Marc Ribot’s Ceramic Dog

548
Ceramic Dog, foto Sanzio Fusconi

Teatro Il Momento, Empoli, 19 febbraio

 Come sempre, Marc Ribot dimostra un’innata capacità di catturare l’interesse tanto dei seguaci del rock indipendente, quanto degli appassionati di jazz, blues e musiche afroamericane in senso lato: non solo per la sua lunghissima frequentazione con John Zorn, ma anche per le innumerevoli collaborazioni con artisti di diversa estrazione. Tra gli eventi di spicco della decima stagione di Empoli Jazz Winter & Spring, rassegna inserita nel quadro del Network Sonoro ideato dal Music Pool e patrocinata del Comune di Empoli, il concerto di Ceramic Dog si è svolto al cospetto di un pubblico numeroso, entusiasta ed eterogeneo.

Marc Ribot, foto Sanzio Fusconi

Sia nel secondo lavoro del trio, «YRU Still Here?», che nell’ultima fatica come titolare, «Songs Of Resistance», Ribot ha introdotto connotati fortemente politici nei testi dei brani, cantati in tonalità decisamente stranianti, a volte declamati quasi evocando i poeti della beat generation e – nel caso di Muslim/Jewish Resistance – perfino sottoposti a un trattamento rap. L’approccio vocale di Ribot è aspro, irregolare, assolutamente anticonvenzionale, a tal punto che all’orecchio degli amanti del belcanto potrebbe risultare addirittura stonato e irritante. Ciò nonostante, esprime appieno la rabbia e la protesta per le storture e le pericolose derive cui è soggetto questo mondo globalizzato. Una reazione ben diversa e molto più consapevole rispetto alla «ribellione» – tutto sommato bambinesca nella sua istintività – a suo tempo rozzamente espressa dal punk, fenomeno puntualmente addomesticato e fagocitato dall’industria discografica. Una reazione tradotta anche nella ripresa di «Bella Ciao» nella versione inglese approntata da Tom Waits (uno dei due episodi acustici del concerto) e di «We Are Soldiers In The Army», inno del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.

Ches Smith, foto Sanzio Fusconi

La musica del trio possiede una carica ritmica incalzante, martellante, a tratti belluina, adatta a sostenere le distorsioni e le schegge impazzite della chitarra di Ribot. In questo contesto si nota la discrepanza (voluta?) tra la tendenza del bassista Shahzad Ismaily – altrove impegnato anche alla chitarra ritmica e alle percussioni – a mantenersi su un groove implacabile, con accenti funk, e l’abilità del batterista Ches Smith (membro degli Snakeoil di Tim Berne) nell’uso di dinamiche, controtempi e, ove possibile, colori anche sugli up tempo più serrati.

Shahzad Ismaily, foto Sanzio Fusconi

Nella gamma espressiva di Ceramic Dog confluiscono ovviamente altri elementi riconducibili al composito universo di Ribot: l’ombra di Hendrix, le sperimentazioni di Zorn, l’eredità dei folksingers americani, certi poliritmi già esplorati con Los Cubanos Postizos. Addirittura la versione di Take Five di Dave Brubeck, con il 5/4 dell’originale trasformato in una serrata scansione rock, riecheggia vagamente i Cream. Semmai, alla musica del trio – a volte fin troppo satura – mancano un po’ di respiro e magari un equilibrio più bilanciato tra parti cantate e strumentali da una parte, e maggiore spazio per l’improvvisazione dall’altra. In questa veste Ribot si propone senz’altro, in virtù dell’attenzione dedicata a temi sociali e politici, come un erede contemporaneo e soprattutto elettrico di Woody Guthrie.

Enzo Boddi

Marc Ribot, foto Sanzio Fusconi