Maisha: «There Is a Place»

di Marta «Blumi» Tripodi

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Maisha (foto di Sonni Rossi)
Maisha (foto di Sonni Rossi)

Maisha, la giovane band londinese guidata dal batterista Jake Long debutta con un album di sorprendente freschezza che lascia ben sperare per il futuro. E loro, che cosa ne dicono?

Esistono ancora (poche) etichette discografiche in grado di imporre un’aura di qualità ad ogni progetto che pubblicano. Tra queste sicuramente spicca la Brownswood Recordings, fondata da Gilles Peterson, il quale – oltre ad essere una delle personalità radiofoniche più eclettiche e interessanti della Gran Bretagna – è un noto DJ e collezionista di dischi. Alcune delle proposte musicali più fresche e interessanti in ambito jazz arrivano proprio da qui: Yussef Kamaal, Zara McFarlane e Jose James sono solo alcuni tra i tanti nomi che hanno militato tra le fila della Brownswood. Tra gli ultimi in ordine di tempo c’è Maisha, una formazione strumentale fondata da sei giovani jazzisti di Londra e capitanata dal batterista Jake Long, fresca di debutto con il mini-album «There Is a Place»: se non ne avete ancora sentito parlare, probabilmente d’ora in avanti vi capiterà spesso.

Come nasce il progetto Maisha?
La maggior parte di noi si è conosciuta all’università: abbiamo tutti frequentato dei cosiddetti music colleges e abbiamo fatto amicizia tra i banchi di scuola. Personalmente, alcuni di loro li conoscevo addirittura da prima, per aver suonato nello stesso circuito di piccoli locali a Londra: non necessariamente facevamo lo stesso tipo di musica ma si può dire che ci siamo sempre apprezzati e stimati l’un l’altro, prima ancora di iniziare a collaborare.

Cosa significa il nome della band, a proposito?
Eravamo molto affascinati dall’idea di trovare qualcosa che avesse un significato sia per noi, come membri della band, che per chi ci ascoltava. Che entrasse davvero a far parte delle nostre vite. E a quel punto abbiamo pensato che la stessa parola «vita» era perfetta allo scopo, così abbiamo cominciato a cercare tutte le sue possibili traduzioni e declinazioni. Abbiamo scoperto che «maisha» significava proprio «vita» in lingua swahili, e ce ne siamo innamorati.

Come ensemble avete un retroterra e delle influenze molto varie: quali sono i vostri generi musicali di riferimento?
Alcuni di noi arrivano da studi classici, ma poi hanno preso direzioni diverse. E tutti noi abbiamo incontrato il jazz a un certo punto del percorso, ma non ci siamo fermati a quello. Per quanto riguarda me, ascolto molto hip hop, rock e reggae. Amo la musica che mi parla non solo di sonorità diverse, ma anche di culture diverse. Molti altri della band hanno passioni ancora più diversificate: dub, elettronica, Afro-beat…

Maisha (foto di Joe Hart)
Maisha (foto di Joe Hart)

E oltre ad ascoltarli, li suonate anche?
Certo, suoniamo di tutto! Anche perché è tipico, nella vita di un giovane musicista di Londra: per mantenersi grazie alla propria arte bisogna tenere il piede in parecchie scarpe. Io, ad esempio, suono anche in un gruppo reggae e in diversi contesti legati al pop. Inoltre ho un progetto più sperimentale in ambito techno. Altri della band fanno i turnisti per i nomi più caldi del momento come Jorja Smith, che è una grande stella in ascesa del contemporary R&B inglese.

Questo tenere il piede in più scarpe, come dici tu, vi influenza o vi limita, come jazz band? Molti della vecchia scuola pensano che il jazz sia un genere che non dovrebbe contaminarsi o lasciare spazio ad altre divagazioni, pena il rischio di imbastardirsi…
Già, capita spesso di sentire discorsi del genere. Ma non è mai stato il mio caso. Così come da ascoltatore mi è sempre piaciuto sentire qualsiasi cosa, anche da musicista amo suonare qualsiasi cosa. Forse dipende anche dal fatto che, prima dell’università, non avevo mai approfondito così tanto il jazz: me ne sono davvero innamorato solo allora. Ci sono sempre stati molti generi diversi nella mia vita, e sono sempre stati di grande ispirazione quando si trattava di comporre brani miei. Inoltre, come dicevo prima, è anche una questione di sopravvivenza. Oggi come oggi in Inghilterra c’è una scena jazz in grande fermento e un pubblico che aumenta a vista d’occhio, ma quando abbiamo iniziato a suonare noi, non era così. Non era neanche immaginabile di poter campare con il jazz. Ragion per cui, per la nostra generazione, tenersi più porte aperte non è mai stata una vera e propria scelta, ma soprattutto una necessità.

Il titolo dell’album, «There Is A Place», significa letteralmente «C’è un posto», che dall’illustrazione della copertina possiamo immaginare essere una sorta di giardino…
Non è un luogo preciso in realtà, ma una vaga suggestione. Tutto nasce dalla traccia che dà il titolo al disco: l’ho scritta durante le mie passeggiate nel parco vicino alla casa in cui vivevo a Londra. Ci andavo soprattutto al mattino, per svegliarmi, schiarirmi la mente, respirare una boccata d’aria fresca. Ma il significato finale è ben più ampio: quel parco è stata la mia ispirazione, ma chiunque abbia lavorato al brano e all’album, e chiunque lo abbia ascoltato, ha aggiunto il suo tocco personale, pensando e provando ogni volta cose diverse. Ciascuno ha il suo luogo del cuore, insomma, ed è quello il posto menzionato nel titolo.

A proposito di Londra, è una delle capitali mondiali più ricche di musica, e di musicisti. Moltissimi artisti hanno vissuto lì, scrivendo e registrando alcune delle pagine più memorabili della discografia di sempre. Cosa la rende così speciale, secondo te?
Innanzitutto la sua multiculturalità: per le strade di Londra è possibile ascoltare sonorità provenienti da tutto il pianeta, e sfido chiunque a non farsi influenzare da questo. Inoltre negli anni si è creata una comunità di musicisti incredibilmente coesa e variegata, e quando vedi i tuoi amici sfornare album grandiosi, non può che ispirarti a cercare di fare lo stesso. Ci si incoraggia e ci si stimola a vicenda: in un clima del genere è più facile crare della bella musica e esporti al giudizio altrui.

Maisha «There Is a Place»
Maisha «There Is a Place»

Anche quando si tratta in qualche modo di vostri «concorrenti»?
Certo. In generale direi che nella scena jazz di Londra siamo tutti piuttosto amici. Magari non intimi, ma non ci sono rivalità, anzi: c’è molto supporto e una bella energia, ci sentiamo tutti sulla stessa barca.

Tornando all’album, il fatto di uscire sotto un’etichetta come Brownswood vi ha fornito una vetrina molto prestigiosa. Come avete conosciuto Gilles Peterson?
Una sera suonavo con Oscar Jerome, che è un giovane cantante e chitarrista di grandissimo talento, al Jazz Cafè di Londra. Anche lui faceva parte del giro di Brownswood, avendo partecipato alla compilation dell’etichetta «We Out Here», ed è stato proprio così che ho conosciuto Gilles. Ci è capitato spesso di rivederci in varie occasioni e locali, e ho potuto apprezzare il suo modo di lavorare e il suo grande amore per la musica. E lui, a sua volta, ha avuto modo di conoscere noi di Maisha e la nostra visione. Così, quando abbiamo finito di registrare il disco, ci è venuto naturale farglielo ascoltare per capire cosa ne pensava e se poteva interessargli pubblicarlo.

«There Is A Place», peraltro, è stato registrato in soli tre giorni…
Esatto, perché quello era il tempo che potevamo permetterci in studio! Anzi, in realtà si può dire che lo abbiamo registrato ancora più velocemente, perché il primo è stato dedicato solo a settaggio e soundcheck, per essere sicuri che tutto suonasse così come doveva suonare e che gli ascolti fossero ottimali per tutti. Sai com’è, non è una gran cosa quando sei pronto a incidere il tuo primo disco, ma non riesci neppure a sentire bene quello che fai… Il giorno dopo abbiamo registrato due takes di ogni brano con la sezione ritmica, tutti assieme, in modo da avere un’alternativa e poter scegliere quella che ci convinceva di più. E infine il terzo giorno lo abbiamo dedicato agli archi.

Registrare un disco che sia «cotto e mangiato», quindi, è una scelta o una necessità?
Nel nostro caso, credo entrambe le cose. Il jazz è una musica che vive di momenti e vibrazioni: più suoni un brano, più diventerà perfetto e ti soddisferà in termini di resa finale, ma magari si perde quella scintilla speciale che ha caratterizzato un certo istante piuttosto che un altro.

Quanto ci mettete, invece, a comporre un brano?
Non c’è stato un vero standard, varia molto da traccia a traccia. A volte uno di noi ha un’idea iniziale e poi ciascuno aggiunge la propria parte a sentimento. Altre volte magari ci troviamo a provare, nasce una melodia che tutti trovano immediatamente eccezionale e non c’è bisogno di aggiungere nient’altro. In generale, però, per noi scrivere è un processo molto collaborativo. Diciamo che, avendo avuto io l’idea di formare la band, tengo un po’ le fila del discorso e mi riservo sempre una revisione finale, per essere sicuri che il prodotto finito sia sempre in tono con ciò che volevamo esprimere fondando Maisha.

State già lavorando a nuova musica?
Assolutamente! Entro qualche mese vorremmo uscire con un ep che sia la prosecuzione ideale dell’album. Sarà un po’ diverso, una sorta di evoluzione dei concetti esplorati all’interno di questo primo disco. Le nostre ambizioni, comunque, sono molte: in futuro sogniamo di poter lavorare con un’intera orchestra. Purtroppo, però, abbiamo ancora molta strada da fare!

Marta «Blumi» Tripodi

[da Musica Jazz, gennaio 2019]