».