«Blue Horizon», «Offering». Intervista a Ramon Moro

Due nuovi album per il poliedrico trombettista e compositore torinese. Ne parliamo con lui.

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Ramon, prima di approfondire «Blue Horizon», il tuo ultimo album, parliamo di te. Dove vivi?
Vivo a Torino, nel cuore pulsante della città, a due passi da piazza della Repubblica, Porta Palazzo, ovvero un crocevia inimmaginabile di culture, di scambi, di commercio, di integrazione.

Hai un passato musicale parecchio intenso e variegato. Ti ho conosciuto con i 3quietmen, ma ti occupi di sonorizzazioni dal vivo e hai diverse collaborazioni. Ci vorresti parlare del tuo background artistico?
Sì, i 3quietmen nascono nel 1999, dopo un po’ di concerti in zona torinese, partimmo per suonare al festival jazz di Magdeburgo e da lì poi tanti altri bei appuntamenti. Indimenticabili. Poi ho conosciuto Paolo Spaccamonti, chitarrista, amico e musicista con cui mi trovo particolarmente bene, abbiamo entrambi una visione molto desertica e di viaggio della musica. Con lui ho fatto molti concerti in duo, la colonna sonora del film I Cormorani e in questi ultimi due anni abbiamo portato in molti festival del cinema e prestigiose location la sonorizzazione dal vivo del film Vampyr di C.T Dreyer. In due occasioni abbiamo collaborato con due ospiti dell’eccellenza, il batterista australiano Jim White e la violoncellista canadese Julia Kent. Ho collaborato con musicisti e artisti di ogni estrazione e genere, la band punk rock Fluxus, con entrambi i leader del gruppo Mau Mau, nei loro progetti solisti, artisti di arte contemporanea (Masbedo, Botto e Bruno, Sciaraffa), di danza, teatro, cantautori, sempre cercando di mantenere una mia impronta ben definita. Una dozzina di anni fa ho iniziato un mio percorso in solo, arrivando ora ad avere un secondo strumento con me, un set con pedaliera di effetti e due amplificatori.

A proposito: i 3quietmen che fine hanno fatto?
I 3quietmen hanno all’attivo sei album pubblicati, due dei quali con il pianista Stefano Battaglia. Ci siamo presi una pausa ma siamo molto legati, anche oltre la musica. Abbiamo molta voglia di fare. Ci sono un appuntamento importante in vista e scritture in atto.

Qualche tempo fa hai pubblicato con lo pseudonimo daRKRam un concept album dark ambient black metal. La prima domanda è perché hai voluto utilizzare uno pseudonimo?
Mi affascina avere uno pseudonimo e poi volevo che quell’album appartenesse ad un mondo un po’ più distante, che avesse un altro canale.

La seconda: nella tua musica ci sono sempre riferimenti sia al dark che all’ambient. Il metal è un’altra tua passione?
Passione è un po’ eccessivo, adoro i Pantera e dico sempre che ai bambini bisognerebbe insegnare il solfeggio con i loro brani. Ascolto però cose molto diverse, black metal, doom, mi piacciono molto le sonorità lente e basse, profonde, quasi funebri. Ad ogni modo secondo me parte tutto da Mahler, Wagner, Šostakovič.

Capisco che le tue frequentazioni musicali sono molteplici. E mi sembra che tu riesca a fonderle perfettamente nella tua musica. Il jazz quale posto trova nelle tue frequentazioni musicali in termini di tempo? In pratica, è arrivato prima o dopo le altre musiche?
Dai tredici, quattordici anni fino ai venticinque ho praticamente ascoltato solo jazz, dagli anni venti fino alle ultime uscite, ma nella musica e nel mio modo di esprimermi ho sempre cercato di non avere un linguaggio jazz. Forse per timore di scimmiottare qualcuno di inarrivabile e anche per non uniformarmi.

Perché hai scelto la tromba come tuo strumento musicale?
Perché la prima volta che l’ho sentita suonare non riuscivo più a smettere di piangere, ero piccolo, ma attualmente se è suonata bene mi fa ancora quell’effetto.

Parliamo del tuo ultimo album in quartetto. Partirei dai tuoi sodali: ce ne vorresti parlare?
Contrabbasso, Federico Marchesano, ci conosciamo penso da venticinque anni, bassista dei 3quietmen e musicista straordinario. Emanuele Maniscalco al pianoforte, nonché raffinato batterista, ma adoro come suona il pianoforte e come interpreta i miei temi. Nel 2019 ho pubblicato insieme a lui l’album «Dreams». Alla batteria Zeno De Rossi, noto per le innumerevoli collaborazioni con artisti a livello internazionale, la sua classe e la naturalezza del suo tocco fa da legante nel sound del quartetto.

Come si diceva prima, nella tua musica affiorano tutte le tue scelte in ambito musicale. E proprio l’inizio dell’album con White Dragon le mette assieme. In alcuni passaggi, però, si ascoltano anche riferimenti alla classica contemporanea. Mi sbaglio?
No, non sbagli, sono d’accordo. Penso che il primo brano racchiuda tutto il disco e dia l’idea perfetta della direzione del quartetto.

Nell’ascolto si passa da ambienti inquietanti come in Untie Me a figurazioni più oniriche e romantiche come Albedo. Ci parleresti della genesi di questi due brani?
In entrambi i casi ed è una cosa che vale per tutti i brani, sono come delle visioni, mi capita di visualizzare quasi un sentimento, un’emozione e ho un bisogno immediato di una linea melodica che gli dia una forma.

In generale, segui un rituale o delle formalità quando componi?
Parto sempre da un’idea melodica, una sorta di filo che giro e rigiro e fin quando non ottiene una forma libera e fluente il tema non è compiuto.

Ti senti più legato alla tradizione jazzistica statunitense o a quella europea?
Che bella domanda, mi mette un po’ in crisi. Come si fa a non amare i miti del jazz americano, Dizzy, Monk, Mingus, Miles, Coltrane, da giovane andavo pazzo per queste cose, poi ci si raffredda un pochino, si rallentano i ritmi e si scoprono anche altre cose. Però se si parla di tradizione, il jazz è nato negli Stati Uniti, non si discute.

L’album è inciso con l’etichetta berlinese Aut Records. E’ da tempo che collabori con questa casa discografica?
No, è la mia prima collaborazione con loro, mi sono trovato molto bene, molto gusto nelle scelte, giovani e dinamici.

Un’altra curiosità: la bellissima copertina del cd cosa rappresenta?
E’ stata fatta da Roberto La Forgia, graphic designer molto bravo. In copertina un uomo inscatolato su fondo desertico, nel retro copertina l’uomo non c’è più, ma se si apre il cd e si entra in «Blue Horizon» lo si ritrova eretto ed energico.

Oltre a «Blue Horizon» fresco di stampa troviamo anche «Offering», che hai inciso con un’etichetta indiana. Ci parleresti di questo tuo ultimo lavoro? «Offering» è una vera e propria offerta, tutto quello che potevo offrire in questo momento della mia vita in cui sto bene. Quando pubblicai «Stone and Death» con lo pseudonimo daRKRam, iniziai a presentarlo dal vivo in solo e dopo due anni i brani subirono una trasformazione. Nel frattempo avevo scritto anche altri brani e sentivo l’esigenza di fissare tutto questo materiale. Ho aggiunto anche due cover, se così si possono chiamare. Il Recuerdos de la Alhambra, brano per chitarra classica di Francisco Tàrrega e l’Adagietto della Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, due sfide a cui tengo particolarmente. La copertina è stata disegnata dall’artista Danijel Zezelj, illustratore, grafico, fumettista e animatore croato.

Qui la musica è di tutt’altra pasta: è dura come la roccia e scura come le tenebre! Insomma, il dark è il tuo linguaggio musicale preferito?
La scrittura e soprattutto le sonorità del mio progetto in solo sono sicuramente molto scure, ricordano a tratti ambientazioni gotiche o neoclassiche e rappresentano molto il mio stile e la mia persona.

Perché hai scelto un’etichetta indiana?
Arun Natarajan, giovane architetto, musicista che gestisce l’etichetta era estremamente entusiasta della mia musica e per me questa è la cosa fondamentale e poi mi affascinava provare ad aprire i mercati verso mondi orientali.

Ramon, pensi che la percezione dell’arte, dello spettacolo da parte della gente è cambiata in conseguenza della pandemia provocata dal Covid-19?
Io penso che quando alla gente togli la possibilità di usufruire di determinati servizi, teatri, cinema, musei, locali, inizi a chiudersi in se stessa e vada alla ricerca delle stesse cose in modo diverso e con mezzi diversi. Penso che in questo anno molte persone si siano riavvicinate alla lettura, all’ascolto della musica in modo più attento. Quasi tutti i musei hanno aperto virtualmente le porte cercando di mantenere un contatto con il pubblico. Non si può vivere senza arte e la gente l’ha capito, tutti tranne chi sta al potere in Italia. Ma c’è una grande voglia di fare e di conseguenza di usufruire. Speriamo in bene.

In questo periodo molti tuoi colleghi hanno utilizzato lo streaming. Tu, cosa ne pensi di questo mezzo?
Fantastico, se fatto in un certo modo, con la giusta intenzione e soprattutto con determinate condizioni tecniche. Penso inoltre che sia un mezzo che rende bene per determinati condizioni musicali, situazioni intime. E’ una questione di potenza sonora, se la gran parte della resa del concerto dal vivo la vuoi rendere con i volumi, il suono e la potenza, dubito fortemente che possa rendere in streaming. E poi c’è tutto l’aspetto economico, la gente è abituata a pagare un concerto in streaming?

Quale è il libro che si trova adesso sul tuo comodino?
Manuale di pulizie di un monaco buddhista, Keisuke Matsumoto.

 

L’ultimo disco che hai acquistato…
Dico la verità, ascolto molta musica online, è veramente molto tempo che non compro un disco, l’ultimo l’ho comprato ad un mercatino, un disco di Michel Petrucciani e Stéphane Grappelli.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Scrivere un secondo disco per il quartetto, intraprendere un lungo percorso legato alla voce, mettere in piedi un’altra sonorizzazione, scrivere un altro disco in solo.
Alceste Ayroldi