«Nijar». Intervista a Paolo Angeli

Si ispira a Bodas de sangre di Federico Garcia Lorca il nuovo album del chitarrista e compositore sardo. Ne parliamo con lui.

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Paolo, sei rimasto folgorato da Bodas de Sangre di Federico García Lorca. Quando è avvenuto l’incontro e come è maturata la decisione di dedicargli un album?
Si tratta di un percorso a tappe. Sono partito da La nana del Caballo Grande – pubblicata  da Camaron de la Isla nel disco La Leyenda del Tiempo (1979), tra gli album più importanti della storia del flamenco –  eseguendo il brano in streaming  l’8 aprile 2020, giorno della memoria del popolo gitano. In quell’occasione mi sono limitato all’esecuzione del materiale tematico,  ispirato all’interpretazione del leggendario cantaor che,  insieme a Paco de Lucia, ha determinato le coordinate del flamenco contemporaneo.  Solo in una fase successiva è stato sviluppato musicalmente in relazione al testo di Lorca, approdando ad  una vera e propria colonna sonora dell’opera teatrale.
La genesi di «Nijar» si allinea, in qualche modo, a quella del tuo precedente album «Rade». Ce ne parleresti?
Dopo la realizzazione dell’album Jar’a sentivo la necessità di una musica luminosa, gioiosa, che sapesse di salsedine. Arrivavo da diversi mesi di preparazione di Rade, in cui avevo spostato l’attenzione su questa ode al Mediterraneo. Allo stesso tempo sentivo che Bodas de Sangre – che è decisamente scura e viscerale – pulsava come brace viva. Ho quindi lavorato in parallelo su due album, cercando di tessere un’unica narrazione. La seduta di registrazione da Martin Jane Robertson ha del miracoloso: in due album sono stati registrati in un giorno e mezzo complessivo. Inizialmente pensavo di pubblicarli insieme, come un doppio, in cui da un lato si percepisse la libertà dei confini di Rade e dall’altro ci fosse uno zoom sull’opera di Lorca. Ma il concetto non reggeva, per cui ho eliminato dalla scaletta circa 50 minuti di musica.  Durante quest’anno ho ascoltato ripetutamente tutto questo materiale ed ho iniziato a lavorarci con lo stesso approccio del cinema, montando la musica sulle scene e sugli atti del libro di Federico Garcia Lorca, rispettandone la drammaturgia. È nata una vera e propria colonna sonora strumentale. A quel punto percepivo che era necessario cadenzare il lavoro con sezioni vocali, intagliando la partitura generale con piccoli interventi che si rifacessero a versi estratti dalle aree più rappresentative della tragedia. Ho quindi registrato le parti di voce a Valencia, nel mio home studio, trasformando la struttura dei brani. Ho anche realizzato ex novo l’introduzione di Níjar, un brano con il solo uso delle voci, in cui le sillabe vengono spezzate quasi in una modalità dadaista, ricostruendo in sovraincisione il tessuto canoro.
E’ la prima volta che la tua vocalità si esprime in spagnolo. Mi sembra che sia andata molto bene. So che hai vissuto in Spagna ma, a parte questo, hai avuto difficoltà a sintonizzarti su tali frequenze?

Esiste una versione del libro Bodas de Sangre tradotta in sardo, ma percepivo come una forzatura interpretare il dramma con una lingua che non fosse lo spagnolo. Devo dire che è stato un processo liberatorio. Non avevo mai cantato niente che non fosse collegato alla musica tradizionale sarda o che, in qualche modo, non si rifacesse a questo bacino culturale. È stato molto stimolante interpretare i versi in spagnolo. Vivo in Spagna dal 2005 e mi sento a casa. Tra le altre cose, in Sardegna la dominazione aragonese è durata quattro secoli e tuttora espressioni culturali, quali ad esempio le processioni della settimana santa, sono profondamente intersecate rispetto a quanto avviene nella penisola iberica. Il tipo di approccio è stato una sorta di incontro tra la vocalità sarda, le melodie del nostro canto a Cuncordu e variazioni che caratterizzano i canti più liberi del repertorio flamenco. Non si tratta di un’approccio ortodosso, tantomeno ho la presunzione di considerare Níjar un album flamenco. La tradizione andalusa è stata una fonte di ispirazione  veramente intensa, che mi ha permesso di lavorare liberamente, con uno  spirito creativo privo di tabú.

Paolo Angeli
Foto di Nanni Angeli
Un disco che ha radici profondamente radicate nel flamenco. Come hai agito in fase compositiva?
Dopo aver visto Paco de Lucia dal vivo nel 2010, ho vissuto una crisi intensa che mi stava portando a lasciare la chitarra sarda preparata per tornare alla sei corde. Comprai una flamenca nel quartiere gitano La Mina di Barcellona e ho sofferto diverse tendiniti per approciarmi a questa musica. Fino a rendermi conto che il flamenco non è la mia cultura e che non sarò mai un chitarrista ortodosso, espressione di questa meravigliosa forma d’arte popolare. Penso che il flamenco sia una delle culture musicali maggiormente aperte all’incontro, al meticciato, all’inglobare nuovi mondi musicali. A Valencia non è raro ritrovarsi di fronte a musicisti che provengono dalla tradizione e che la fanno interagire con il jazz, con il progressive, con le musiche mediorientali. L’ultimo album di Jorge Pardo (sassofonista e flautista storico del sestetto di Paco de Lucia e collaboratore di Chick Corea), va in questa direzione: suona flamenco e, allo stesso tempo, è calato nella contemporaneità. Io ho respirato flamenco nelle bettole di Barcellona, facendo le quattro del mattino con grandi interpreti della tradizione (ad esempio il cantaor Rafael Velazquez che esprime il canto più ortodosso e antico, o salao, dal carattere più moderno, in contesti in cui Rosalia si affacciava timidamente e appariva ogni sera come fa di questi interpreti). Andavo ovunque si potesse ascoltare questa forma d’arte e mi sedevo a pochi metri dal tablao, spesso un semplice asse di legno in compensato, in cui si esibiva la bailaora. Ho visto nascere talenti giovanissimi che oggi sono star assolute, che esprimono l’olimpo del flamenco di oggi (ad esempio il bailaor El Yiyo). A distanza di dieci anni quest’humus ha iniziato a maturare con naturalezza, le pulsazioni si sono materializzate tra le composizioni, senza che ci fosse un processo cosciente sul piano compositivo. Ad un certo punto il mio percorso a braccetto con il flamenco è divenuto un discorso esplicito.  Questa musica esprime un suono, un respiro che sento parte del mio percorso artistico e che ora si manifesta in totale libertà. Penso sia leggibile sia nella citazione della Nana interpretata da Camaron de la Isla, in Ramas de Sueños, con la pulsazione arida e minimale della Syguirilla, in Aljibe, che ricorda le Rondeña di Paco, nel crescendo di Jinete, in cui il compas de la Buleria sfocia nel noise. Ma è presente anche nel canto: per quanto sia più vicino alla vocalità gallurese, è evidente il modello canoro di Enrique Morente, un visionario che ha realizzato pagine di immensa bellezza.
C’è anche l’anima di Miles Davis in questo disco?
Ti sarai accorto che volutamente anche la copertina riprende due classici della storia del Jazz: Olè di John Coltrane e Sketches of Spain di Davis. È stato determinante avere alle spalle questi due lavori emblematici per affrontare il rischio di un approccio ‘leggero’ alla cultura iberica. Se ci pensi tutti i grandi musicisti della storia, di qualsiasi genere di appartenenza, hanno subito il fascino della cultura musicale andalusa. Davis ha eseguito una ‘saeta’ che i ricercatori spagnoli fanno risalire a  ‘Se enturbecieron los cielos’ de la Niña de los Peines, una delle voci più belle ed iconiche della storia del flamenco e alle registrazioni sul campo di Alan Lomax. Come sosteneva Enrique Morente, Davis ha ricomposto una sua Saeta, da oltre oceano, mantenendo lo spirito della tradizione andalusa e catapultandola nella contemporaneità.  Nella sua interpretazione, tu continui a sentire che si tratta di Miles e non di un cantaor flamenco. Anche in Tútu nel brano Portia, Miles ripercorre le armonie e le melodie della Solea. Spero di essere riuscito a costruire un discorso simile: parto dall’influenza spagnola ma cerco di portarla dentro il mio mondo musicale.
Miles Davis a parte, chi altri ha fatto da mentore a questo tuo album?
Nei thanks ho ringraziato tutti cantaor, chitarristi, bailaoras e bailaor che ho incontrato in questi anni. Se parliamo di discografia devi sapere che tra le pareti della mia casa ho una mensola in cui ci sono circa 100 cd monografici dedicati ai più grandi interpreti del Novecento e decine di vinili. Ma i veri mentori sono tre: Paco de Lucia, per le continue rivoluzioni che ha apportato nel linguaggio chitarristico, Camaron de la Isla con il suo visionario La leyenda del Tiempo, album del 1979 in cui si rompono gli argini tra i generi, un’opera di attualità assoluta, e Enrique Morente nell’incontro con il gruppo post-punk la Jartiga Nick nell’album Omega (1996): un inno a Lorca e Leonard Cohen in cui i larsen noise delle chitarre elettriche si intersecano con la liricità del suo canto, sospeso tra l’urlo primordiale e la dolcezza del sussurro.
Paolo, continua la tua solipsistica cavalcata discografica, e non solo. Non senti mai l’esigenza di collaborare con altri?
Il percorso di collaborazioni con altri musicisti è stato frustrato da quest’ultimo triennio profondamente complicato. Il post Covid ha comportato un assestamento e una maggiore difficoltà di circuitazione per progetti di gruppo. Sento continuamente questa pulsione. Tra qualche mese verrà prodotto Jalitah, album in duo registrato dal vivo con Iosonouncane, un incontro tra la forma canzone e la free music. Suono spesso in duo con con Iva Bittova e ci sono gli incontri estemporanei con Paolo Fresu. Da poco ho suonato con l’Orchestre des Champs-Élysées: è stato meraviglioso improvvisare con un’orchestra da camera barocca! Oppure in duo con il pianista Marco Mezquida, un talento straordinario, con il suonatore di kora Jabel Kanuteh, e in trio con Cristiano Calcagnile e Gavino Murgia. Le occasioni di esibirsi live ci sono, diventa più complicato strutturare i progetti e mantenerli vivi nel tempo.Ma sento la necessità di una dimensione allargata, con la dinamica che ha contraddistinto gli incontri con Antonello Salis, Hamid Drake, Gavino Murgia e tanti altri compagni di viaggio. Spesso mi sta stretto il binomio Paolo Angeli/chitarra sarda preparata, e proprio per questo credo che nel futuro prossimo ci saranno diverse occasioni per riprendere percorsi inesplorati.
Oramai la tua chitarra sarda preparata è sempre di più, come tu stesso la definisci, una chitarra orchestra. Quanto si è evoluta nel corso del tempo?

È cambiata molto! Se pensi agli esordi del 1996, da allora ci sono state continue trasformazioni. Proprio in questi giorni ho tra le mani il nuovo modello, realizzato nella liuteria Micheluttis di Cremona, che passa da 18 a 25 corde, più vicina al violoncello, con ulteriori eliche per potenziare i bordoni, con un ponte futurista, una fabbrica di rumori, che permette di assemblare uno strumento immaginifico, tributo a Sun Ra, in cui si innestano molle, metalli, e oggetti sonanti. È un work in progress che credo non si fermerà mai.

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foto di Nanni Angeli
Ci sono tuoi accoliti che suonano la tua chitarra?
Pat Metheny dal 2003 ne possiede una copia e l’ha utilizzata del vivo nel tour Orchestrion (nel DVD dal vivo la utilizza nel brano di apertura). A parte Pat, che ha apportato ulteriori modifiche allo strumento. In questo momento sono profondamente affascinato da due musicisti che hanno vissuto storie parallele o separate anagraficamente. Uno è Raul Cantisano, che suona la chitarra flamenca preparata con risultati entusiasmanti e l’altro è Alessandro Santa Caterina che ha realizzato una chitarra battente calabrese preparata e suonata con eliche e archetto. Alessandro è straordinario: è l’unico musicista che ho mai incontrato capace di rendere naturale il passaggio tra Bruno Maderna e la tradizione, un approccio talmente libero, in cui il confine tra colto e popolare si annulla, con una poetica profondamente originale, che sicuramente lo porterà a dei risultati di eccellenza. Ho ascoltato in anteprima il suo nuovo album e lo trovo entusiasmante. Con Alessandro e Raul ci accomunano le eliche e la ramificazione che, partendo dalla tradizione, ci ha portato ad esplorare la musica contemporanea con totale libertà.
A proposito: immagino che tu l’abbia brevettato il modello e opportunamente registrato. Hai mai pensato di produrla e immetterla sul mercato?
Penso che, per mia fortuna, esistano pochi musicisti disposti a suonare con i piedi! (ride, n.d.r.)
Tu sei un ricercatore, un etnomusicologo. Quali sono le tue fonti di ricerca? Come procedi in tale ambito?
Vorrei realizzare il prossimo album con tantissimi musicisti. E vorrei dedicarlo alla frequentazione trentennale della musica tradizionale della Sardegna. Per questo continuo a nutrirmi della musica della mia terra: mi emoziona e mi smuove delle cose che non so spiegare a parole. Quando cantiamo ‘a cuncordu’ e riusciamo a realizzare un passaggio che si eseguiva negli anni Trenta, mi vengono i brividi. La comunicazione musicale è la stessa che usiamo quando improvvisiamo con Hamid o Iva, basata sulla conoscenza di una storia comune, di un percorso e sul cercare una convergenza o dissonanza. Alla fine i processi tra tradizione e innovazione sono molto simili, soprattutto le pratiche di improvvisazione.
Paolo, che ne pensi della musica del Terzo Millennio e, in particolare, di alcuni “accorgimenti” tecnologici come l’auto-tune?
Sono molto attratto dal mondo contemporaneo e, se potessi, farei uso dell’intelligenza artificiale per potenziare il controllo dell’elettronica del mio strumento. Sarebbe bellissimo dare l’input ad un delay solo con lo sguardo e decidere con il pensiero come fare circuitare in un impianto a 360 gradi le note che suoni. In questo senso la nuova tecnologia la trovo molto interessante. Prima del Covid stavamo studiando un live con 36 casse disseminate in una stanza realizzata come una cupola. In questo senso adoro la contemporaneità. L’auto-tune che amo di più è quello dei cantanti arabi che, non capisco se per il tipo di emissione o se è per la cantabilità della lingua, sembra che ce l’abbiano impiantato nelle corde vocali. Credo che, com’è avvenuto per il flanger nelle chitarre elettriche degli anni ’80, siano suoni che invecchiano male, che esprimano un periodo storico ma che non lasceranno un segno importante.
A tuo avviso, il jazz gode ancora di buona salute in Italia?

Assolutamente sì! La scena musicale dei giovani è estremamente effervescente, matura, aperta ai nuovi linguaggi. Forse la scolarizzazione ha reso troppo omogenea una linea più convenzionale, ma continuano ed esserci i battitori liberi, che smantellano i codici con curiosità e rispetto della bellezza di questo genere che ci ha donato capolavori assoluti e che continua a farlo. Inoltre c’è una maggiore apertura e si ragiona meno a compartimenti stagni, con intrecci tra diversi generi musicali.

Foto di Nanni Angeli
E’ da tempo che vivi in Spagna. Come funziona l’industria musicale iberica?
Attualmente vivo a Valencia, sono passati 17 anni da mio trasferimento in penisola iberica. In questo momento c’è una scena molto legata all’incontro tra le tradizioni delle diverse aree periferiche, spesso legate alla terra, e ad una riproposizione contemporanea in connessione con la musica elettronica. Ê un vero e proprio movimento che si può trovare in Galizia, Cataluña, Andalusia e altre aree della Spagna. Si continua a pensare a questo paese con il parametro italiano. In realtà la Spagna è un paese che ha una democrazia giovane, in cui si leggono ancora le ferite della dittatura.  È uno stato che ha a suo interno tante isole linguistiche e culturali. Questo fa si che in base alla regione in cui vivi, difficilmente ti trovi a collaborare con musicisti di un’altra città. Credo che la musica improvvisata in Italia sia più matura e libera. Viceversa qui si respira una maggiore attenzione nelle relazioni tra il passato remoto ed il presente. Un approccio che musicisti come Davide Ambrogio sta portando avanti in relazione alla musica Calabrese. Quello che accade qui è che queste musiche, che da noi risulterebbero confinate in una nicchia, assumono una rilevanza mediatica nell’industria musicale, cambiando i connotati della musica contemporanea Iberica. I primi due album di Rosalia ne sono un esempio prima che abbracciasse un’estetica più commerciale. Un esempio è la grande quantità di cantanti donne che derivano dall’esperienza con la tradizione e la traslazione in ambito ‘pop’ di musiche con un profondo sapore ancestrale.
Invece, come reputi il sistema musicale italiano? Quali sono le cose che vanno bene e quelle meno?
L’Italia è in trasformazione. Il ricambio generazionale inizia a farsi sentire e c’è una maggiore apertura alla babele del mondo di oggi. Non è raro trovare musicisti africani in produzioni allargate. Il suono di domani sarà frutto del nostro tempo. Inevitabilmente anche il jazz sarà più simile alle espressioni di oltralpe, i cui certi processi sono avvenuti con largo anticipo.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e i tuoi prossimi impegni?
L’obiettivo è un lungo tour in Solo, riprendere le collaborazioni storiche e dedicarmi il tempo per nuovi incontri. Potenziare le collaborazioni. Ad esempio si sta definendo l’opportunità di alcuni concerti i duo con la cantante etiope Etenesh Wassie: insomma, c’è tanto pesce al fuoco!
Alceste Ayroldi

A corredo della nostra intervista, uno sguardo su una recente esibizione concertistica del chitarrista sardo: https://www.musicajazz.it/paolo-angeli-dal-vivo/

 

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