Ci vorrebbero la straordinaria apertura all’inopinato, la visione pronta ai ribaltamenti di senso (o di mancati sensi) di David Lynch, l’espressionismo rivisitato dalla pittura di Lucien Freud nel bilico tra deformazione e realtà, il Pinocchio parallelo e oscuro di Manganelli, per raccontare musicisti del calibro di Nels Cline che, con cinquanta anni di attività professionistica alle spalle, in barba a ogni mappa disponibile, si diverte a inerpicarsi per sentieri creativi proprio lì dove appaiono interrotti, laddove lo sbarramento di una macchia più fitta preclude lo sguardo e scoraggia il passo. D’altronde, con una biografia solidamente improntata alle collaborazioni con Dave Holland, Wilco, Julian Lage, Thurston Moore, Wadada Leo Smith, Yoko Ono, John Zorn e decine d’altri è facile intuire quanto lisciare nel verso del pelo il mercato non sia esattamente nelle corde del chitarrista di L.A.
Anche il nuovissimo «Consentrik Quartet», con il quale la Blue Note di Don Was conferma il proprio istinto a dissotterrare i più preziosi tartufi, risponde all’inesausta curiosità di Cline per le intersezioni in cui sogno e realtà diventano l’unica via per abbandonarsi al racconto di verità. Un po’ come quando Federico Fellini raccontò in una celebre conversazione con Zavoli il succo del suo enigmatico Otto 1/2: «Il rapporto con la società», disse il genio riminese, «si esprime nella serie infinita, complessa, molteplice, contraddittoria delle relazioni dell’uomo: con i vivi, con i morti, con la società fatta di ricordi personali, presentimenti, anticipazioni. È la società del sogno, ma non è una società di fantasmi, perché tutto ciò che vive nell’immaginazione è reale; perché dovrebbe essere inquietante la realtà dell’uomo? È inquietante nella misura in cui noi ci mettiamo in conflitto con questa realtà: il modo in cui tentiamo di interpretarla, schematizzarla… Allora sì: si distorce, si deforma, ci aggredisce. Ma se noi la accettiamo per quella che veramente è, mi sembra che non ci sia nulla di più confortante della realtà, proprio perché l’immaginazione è l’unica possibilità di viverla, di esisterla, di realizzarla nella sua interezza». Ecco, da maestro a maestro, la via possibile, le parole migliori per introdurre un album destinato a essere tra gli imperdibili del nuovo anno.
Ciascun lettore potrà sbizzarrirsi, dopo l’ascolto, a sbirciare tra le pagine social e le piattaforme digitali l’attività di Cline, difficile da comprimere e aperta a stili, formazioni, linguaggi talmente eterogenei e tutti intriganti da creare una sorta di capogiro. In questa ultima avventura in quartetto, dopo «Lovers» (2016), «Currents, Constellations» (2018), «Share the Wealth» (2020), tutti per la storica etichetta newyorchese, si accompagna a musicisti del calibro di Tom Rainey alla batteria, Ingrid Laubrock ai sassofoni e Chris Lightcap al basso e all’elettronica. Dodici brani scritti e arrangiati specificatamente per un voluto risultato di ensemble, più che per marcare territori solistici, in cui la concentricità della formazione (e che intitola l’album) sta esattamente nel suo saper propagare, a partire da un’idea melodica, ritmica o armonica, un raggio in estensione di possibilità sonore.
Cline, ogniqualvolta viene intervistato, rivela una modestia sincera difficile da non cogliere nella pacatezza delle sue risposte, che accompagna costantemente da un senso del limite e dalla crudele autoanalisi che fa delle proprie possibilità, ardua da comporre con la sregolatezza creativa e improvvisativa che tracima in ogni beat della sua musica. Il suo rapporto col jazz parte da lontano. Con il fratello gemello Alex, batterista di prima fila e a sua volta esploratore di avanguardie e paesaggi vergini, iniziano a dieci anni a comprarsi, mettendo insieme i risparmi, un album di importazione ogni due settimane, dopo essere rimasti stravolti dall’approccio al jazz modale e alle nuove influenze elettriche di Davis, Weather Report, Tony Williams. Glieli spedisce un negozietto, Moby Disk nella San Fernando Valley, e un giorno scoprono di avere vicino casa il club di Shelly Manne dove ascoltano il loro primo concerto. La musica di quell’incredibile batterista, da poco uscito col suo singolarissimo album in solitudine «Mannekind», fa impazzire Nels, che poi a stretto giro si innamora del trio di Kenny Burrell e del quale intuisce subito la qualità, da lui sintetizzata così: «Era così tranquilla, quella musica. Questa era la differenza: sapeva essere selvaggia, e anche tranquilla». Dopo un tuffo negli ascolti dei grandi, Cline fa difficoltà a trovare un proprio spazio didattico, che gli viene finalmente impartito al Santa Monica College sotto l’ala di Rule Beasley, padre di quel John che diventerà un osannato tastierista jazz-fusion. Da lì l’avvio di una carriera fuori dalle righe e dagli schemi che arriva dritta, sulla soglia delle settanta primavere, sul nuovo Consentrik Quartet.
Bentornato sul nostro giornale, Nels. Devo dire di essere rimasto incollato al disco già dall’apertura, The Returning Angel, con quell’accordo strano e aperto che suoni, credo un Re minore nona con la settima maggiore, e dal quale si apre una interazione tra voi sorprendente. Come scrivi per lo più i tuoi brani? Partendo da un accordo o una progressione?
Grazie! L’accordo è quello, ma devi far risaltare anche il Si naturale che è la tredicesima [ride, ndr]. Allora, a parte tutto, non c’è nulla di preordinato, ma in effetti molto spesso è come hai descritto tu. Mi metto a suonare, provo alcune soluzioni ed è il mondo armonico a portarmi alla scrittura. È anche il caso di Sleeping into Something che trovi nell’album, un pezzo groovy che non avrei mai immaginato potesse essere suonato da questo quartetto e che è nato giocando intorno ai bassi dei due accordi fondamentali. Non so perché stessero bene insieme, ma mi piaceva come suonavano. Altre volte parto da un semplice riff, altre da una progressione. Un caso diverso è quello di Surplus, il terzo brano, che è nato da una manciata di idee melodiche e da un vamp [una sorta di obbligato col basso o spunto ritmico ripetuto ad libitum, ndr] e l’ho chiamata così perché secondo me conteneva troppe cose insieme.

Ci sono anche soluzioni ritmiche sempre diverse, tempi composti, poliritmie… Però inserite in modo molto «naturale»
Vero! Quello è semplicemente il modo in cui ascolto le cose che mi vengono in mente, credo facciano parte della musica Aassimilata e suonata per tanti anni. Una volta, per esempio, si suonava moltissimo in cinque quarti; però oggi neanche ci penso più, analizzo quello che serve a posteriori.
Entriamo un po’ nel vivo di questo nuovo lavoro col tuo Consentrik Quartet, che c’è di nuovo rispetto ai precedenti, per esempio «Currents, Constellations»?
Per alcuni versi molto poco, per altri versi tantissimo. Il molto poco riguarda il mio stile di scrittura, che sostanzialmente resta immutato, c’è sempre l’idea di creare un po’ di groove, spesso basato sul modo di suonare di John Scofield, per esempio, o di qualcun altro. Poi mi piace, in generale, alternare brani basati sul tempo rubato e altri più dinamici e vulcanici. Questo è ciò che faccio di solito. La differenza, in questo caso, è il sassofono, che non utilizzavo nei miei gruppi, tranne l’aggiunta ai Nels Cline Singers di Skerik (ed è stata una sorpresa, perché fosse stato per me avrei evitato l’uso del sax per un sacco di tempo) e con l’altra eccezione di Ben Goldberg, che è uno dei miei clarinettisti preferiti di sempre. Avevo già suonato con Ingrid Laubrock e suo marito Tom Rainey allo Stone di Brooklyn, quando il direttore artistico era John Zorn e stava in una galleria d’arte a Crown Heights. Alla fine devo aver elaborato queste esperienze, e mi sono trovato nella felice circostanza di avere Ingrid nella band (Tom era già il batterista su «Currents, Constellations»), insieme a Chris Lightcap al basso. Con lui avevo suonato in duo e ci siamo incrociati spesso qui a New York, ero nel suo album «Superette», dove ascolti una specie di rock strumentale dove Chris suona il basso e io qualcos’altro, una specie di incrocio tra Santana e Joel Harrison. Insomma, si è creata un’affinità tra noi che mi è molto piaciuta e che è stato una soddisfazione veder nascere con questo album. Però, a livello compositivo, per tornare alla domanda, non sono sicuro di esser cambiato poi così tanto negli ultimi trent’anni. Alcuni pezzi nel disco, e questo sta diventando un noioso luogo comune, lo so, sono nati durante la pandemia e il lockdown; metà dei brani sono stati scritti quando io e mia moglie ci siamo rifugiati tra i boschi, in un posto non lontano da New York, abbandonando per un po’ il nostro appartamento a Brooklyn. Avevamo un inquilino del palazzo, un caro amico, che ci ha ospitato e abbiamo lasciato la città. Un brano nato durante quel periodo è 23, la opening track dell’album, e quel titolo viene semplicemente dall’autostrada che facevamo, la County Highway 23 fino a Otsego. Anche Time of No Sirens e Satomi sono state scritte in quel periodo. In realtà, è capitato perché avevo un accordo per portare materiale originale in giro in una serie di concerti sulla East Coast, accordo congelato perché non potevamo suonare dal vivo; e così ho continuato, per quanto ne percepissi la stranezza, a scrivere per qualcosa che non avrebbe visto la luce.
Oltre a Satomi (Matsuzaki), c’è un altro brano nel disco, The Bag, dedicato a Tom Rainey. Due brani come omaggio a due colleghi?
The Bag l’ho dedicata a Tom perché gira sempre con una borsa di plastica che riempie di bacchette e mallets e si mette a suonarle dove gli capita. Siccome nel pezzo le utilizza entrambe, mi è parso pertinente quel titolo; e poi Tom suona quel brano con un up tempo pazzesco, energetico che tira fuori il meglio anche da Ingrid (sai che sono sposati e hanno un duo che riscuote un bel successo). Insomma ho usato questa specie di alchimia, perché loro due assieme fanno succedere, specie dal vivo, momenti di musica incredibili, sembrano capaci di qualunque cosa. Aggiungi il fatto che sono convinto che Tom sia semplicemente un genio, e quindi mi è parso giusto dedicargli un brano. Mi sento molto fortunato a suonare con lui, ho avuto ottimi batteristi nel corso della mia carriera. Mio fratello Alex, Scott Amendola, ho fatto un po’ di dischi con Marcus Gilmore. Pazzesco a ripensarci, la fortuna di suonare con questi prodigi. Invece, per quanto riguarda Satomi, lei è una delle migliori amiche di mia moglie Yuka [Honda, polistrumentista giapponese e cofondatrice di Cibo Matto, ndr]. Uscivamo spessissimo con lei e il suo compagno, Satoru, credo ci fossimo conosciuti nel 1998, e ho ascoltato per la prima volta il suo gruppo Deerhoof, mi sono piaciuti al punto che gli ho dedicato un brano con i Singers, Suspended Head. Tra l’altro, nello stesso periodo, avevo un duo con Carla Bozulich, Scarnella, e abbiamo spesso diviso il palco con i Deerhoof. Carla ha chiesto a Satoru di suonare insieme e alla fine siamo diventati amici. Amo quella band, sono ancora divertenti dopo tanti anni e cambiamenti personali, ogni volta che li ascolto sono di grande ispirazione. E poi c’è Satomi che, oltre a essere un’amica, è una persona umanamente eccezionale. Così la prima parte del brano con Consentrik Quartet riflette il suo incredibile carisma, la sua energia in ogni performance e la seconda metà è più tranquilla, perché traduce in qualche modo il volerle stare accanto in momenti difficili.
A questo proposito, quanto è importante per te la cultura giapponese? Al di là del piano familiare, la copertina dell’album è una bellissima opera di Hiroki Katayama, con un tempio Shinto che si chiama Magata Jinja. Per il tuo compleanno, il 4 gennaio, hai postato su Facebook un bellissimo video realizzato dentro il santuario di Shogoin Monseki deserto mentre suoni un tuo brano, Cymbidium, tratto dall’album «Coward». C’è qualcosa che ti attira particolarmente, anche a livello spirituale?
Sì e no, devo dire. In generale, sono stato sempre molto attratto dalla cultura asiatica e certamente da quella giapponese. Mio fratello Alex è più informato di me in materia perché è buddista zen e ha un insegnante buddista vietnamita, è molto preso da questa dimensione. Per me è un po’ diverso. Il video è stato realizzato da un amico di mia moglie Yuka in due templi di Kyoto; essendo lui piuttosto conosciuto, ha la possibilità di filmare con il drone e riprendere tutti gli ambienti, perché conosce a memoria l’architettura di quel luogo. Mi ha chiesto di fare quel video e ne sono stato contento. In questo senso, puoi dire che è una coincidenza. Ma allo stesso tempo quel brano è molto minimale, non lo suono live perché ha un grado di intimità molto spiccato, è dedicato a mia madre, anche se non l’ho specificato nel disco. Una sorta di omaggio a lei, che amava quella specie di orchidea orientale, la cymbidium. Comunque, a ripensarci, la pop culture giapponese è interessantissima, sono stato un grande fan di molti gruppi: Boredom, Melt-Banana, Buffalo Daughter, ma anche di Cornelius che è un grande musicista, e per questo è inevitabile che alcune influenze ricadano nella musica che scrivo.
Torniamo ancora un po’ sul nuovo album col tuo quartetto. L’impressione è che tu non giochi mai il ruolo di guitar hero, ma che tutto sia molto bilanciato per cercare un suono omogeneo di gruppo
Assolutamente sì. Volevo che la musica scorresse liscia senza nessun tipo di personalismo. Voglio essere sincero con te, non mi piace per niente riascoltare quello che faccio. Ho capito, anche con Share the Wealth, di non aver messo più di un assolo; la testa in questo momento ce l’ho lì, nel sentirmi più a casa dentro un ensemble. Penso anche che sia un fatto di età; invecchiando sono più consapevole che è importante ridurre la parte solistica, e così cerco di farlo il meno possibile.
Viene quindi naturale chiederti se, ad oggi, consideri più la chitarra uno strumento, in senso tecnico, per essere un musicista o più un chitarrista a tutti gli effetti.
Oddio, questa è una gran buona domanda. Quello è lo strumento attraverso il quale riesco ad esprimere me stesso e amo ogni chitarra che posseggo. Non ho mai, ma proprio mai, perso la passione per le chitarre, la musica e il suono della chitarra e quindi talvolta sembra che in essa ci sia la mia identità. Ma questa narrazione delle cose è come se, in qualche modo, mi inibisse o, ancora meglio, mi limitasse. Credo che a negarlo diventerei contraddittorio o pedante, perché suono questo strumento da cinquant’anni e quindi sarà bene che accetti il ruolo che mi sono trovato da solo. È un pezzo co-essenziale della mia identità, mi piace suonare e quindi ecco che la risposta è un po’ oscillante.
La tecnica di utilizzare con la destra sia il plettro che le dita è qualcosa che hai dovuto studiare o ti è venuta naturale?
È stata una faccenda super casuale! Non ho mai preso lezioni di chitarra o qualcuno che mi insegnasse la tecnica. Puoi guardare le mie mani e vedere che non ho la più pallida idea di ciò che sto facendo, lo faccio e basta, ci provo. Provo a imparare. Lo faccio da quando andavo alle superiori, in quegli anni ogni tentativo di trovare un insegnante si è rivelato fallimentare. Quindi alla fine ho imparato da solo a suonare con le dita, davvero un caso esemplare di auto-apprendimento. Ho studiato da solo dove fossero le note sul manico e ho iniziato a suonare con gente molto più brava di me. Questo mi ha aiutato moltissimo, perché finalmente potevo fare domande per risolvere tutti i dubbi che accumulavo; per esempio, è accaduto col mio grande amico Eric Von Essen, che è stato mio partner musicale per moltissimi anni e che non era solo un superlativo bassista ma anche un eccellente insegnante. Ci suonavo, gli facevo domande e lui mi ha dato un mucchio di suggerimenti; tra l’altro scriveva composizioni molto belle e impegnative. Lo stesso è stato suonare con Vinny Golia, Julius Hemphill o Charlie Haden quando ero giovanissimo, avevo vent’anni. Volevo migliorare a tutti i costi; sai, quando sei giovane suoni tantissimo, avevo sempre una chitarra dietro. Oggi non è più così e credo, sinceramente, che con il passare degli anni la mia tecnica si sia un po’ indebolita, ma ho settant’anni e le mie dita non funzionano più come una volta. Ma per fortuna ho le orecchie e quelle funzionano ancora molto bene. Questo mi consente di lavorare in qualunque contesto di espressione musicale, c’è sempre qualcosa che mi intriga e allora è una fortuna trovarsi lì, a sapersi muovere bene. A oggi posso suonare in mondi musicali molto distanti tra loro, anche perché è uno strumento molto flessibile.
Qualche tempo fa, ho visto un video in cui il tuo amico e collega Julian Lage parlava di quanto importante sia l’attenzione fisica (postura, respiro, esercizi) per suonare correttamente, anche per evitare infortuni…
Capisco, è una cosa importante, ma non l’ho mai fatta e di conseguenza ho avuto tanti incidenti di percorso. In particolare, quando suonavo coi Wilco, c’era un grande sacrificio fisico. Oggi, per esempio col Consentrik Quartet, cerco solo di tenere le cose insieme in modo che funzionino musicalmente. Cerco di evitare di fare troppi movimenti sbagliati con la testa e il collo, guardare troppo in basso e ripetere tutte quelle abitudini che mi hanno danneggiato per tanto tempo, anche se è difficile, proprio perché ormai è una propensione fisica e mentale che si è legata insieme. C’è un video girato mentre registravamo negli studi di Brooklyn della Blue Note il brano 23: puoi vedere bene che guardo sempre le mie mani o il pavimento, si capisce che sono nervoso, concentrato. Tra l’altro, anche dal vivo, difficilmente guardo il pubblico, sto molto per conto mio, chiuso nel mio mondo e so che questa cosa appare orribile.
C’è un brano molto bello, in qualche modo mi ha riportato alla Liberation Orchestra, che si chiama Allende, suppongo dedicato a Salvador. So che sei molto sensibile ai temi dell’impegno civile, delle diseguaglianze, della garanzia del welfare per tutti (Share the Wealth, d’altronde). Che pezzo è questo?
Sì, hai ragione, c’è certamente un legame tra tutto questo. Quel brano per lungo tempo non ha avuto un titolo, continuavo a chiamarlo «ballad», perché è un pezzo molto semplice, che ho scritto in fretta. Suonandolo, cercavo di esplorarne lo spirito e lo associavo non solo a un certo modo latino di interpretare uno slow tempo, ma anche a pezzi come Sod House di Paul Motian [in «Tribute», ECM 1974, ndr]. C’era un’atmosfera affine, in generale, alle ballad scritte da Motian, che fossero in trio con Joe Lovano e Bill Frisell oppure con Sam Brown e Charlie Haden. Volevo che in questo album Chris avesse lo spazio per esplorare le sue grandi capacità melodiche sul basso. Ora, l’intensità con cui ha suonato mi aveva fatto venire in mente il titolo Allende, ma non ero convinto perché poteva sembrare ovvio ed eccessivamente drammatico. Ho iniziato a pensarci su in occasione dell’anniversario del colpo di Stato e all’incubo che è stata tutta la storia di Salvador Allende e così, piano piano, ho iniziato a leggermi i suoi discorsi, le sue interviste; era qualcosa che non avevo mai fatto. Mi sono trovato calato nuovamente negli anni Ottanta, in special modo quando scoprivo la musica di Victor Jara [il musicista, poeta, sostenitore di Allende barbaramente ucciso dall’esercito di Pinochet nel 1973, ndr], dei Quilapayún [che si trovavano in turnee durante il colpo di stato e rimasero in esilio in Francia fino al 1988, intensificando la protesta contro la dittatura, ndr], gli Intillimani e in generale gli esponenti della Nueva Canción Cilena. Insomma, sono tornato a interessarmi a quella storia terribile e quindi mi sono detto che il titolo poteva essere adatto, perché volevo che le persone scoprissero chi veramente fosse stato quell’uomo. Si potrebbe pensare che il riferimento sia anche a Isabel, la scrittrice, ma non lo è: il riferimento è alla grande tragedia biografica di Salvador. Non so, alla fine io sono solo un tipo che viene dalla periferia suburbana di Los Angeles, che non ha mai avuto tali esperienze, per fortuna, né ha mai dovuto confrontarsi con l’orrore nella vita; quindi, c’era il rischio che suonasse un titolo fatuo. Ma allo stesso tempo volevo che la gente potesse scoprire il ruolo ricoperto dalla CIA per agevolare quell’incubo.
Non ti chiedo neanche cosa pensi dell’America di oggi.
Puoi immaginarlo senza problemi: faccio parte di quella parte di persone, e non siamo poche, che crede che semplicemente metà del Paese sia in qualche modo impazzita…
Per restare nei paraggi, mi ha colpito leggere nei tuoi ringraziamenti dentro l’album quello per le freeform radio radicals [radio indipendenti che trasmettono senza filtri ogni musica o messaggio di natura civile e politica, spesso finanziate dagli ascoltatori, ndr] e per i guerrieri pacifici. Chi sono?
Le freeform radio radicals credo di averle ringraziate in ogni album che ho fatto. Ci sono queste realtà bellissime, come la WFMU o molte altre, che semplicemente mettono qualunque musica vogliono e trasmettono 24 ore al giorno. Io amo follemente la radio, anche se non riesco più ad ascoltarla tanto come una volta. Però resta la grande magia dell’attesa, di non sapere cosa ascolterai dopo, un luogo dove non c’è coercizione dettata dal circuito commerciale, ma si trasmette solo la musica che vuole il DJ di turno. Puoi accenderla a caso e trovare ogni più bizzarra sorpresa. È anche un osservatorio privilegiato per conoscere le nuove tendenze, e quindi sono molto grato a tutti quelli che ci lavorano. Allo stesso modo, i «guerrieri pacifici» sono tutte quelle persone impegnate e più coraggiose di me che lavorano nelle retrovie. Io probabilmente non ho il loro stesso piglio, loro sanno essere anche molto arrabbiati verso le ingiustizie, e quindi volevo rendere onore a quel loro modo di combattere accanitamente per un’idea senza essere violenti. Di violenza ce n’è già abbastanza e io non mi sento forte o coraggioso tanto quanto lo sono loro. Io sono nato solo per suonare musica, e quindi è un modo per dir loro che gli sto accanto.
So che è una storia che ti è già capitato di rievocare, ma mi piaceva concludere con il tuo ricordo dell’incontro con Jim Hall, credo sia stato molto importante per te.
Hai ragione! Non ho mai fatto parte del suo giro più intimo, perché purtroppo di lì a poco è scomparso, ma certo è qualcosa che non posso dimenticare. Stavamo festeggiando un qualche compleanno a pranzo; ero con Julian Lage, Adam Rogers, Scott Colley e gli altri della cricca. C’era anche Jim e così mi sono ritrovato a fare un pezzo di strada insieme a lui, mentre andava a casa dove viveva con Jane, sulla West 12th, e quella è stata la più lunga conversazione che ho fatto con lui. Camminava molto, molto piano in quel periodo. Julian e Adam erano avanti a noi e intanto Jim mi faceva un po’ di domande, era molto interessato alla mia musica. Credo sia morto di lì a quattro giorni, nel sonno. Proprio quel giorno stavo registrando con Julian; era l’ultima seduta al Sears Sound per l’album «Lovers» [l’album poi è uscito nel 2016, quasi tre anni dopo, ndr]). Ed è stato un momento di intensa emozione, specialmente per Julian che era vicino a Jim e che era molto stimato dal maestro. La cosa incredibile è che, proprio in quel momento, avevo pensato di omaggiare Jim Hall nell’album. In particolare, nella versione di Secret Love, ho suonato in La bemolle che era la tonalità che usava di più col suo trio. Tra l’altro, avevo inserito un paio di suoi licks sperando potessero fargli piacere. Ricevere in quell’esatto momento la notizia è stato terribile, ci siamo sentiti sopraffatti dalla tristezza. Ma alla fine, la grande consolazione è che è morto tranquillamente nel sonno. Era una persona straordinaria e sono stato fortunato a conoscerlo.
Ci vedremo in Italia?
Puoi scommetterci, non so ancora la data ma presto! Certamente ci saremo.