John Patitucci: Back to Brooklyn

Il contrabbassista italo-americano è uno dei maggiori esponenti contemporanei del suo strumento e ha un sacco di cose da raccontare, grazie alle sue lunghissime esperienze nei gruppi di Chick Corea e di Wayne Shorter. Ascoltiamolo in questa lunga intervista

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A distanza di diversi anni, hai ripreso il tuo progetto «Irmãos de Fé». C’è un motivo in particolare che ti ha spinto verso questa scelta?

Essenzialmente perché amo il gruppo: Yotam Silberstein e Rogério Boccato e, soprattutto, la musica che suoniamo, che è quella dei maestri della musica brasiliana. È un progetto che non abbiamo mai portato in tournée prima d’ora. Conosco Rogério da molti anni, siamo molto amici, le nostre famiglie sono molto legate, è un grande percussionista e batterista e conosce questa musica a menadito. Ha lavorato sodo per apprenderne gli aspetti folclorici, che si tratti di choro o di forró, di tutto il samba, e conosce tutti i gruppi musicali brasiliani. Silberstein è israeliano ed è un grande jazzista. Vive a New York da molti anni ed è un esperto di musica brasiliana: conosce perfettamente oltre 5000 brani. Così l’ho scelto sia per la sua vasta conoscenza della musica brasiliana sia perché mi piace suonare con lui, ha un grande suono sulla chitarra elettrica ma anche su quella acustica. E poi cerco di portare qualcosa di diverso ogni estate quando vengo in Europa, invece di venire sempre con le stesse persone!

Quali sono i tuoi rapporti con la musica brasiliana? 

Ho una lunga storia. Nei primi anni Ottanta ho iniziato a suonare a Los Angeles con i maestri brasiliani. C’era Oscar Castro-Neves, c’era Moacir Santos, per esempio. Airto Moreira fu uno dei primi a insegnarmi davvero il sound brasiliano. Così si è sparsa la voce che in città c’era un giovane che amava suonare questa musica e che era disposto a impararla. Ho iniziato a fare un sacco di concerti con tutti questi musicisti. D’un tratto mi sono ritrovato a suonare Ivan Lins, Dori Caymmi e altroìi fantastici artisti brasiliani. Sono stato esposto fin dall’inizio, con Airto e Flora, alla musica non solo di Jobim ma anche di Chico Buarque ed Egberto Gismonti, e a quella di Hermeto Pascoal, che è un genio. Ed è stato davvero emozionante. Danilo Pérez lo dice bene: la musica ritmica dell’Africa e la potenza del suo ritmo hanno fatto il giro del mondo e hanno cambiato la musica di tutti i Paesi, hanno cambiato la musica di Cuba, hanno cambiato la musica del Brasile, hanno cambiato la musica del Perù, tutti i Paesi dell’America del Sud e dell’America Centrale, e anche dell’America del Nord, sono stati totalmente modificati dalla grandezza di quei ritmi africani. Poi ho suonato con Milton Nascimento, Astrud e João Gilberto, Flora Purim, Ivan Lins, João Bosco e Dori Caymmi. Nel 1994 ho fatto uscire «Mistura fina» con Alex Acuña, e con me ha curato gli arrangiamenti João Bosco. Un disco che ebbe un certo successo al tempo. Sono stato in tour e ho suonato spesso con João Bosco: insomma ho fatto molte cose con la musica brasiliana, la amo profondamente e continuo a studiarla.

Quando hai capito che la musica sarebbe stata la tua professione? 

Direi all’età di dodici anni, quando mio fratello mi ha fatto conoscere il basso. Ero troppo piccolo e non potevo ancora avere accesso a un contrabbasso regolare.

Ma in pratica quando hai smesso di essere un musicista dilettante?

Non ricordo di aver mai fatto distinzione tra dilettantismo e professionismo, perché amo la musica e sono sempre andato dritto per la mia strada, studiando molto seriamente e suonando dal vivo già all’inizio della mia adolescenza.

Quali sono i tuoi primi ricordi musicali? 

Sentire la musica della Motown alla radio a Brooklyn negli anni Sessanta, ascoltare il jazz che mio nonno portava a casa per farlo ascoltare a mio fratello col quale poi suonavo e cantavo, ci godevamo la musica insieme.

Sei uno dei migliori bassisti al mondo e sei mancino. Ma suoni con la mano destra. Cosa hai fatto per eliminare questo problema? 

Sinceramente non ho mai pensato che fosse un problema essere mancini, mi sono semplicemente messo a suonare. Il fatto è che con la sinistra è molto faticoso e quando si suona il basso si è comunque un po’ ambidestri, si usano molto entrambe le mani.

Hai suonato con mezzo mondo ma soprattutto molto a lungo con Wayne Shorter

Sì, e lui è l’incarnazione e l’essenza della musica. Ha tutto questo, è stato un genio: poteva ascoltare qualsiasi cosa e accedere a qualsiasi cosa. E sapeva sempre benissimo cosa stava succedendo Ho avuto sempre un rapporto molto attivo con lui: sono molto legato a Wayne, è quasi come un secondo padre per me, quindi ogni volta che ho suonato con lui ha suscitato in me ricordi di bellezza e di incredibile musicalità che hanno cambiato la mia vita.

In che modo ha influenzato il tuo concetto di improvvisazione?

Be’, la cosa più bella di Wayne è che è sempre stato fonte di ispirazione, e molto incoraggiante a spingerci a esplorare l’improvvisazione di gruppo utilizzandola con un approccio compositivo. Quindi c’è sempre stata un’enorme fiducia da parte sua, e io, Danilo e Brian (Blade) correvamo volentieri grandi rischi, capisci? È stato tutto molto gratificante.

Cosa ne pensi del ruolo del musicista al giorno d’oggi? Credi che il musicista abbia un dovere morale come artista? 

Be’, non posso certo parlare per tutti, ma come musicista e come artista, a causa della mia fede in Dio e del mio essere cristiano, sento di avere sempre il dovere morale di condividere e anche di servire le persone.

John Patitucci

Un tuo ricordo su Chick Corea… 

Ci vorrebbero ore e ore e giorni per parlare di tutte le cose che ho imparato da Chick. Lui è stato molto disponibile con me e mi ha incoraggiato a seguire la mia strada, senza badare a quello che pensavano gli altri ma convincendomi a scegliere la musica che volevo suonare davvero e a tenere duro.

Ero da sempre un suo grande fan. Avevo visto i Return to Forever al Berklee Performance Center di Boston da adolescente. Poiché suonavo sia il basso elettrico sia quello acustico, sapevo che Chick era un musicista che abitava tutti i mondi stilistici, quindi intuivo che se mai avessi suonato con lui, avrei avuto la possibilità di crescere su entrambi gli strumenti e di sperimentare tutti i tipi di musica. Ero un bopper, ma ero anche appassionato di funk e di altre cose. Mi piaceva Chick anche perché possedeva incredibili doti compositive. Sua moglie, Gayle Moran, mi vide a una jam session a casa di Chuck Mangione. Avevo 24 anni e suonavo bop al contrabbasso. Lei tornò a casa e disse a Chick: «Sai, c’è questo ragazzino italiano…». Ogni anno, Gayle e Chick organizzavano a casa loro, a Los Angeles, una bella festa per San Valentino a casa loro ogni anno. Riunivano un sacco di musicisti per stare assieme. Chick amava molto Victor Feldman, nel cui trio io suonavo in quel periodo. Così mi ritrovai a casa di Chick a suonare bop con Victor. Chick mi ascoltò e intuì qualcosa. Capì di poter contribuire a sviluppare le doti che stavo mostrando in embrione. Io sono un musicista cui piace molto guardare le persone con cui suono e vedere come esprimono fisicamente la musica, e lui era molto simile a me. Sono sempre stato entusiasta di aver potuto suonare con lui. Ero così felice, e Chick diceva che questo mio atteggiamento lo aiutava quando si sentiva stanco. Eravamo arrivati al punto, con l’interazione che avevamo sviluppato, che a volte io improvvisavo e, nel bel mezzo del mio assolo, Chick piombava dentro la mia stessa improvvisazione, all’unisono, come se mi leggesse nel pensiero. Io e Chick abbiamo passato decenni a guardarci negli occhi e a suonare. C’è qualcosa di incredibile in certi livelli di comunicazione.

Tu insegni alla Berklee. Qual è la cosa più importante che cerchi di sottolineare ai tuoi studenti? 

La cosa più importante è il ritmo. Senza il ritmo, il timing e il feeling nessuna delle altre cose che si imparano nella musica verrebbe bene; senza il ritmo e un timing molto forte e la capacità di comunicare la musica attraverso il ritmo non funzionerebbe proprio niente.

So che è passato molto tempo, ma com’era nata l’idea del docufilm sulla tua vita, a Brooklyn? 

Mio cognato, un tipo fantastico di nome John Santangelo, voleva girare questo documentario e io gli dissi che non mi sembravo proprio il soggetto adatto. «È più per gente come Chick Corea e Wayne Shorter.». Ma lui mi rispose: «Voglio farlo sul serio», al che gli proposi: «Allora se mi finanzi la registrazione di un disco ti lascio fare il documentario». E così ha fatto, mi ha prestato dei soldi per fare un disco (che gli ho restituito più avanti), ha fatto il documentario ed è andata a finire che la gente continua a guardarlo. Sul sito web riceviamo ancora tanti messaggi a proposito del documentario, così tante richieste che evidentemente dev’essere servito ad aiutare molti musicisti e a incoraggiarli. Insomma, alla fine è stata una buona cosa.

Leggevo che hai menzionato John Paul Jones e John Entwistle tra i bassisti che ti hanno influenzato. Quindi le maggiori influenze, almeno come tecnica, le hai avute dal rock? È molto interessante questa cosa… 

No, amo il loro modo di suonare ma non direi che sono la mia influenza principale. Ce ne sono tanti altri come Ron Carter, Dave Holland, Charlie Haden, Ray Brown, James Jamerson. Tanti bassisti mi hanno influenzato molto di più, Paul Chambers, Anthony Jackson, Stanley Clarke e Jaco. Comunque io e mio fratello abbiamo iniziato suonando soul, poi amiamo gli Who e naturalmente i Led Zeppelin, ma soprattutto i Beatles, quindi alla fine credo che Paul McCartney mi abbia influenzato più di chiunque!

Hai collaborato con musicisti di ogni genere. Al giorno d’oggi, pensi che la distinzione dei generi musicali sia ancora valida? 

Cerco di non farmi condizionare da nulla, ma solo di capire se si tratta di buona o cattiva musica: amo tutti gli stili.

Hai trascorso molti anni, dal 1972 al 1978, nella Bay Area, in California. Quali sono stati i momenti salienti di quel periodo della tua vita? 

È lì che ho iniziato ad appassionarmi al jazz, frequentando l’American Music Hall di San Francisco, il Keystone Korner altri club, andavo spesso a sentire Dizzy Gillespie, McCoy Tyner, il trio di Bill Evans. Io e mio fratello abbiamo visto un sacco di concerti e ci siamo immersi in dischi di ogni tipo, da Herbie Hancock a Sly & The Family Stone, che sfornavano tante belle produzioni. È stato un periodo fantastico! Al primo anno di università ho iniziato a studiare il contrabbasso classico con un membro della San Francisco Symphony.

A parte ciò, quali sono i tre momenti che consideri fondamentali nella tua carriera artistica? 

È difficile dirlo perché ce ne sono troppi! Comunque, quello in cui mio fratello mi ha insegnato a mettere le mani sul basso e mi ha fatto interessare allo strumento, poi l’incontro nella Bay Area con Chris Poehler,  il mio primo maestro e mentore, e ovviamente il lavoro con Chick Corea e Wayne Shorter, due sodalizi fondamentali che hanno determinato grandi cambiamenti nella mia vita.

Dai spesso anche concerti per solo basso. 

Nel 1979 ascoltai il disco di Dave Holland «Emerald Tears» per solo contrabbasso e fu una grande ispirazione per l’autorità mostrata da Dave e per il modo in cui lui presentava le sue idee musicali. Tre quarti d’ora di solo contrabbasso!. È stato un disco importante per me e per molti miei colleghi. Ma volevo fare qualcosa di diverso e incorporare altri suoni, tra cui il mio sei corde elettrico, le mie figlie e il choir di violoncelli e bassi con mia moglie. Ci sono diversi musicisti che ho sentito suonare da soli. Ricordo di aver sentito Ron Carter suonare Willow Weep for Me al funerale di Milt Hinton, ed è stato bellissimo. Sono un grande fan di Ron, e quella è stata in assoluto una delle volte in cui l’ho apprezzato di più. Lui e Ray Brown sono stati i motivi principali per cui mi sono avvicinato al basso acustico.

Invece la tua collaborazione con Freddie Hubbard?

Freddie è stato uno dei più grandi improvvisatori con cui abbia mai lavorato. Suonava la tromba come un sax tenore, con la stessa libertà aveva un suono di tromba incredibile. Mi è piaciuto molto suonare con lui. Non ho suonato con lui neanche lontanamente così a lungo come con Chick, ma il suo stile era incredibile: ero comunque un suo grande fan, quindi è stato emozionante ritrovarmi al suo fianco.

Hai anche collaborato con molti compositori di colonne sonore. Hai mai pensato di comporre una colonna sonora per un film o ti è mai stato proposto di farlo? 

Sì, suono ancora in molti film, e ho composto la mia prima colonna sonora per questo film, un documentario intitolato Chicago, America’s Hidden War, che racconta l’esperienza degli afro-americani a Chicago, che è davvero difficile, tra il razzismo e la brutalità della polizia. Al film hanno partecipato un sacco di persone interessanti, in larga parte gente straordinaria che proviene da quartieri in cui la vita è molto difficile. Credo che verrà riproposto in visione, e so che Denzel Washington vorrebbe farne una serie tv su Netflix, quindi tenetelo d’occhio. È stato proiettato nei cinema nel 2021, purtroppo per poco tempo. È questa la mia prima colonna sonora per un film.

A proposito di brani, ne hai recentemente scritto uno per ricordare il grande bassista Paul Jackson. Il video del brano e la commovente lettera aperta che hai scritto alla famiglia di Jackson sono stati pubblicati nel 2021. Cosa ci puoi dire di Letter for Paul?

All’inizio avevo scritto un pezzo dal titolo Paul Jackson, che in realtà era una specie di jam. Poi quando Paul è morto ho desiderato rendergli omaggio. Letter for Paul è il risultato della mia lunga frequentazione con Chris Poelher, che era amico di Paul Jackson e me lo aveva fatto conoscere sui dischi di Herbie Hancock. Quando lo ascoltai per la prima volta, andai letteralmente fuori di testa: credo che sia stato uno dei bassisti più incredibili mai sentiti in vita mia, sia nell’ambito del funk che del jazz. Paul ha davvero cambiato nella mia testa il modo in cui pensavo che si dovesse suonare funk in un contesto meno rigido, con molta improvvisazione. È stato uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, secondo me.

So che la tua figlia maggiore è una cantautrice. Ci può dire qualcosa di più su di lei? 

Sì, vive a Los Angeles, si chiama Sachi Grace ed è una brava cantante e cantautrice. Sta producendo molta musica in Californoa e si occupa anche di fotografia.

Nel 2015 hai pubblicato un album intitolato «Brooklyn» e nel 2021 c’è stato il documentario Back to Brooklyn. Questo borough di New York City è molto importante per te. È solo una questione di radici o c’è dell’altro? 

Come sai, io sono di Brooklyn ma ho vissuto a nord di New York per gran parte della mia vita.Di conseguenza tutta l’area di New York, Brooklyn e Manhattan in particolare, è molto importante per me. Ed è proprio per questo motivo che sono tornato a New York nel 1996 dopo aver vissuto in California per molti anni. Oramai ho passato la maggior parte della mia vita a New York. Brooklyn è il luogo in cui sono cresciuto e dove ho avuto le mie prime esperienze umane, una situazione molto importante che ha plasmato la mia vita.

Avresti mai pensato di diventare un musicista famoso? 

Sognavo di suonare con grandi musicisti, con le autentiche leggende del jazz. Il mio sogno era anche solo quello di incontrarli e di convincermi che prima o poi avrei suonato con loro. Per me non si è mai trattato di diventare famoso, ma soltanto di suonare con musicisti che hanno dato forma alla musica che amiamo. 

Quale pensi sia il tuo «marchio di fabbrica»? 

Non ne ho idea, non ci penso proprio, so di essere una persona che ama suonare un sacco di generi musicali diversi e che ama suonare sia l’elettrico che l’acustico, quindi lascio agli altri, ai giornalisti, capire cosa ci sia dietro!

Ormai molti brani sostituiscono gli strumenti tradizionali con strumenti sintetizzati, rimpiazzando completamente i musicisti, soprattutto per quanto riguarda il ritmo. Tu cosa ne pensi, e qual è il tuo rapporto con l’elettronica? 

A me piace mischiare musicisti in carne e ossa con l’elettronica, quindi penso che sia naturale farlo in questo modo e questo è il modo in cui penso di usarla. Ho avuto band con sintetizzatori e mi sono divertito anche con quelli, ma ho anche bisogno degli strumenti tradizionali, specialmente per quanto riguarda le sezioni ritmiche.

Il miglior album su cui hai suonato e perché? 

Guarda, ho suonato su centinaia e centinaia di dischi, quindi non saprei nemmeno da che parte cominciare. Sicuramente tutti quelli con Wayne e Chick, si è sempre trattato di lavori molto personali.

Quali sono i tuoi progetti? 

Voglio continuare a scrivere per formazioni più ampie. Sto componendo per orchestra, cerco di espandere il mio stile, lavoro a progetti diversi con persone diverse. Poi voglio trascorrere più tempo con mia moglie. Inoltre sono molto coinvolto nelle attività della mia chiesa e cerco sempre di seguire il percorso che Dio mi ha dato.

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