Jo Stafford: tra garbo e ironia

di Luciano Federighi

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Jo Stafford
Jo Stafford (Foto: Metronome/Getty Images)

Jo Stafford, una delle più popolari cantanti del Novecento americano

Bionda californiana dalle radici appalachiane (i suoi si erano trasferiti nella petrolifera e sismica Coalinga dal Tennessee orientale, lasciandole in eredità una parlata dal sapido relax e sereni echi folk e protestanti nel variegatissimo repertorio), Jo Stafford (1917-2008) ha rappresentato sotto diversi aspetti, con il suo sobrio ma penetrante charme, la controparte femminile del pur tanto diverso Frank Sinatra, che nei primi anni Quaranta fu al suo fianco nell’orchestra di Tommy Dorsey.

Entrambi (lei proveniente da un’educazione musicale formale) studiarono la tecnica di respirazione del trombonista per sviluppare un portamento canoro di rara ampiezza e naturalezza, privo di apparente tensione; entrambi ebbero in Matt Dennis un meticoloso istruttore vocale e un punto di riferimento come songwriter di grande finezza melodica (Let’s Get Away From It All e Everything Happens To Me); ed entrambi, pur in modi distinti, rivelarono un singolare talento per bilanciare romanticismo e sense of humor. La distanza sarebbe sempre rimasta notevole. Frank era certamente più attore, più vicino alla poesia delle parole, come avrebbe confermato attraverso una doppia, formidabile carriera. Jo, che con Dorsey appariva soprattutto come lead singer e unica presenza femminile nell’eccellente gruppo vocale dei Pied Pipers, spesso a fianco dello stesso giovane blue eyes (ma conobbe anche hit con Little Man With A Candy Cigar e un Yes Indeed! in bianco e nero, cantato con parco swing insieme a Sy Oliver), era invece una pura melodista, pur attenta al complessivo equilibrio lirico dell’interpretazione: una fraseggiatrice dalla fluidità e grazia quasi «strumentali» (caratteristica accentuata da una minima presenza di vibrato) e dalla elegante rotondità tonale. Ma una volta usciti dall’entourage dorseyano, tra i primi, in quell’epoca, a essere cantanti solisti tout court, fuori dal contesto orchestrale, l’uno e l’altra conquistarono un analogo ruolo di figure guida del canto pop nordamericano. La voce di Jo Stafford, dal centro cremoso, suggestivamente e talora severamente ombreggiato, e dai ricchi, setosi margini acuti, raggiunti e tenuti con esemplare distensione, una voce, appunto, sempre molto parca di vibrato e precisa (ma con una sottile grazia colloquiale) nell’enunciazione, costituiva un caso raro di felice miscela tra understatement e ampiezza di proporzioni. Ogni sua interpretazione era governata da una preziosa moderazione stilistica, che non vuol sicuramente dire anonimato o freddezza. La sua tornita sobrietà, anzi, le consentiva di toccare la fantasia e i sentimenti di un pubblico vastissimo, che apprezzava – evidentemente – anche il suo eclettismo garbato, venato di ironia (in una certa misura affine a quello di Bing Crosby, altra creatura dell’Ovest, ma meno scanzonato), esercitato in centinaia di registrazioni – post-Dorsey – per la Capitol e la Columbia nell’America di Roosevelt, Truman e Eisenhower.

Sempre sotto la guida del marito Paul Weston, brillante arrangiatore, pianista e bandleader, anch’egli alunno di Dorsey, molte di queste registrazioni, dalla natura profondamente diversa, tra la nobiltà di Broadway e una frivolezza di verace gusto novelty, diventarono successi dalla risonanza epocale. C’era Candy, duetto del 1945 con il suo «mentore e dio» Johnny Mercer (e ancora con i Pied Pipers), quindi Feudin’ And Fightin’, giocoso bozzetto western del 1947, il loesseriano My Darling, My Darling del 1948, uno dei primi incontri con Gordon MacRae, baritono impostato in chiave operistica ma anche rilassato e capace di levità ritmica (l’insegnamento di Crosby era valso anche per lui), un Haunted Heart dalle ombre satinate (raccolto nel 1950 con altre ballad di Broadway nell’album «Autumn In New York»: la canzone di Vernon Duke la vedeva lanciare una splendida sfida a Sinatra), Ragtime Cowboy Joe, euforico schizzo da saloon dell’Ovest, con il quartetto vocale degli Starlighters (1949: calata nel ruolo, Jo commentava l’assolo di piano honky tonk di Joe «Fingers» Carr con gridolini di incitamento à la Bob Wills, ma sempre compassata e signorile), e Some Enchanted Evening, la solenne e spaziosa ballad da South Pacific di Rodgers e Hammerstein, ricondotta a una limpida dizione, lontana della pronuncia farraginosa del grande Ezio Pinza.

Jo Stafford
Jo Stafford (Foto: Allan Grant/The LIFE Picture Collection/Getty Images)

Sul finire del 1950 la lettura di Tennessee Waltz provava a tenere testa a quella commercialmente epocale di Patti Page; e nel 1951, insieme a In The Cool Cool Cool Of The Evening, uno dei curiosamente assortiti ma saporosi e animati duetti con Frankie Laine, arrivava il singolare Shrimp Boats, con il coro di Norman Luboff e il clavicembalo di Weston, il quadro di una comunità di pescatori cajun («Mentre la luna della Louisiana galleggia lassù…») articolato tra il rapido refrain, danzante e celebrativo, e il verse senza tempo e descrittivo. You Belong To Me di Pee Wee King e il Jambalaya di Hank Williams illustrarono nel 1952 rispettivamente il volto sentimentale e quello giocoso, insieme danzante e gastronomico (di nuovo in una Louisiana mezzo francofona) della canzone country, un genere sul quale Jo, nei panni di «Cinderella B. Stump», aveva già esercitato nel 1947 il suo irresistibile gusto parodistico, giocando con virtuosistiche asprezze e stonature, in Temptation (Tim-Tay-Shun) del comico e violinista Red Ingle (Jo e Paul avrebbero poi ampliato l’esercizio di parodia musicale nei bizzosamente aggriccianti duetti a nome Darlene e Jonathan Edwards). Ancora nel 1954 la hit parade accolse in prima posizione Make Love To Me!, che altro non era che il travestimento dell’antico standard del jazz Tin Roof Blues. Una carriera pop tanto intensa quanto relativamente breve, con una parabola discendente – a livello commerciale – affrettata dall’avvento del rock’n’roll. Anche se, per una buffa ironia, quando a Jo capitò di cantare il rock’n’roll (quello di gusto adulto e gospel di un 45 giri di fine decennio, What A Feeling, firmato da Rose Marie McCoy e arrangiato con brio jazzy da Billy May), si rivelò come poche asciutta e incisiva, una swinger calma e di classe pura che avrebbe potuto – al di là del gap generazionale – essere partner esemplare per un Elvis o un Bobby Darin. Le sedute Columbia di «Jo + Jazz», realizzate nell’estate 1960 e più tardi ripubblicate sull’etichetta di Jo, la Corinthian, si collocavano nella fase di minore risonanza per la cantante (le cui ultime apparizioni nella parte alta della hit parade risalivano al 1955, con il corale e malinconicamente sentimentale It’s Almost Tomorrow), per quanto di sempre piena visibilità, tra concerti («Live In London, 1959», con alcuni dei suoi brani preferiti – Yesterdays, Any Place I Hang My Hat Is Home, I Should Care – resi con una facilità tecnica mascherata dall’eleganza colloquiale) e televisione (l’inglese Jo Stafford Show del 1961, magico nel fittissimo medley con Ella Fitzgerald, tra torchy e soleggiato) e album infarciti di gemme dal più nobile songbook americano, sino al pregevole lp Reprise del 1963 dedicato all’antico leader, «Getting Sentimental Over Tommy Dorsey», con vibranti partiture di May e Benny Carter. Rispetto ai pur eccellenti lp Columbia che lo avevano preceduto, con Weston e gli Starlighters (il fortunato «Ski Trails» del 1956, con un bel repertorio invernale, seguito da «Once Over Lightly» con il fisarmonicista jazz Art Van Damme, molti episodi gershwiniani e un memorabile Gypsy In My Soul, quindi da «Swingin’ Down Broadway» del 1958, con un Love For Sale movimentato da Billy May, il seducente «Ballad Of The Blues», articolato percorso tra atmosfere bluesy, e il nostalgico «I’ll Be Seeing You» del 1959), «Jo + Jazz» aveva comunque il merito di illustrare la completa maturità dell’interprete in un fluido e dinamico contesto jazzistico, libero da ogni compromesso.

Serena, compassata, la Stafford quarantenne si integra preziosamente negli swinganti arrangiamenti tratteggiati da Johnny Mandel (diverse le presenze ellingtoniane tra ottoni e ance, con Johnny Hodges e Ben Webster in primissimo piano: e un danzante, ispirato Jimmy Rowles alla guida della ritmica West Coast, con Mel Lewis e Shelly Manne ad alternarsi tra pelli e bacchette) e si cala in un repertorio di grandi standard distillandone letture di un terso lirismo, spoglie di dramma e – nel loro sottile e quasi regale distacco – placidamente cordiali. C’è un morbido velo di mistero sulle armonie in chiaroscuro di You’d Be So Nice To Come Home To e una dignitosa tenerezza (mai un segno di fragilità) in un Imagination magistralmente bilanciato tra un cremoso sottovoce e limpide e controllate aperture di volume: e se lo swing di What Can I Say After I Say I’m Sorry e di For You la stimola a un gioco composto e gentile di contrazioni e accelerazioni, di modulazioni blue, le immagini algide e i colori boreali del testo di Johnny Mercer per Midnight Sun trovano un’ideale complementarità nella larga trama di ombreggiature e trasparenze d’alba del canto.

Particolarmente felici sono le escursioni nel repertorio di Ellington: l’arioso legato della Stafford restituisce in tutta la sua purezza e seduzione la melodia di I Didn’t Know About You (da lei già affrontata nel 1944 e qui commentata con agilità e carnosa eloquenza dal sax tenore di Webster, una voce che contrasta irresistibilmente con la sua), e trova una suggestiva consonanza di respiro con la «vocalità» del contralto di Johnny Hodges in Just Squeeze Me e in un delicatamente arcano Day Dream.

Luciano Federighi

[da Musica Jazz, settembre 2018]