Kurt Elling SuperBlue

Nuovo gruppo e nuova sfida artistica per il forte cantante di Chicago, che pubblica in questi giorni gli esiti della sua inattesa ma riuscita collaborazione con Charlie Hunter.

2449
Kurt Elling Foto di Cory Edwald

Come è nata l’idea di «SuperBlue»?
Charlie Hunter ed io siamo amici da molti anni e abbiamo lavorato insieme a qualche progetto parallelo occasionale. È stato il lockdown causato dal COVID che ha reso imperativo un progetto completo, se non altro per aiutarci entrambi a non perdere la testa. Il titolo deriva dalla title track, originariamente registrata da Freddie Hubbard.

 Come è nata la collaborazione con Corey Fonville e Dj Harrison?
Charlie conosceva entrambi quei bravi giovani musicisti e stava già collaborando con loro. Mi sono fidato del giudizio di Charlie e ho seguito il suo esempio.

Invece, il tuo rapporto artistico con Charlie Hunter quando e come è iniziato?
Diversi anni fa Charlie ed io abbiamo firmato con la Blue Note Records e siamo diventati amici in quel momento. La collaborazione è partita, però, diversi anni dopo.

Si può parlare di una svolta nella tua musica?
In realtà, mi sento come se stessi girando un angolo ogni giorno. Gli spostamenti, le variazioni sono incrementali e, direi, fondamentali per ogni artista.

Sassy è un tributo a Sarah Vaughan. Qual è il debito che ha il jazz nei suoi confronti?
Lei rimane, e rimarrà, esemplare: tra i cantanti jazz più espressivi e diabolicamente articolati.

Kurt Elling

Poi, troviamo Where To Find It di Wayne Shorter e Endless Lawns di Carla Bley. Perché hai scelto questi due brani e questi due autori?
Wayne è da tempo uno dei miei preferiti, così come di tutti coloro che prestano attenzione alla musica. È un Bodhisattva musicale e sono onorato di avere avuto ancora una volta il permesso di registrare un mio testo su una delle ingegnose composizioni di Wayne. Invece, ho registrato questa composizione di Carla già una volta, sull’album «The Questions», e sapevo che c’era ancora molto da esplorare, specialmente nel contesto ritmico di questa band.

In Circus, invece, troviamo i testi di Tom Waits e le musiche di Fonville, Hunter e Harrison. Hai seguito un criterio o hai agito d’istinto?
Tutto nasce dall’istinto. Sempre che sia giusto e funzioni, lo sai anche tu.

In Dharma Bums hai celebrato Jack Kerouac e, quindi, la Beat Generation. Questo movimento nella tua crescita artistica ha avuto importanza?
Sì. E’ stato Mark Murphy colui il quale mi ha fatto conoscere quella collezione di anime, e da allora sono state una sorta di punto di riferimento.

C’è un momento, un movimento o un artista della storia che ritieni essere stato fondamentale per te?
Ho appena menzionato Mark Murphy, che è servito da porta d’accesso a una vasta gamma di possibilità musicali. Sicuramente è stato fondamentale per me.

In diversi brani i testi sono tuoi. Sono stati concepiti in seguito alla musica o viceversa?
Nei casi in cui la musica era preesistente, come nelle composizioni di Wayne Shorter e Carla Bley, i testi ovviamente seguivano. Per quanto riguarda le nuove composizioni che io e la band abbiamo creato in collaborando, la band ha stabilito le tracce ritmiche e me le ha inviate. Era quindi mio compito creare le melodie e i testi. Molto spesso in quei casi, le melodie e le parole venivano in tandem, quasi spontaneamente.

Dopo tanti anni e tanti dischi con la Blue Note Record, i rapporti si sono interrotti. Cosa è successo?
Non direi interrotto. Il mio contratto con la Blue Note era di sei dischi. Blue Note ed io abbiamo concluso felicemente quel contratto. In seguito a ciò mi sono state offerte buone condizioni dalla Concord per lavorare con loro e, quindi, ho accettato le loro condizioni.

Questo è il secondo disco che registri con la Edition. Quali sono gli elementi di questa casa discografica che ti convincono?
Sicuramente l’impegno di Dave Stapleton per l’eccellenza su tutti i fronti.

In questo tuo disco ci sono riferimenti alla pandemia provocata dal COVID-19?
No, anche se prendo in giro l’idiozia dei c.d. teorici di Q-Anon con la canzone, Can’t Make It With Your Brain.

A proposito della pandemia, tu come hai vissuto questo periodo?
Io e la mia famiglia siamo stati al sicuro e senza COVID per tutto il tempo, e di tanto sono grato. Mi rammarico che l’umanità sembri non aver utilizzato il lockdown, la situazione verificatasi per riflettere profondamente sugli altri pericoli che si stanno affrontando; vale a dire: il cambiamento climatico, la disuguaglianza economica globale e l’ascesa del fascismo come risposta a tutto.

Cosa vorresti che le persone portassero con sé dopo uno dei tuoi concerti?
Gioia, speranza, ricerca e senso di rinnovamento.

Quando ti sei innamorato della musica?
Ah, guarda. Molto prima di quanto io possa ricordare!

Hai avuto insegnanti importanti che hanno contribuito a plasmare la tua esplorazione musicale?
Mio padre era un musicista di chiesa e ho imparato di più da lui, dal suo esempio e dedizione, che da tante altre situazioni. Altri importanti mentori musicali sono stati Von Freeman, Jon Hendricks, Mark Murphy e i sassofonisti Eddie Johnson e Ed Petersen.

Se tu non fossi nato e cresciuto a Chicago pensi che la tua carriera professionale sarebbe stata differente?
La biforcazione di percorsi dal passato ad oggi porta a innumerevoli e inconoscibili realtà alternative.

Qual è stata la tua più grande soddisfazione?
La sopravvivenza professionale.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho intenzione di continuare a sforzarmi di cantare musica di valore al più alto livello delle mie capacità e di sfidare me stesso oltre il mio livello attuale.
Alceste Ayroldi
* Intervista pubblicata sul numero di settembre 2021 della rivista Musica Jazz