«Italian Songbook». Intervista a Luca Aquino

Dopo una pausa forzata di oltre due anni, torna in scena il trombettista beneventano con un album dedicato alla canzone italiana.

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Luca Aquino Foto di Andrea Boccalini

Luca, innanzitutto come stai? A giudicare dalle note, direi bene. Sembra che tutto sia passato.
Dopo due anni e mezzo sto bene, anche perché questo maledetto e meraviglioso tubo d’ottone finalmente suona di nuovo.

Stare fermo due anni e mezzo sarà stata una tortura per chi come te è abituato a fare mille cose. Come hai trascorso questo tempo?
Un periodo difficilissimo che mi ha cambiato profondamente. Ho ascoltato tanta musica, il jazz mi ha aiutato. Ho rivissuto tutto il mio percorso artistico e la mia vita prima dell’incidente e mi sono dedicato allo studio del piano ma io amo soffiare. Non pensavo ai tour e neanche alla tromba. Volevo solo recuperare.

Luca, lo so che è doloroso parlarne, ma qual è stato il momento più difficile? Ti è mai venuto in mente di abbandonare tutto. Meglio, che avresti abbandonato i tuoi amati tromba e flicorno?
Dopo la prima paresi facciale, per un anno mi sono dedicato tutti i giorni alla riabilitazione. Alla tromba pensavo poco. Mangiavo e parlavo con difficoltà e questo era il problema principale. Non riuscivo a interagire bene con le persone. Ero molto fragile ma, allo stesso tempo, avevo una forza pazzesca dentro di me. Un leone ferito, un pino mugo sotto la neve. Mi avevano tolto la parola, in tutti i sensi. Ho impiegato un anno per riacquisire le capacità motorie del viso e poi un altro anno ancora per riprendere a suonare la tromba, ripartendo da zero, rieducando i movimenti e modificando l’impostazione sullo strumento con studi classici che non avevo mai fatto prima. Quando cominciai a suonare, all’età di diciannove anni, la tromba suonò quasi immediatamente, senza particolari problemi e solo ora ho capito quanto sia difficile e ostile questo strumento. I migliori consigli li ho ricevuti da Bobby Shew e da Enrico Rava che si è confermato persona meravigliosa e, come anche altri colleghi, caro amico. E’ stata dura anche dal punto di vista psicologico soprattutto perché, quando finalmente, dopo due anni, avevo recuperato tutto, ho avuto una seconda paresi facciale, all’altro lato. Dalla serie facciamo le cose per bene. Questo forse penso sia stato il momento più difficile, anche se già sapevo cosa fare per recuperare. Per fortuna il secondo episodio è stato molto più leggero, la tromba ha suonato dopo sei mesi ed ora eccoci qua. Consiglio a tutti di leggere il romanzo La strada di Cormac McCarthy affinché si possa realmente comprendere quanto il presente possa divenire l’obiettivo principale, al di là di ambiziose mete. Presente come obiettivo può suonare strano ma non è così.

Ora, riparti dalla e con la Act. Quanto è importante per te far parte della famiglia Act?
La Act è un’etichetta molto importante, con una distribuzione internazionale capillare e gestita egregiamente da Siggi Loch che è un grande manager e amante del jazz ma oggi le etichette discografiche sono tutte in difficoltà per cui è fondamentale che il progetto abbia una sua forza di base e che l’uscita dell’album venga legata ai concerti dal vivo perché oggi i cd di jazz si vendono specialmente nei live.

E riparti dalla canzone italiana. Perché questa scelta?
Mi sono divertito a riprendere le canzoni della tradizione del nostro bel Paese, suonando le melodie che cantavano i miei genitori e nonni in casa quando ero piccolo. Mia zia Pina da giovane aveva una voce penetrante e commovente e, nella famiglia di mia nonna, dal soprannome Rumors, erano tutti musicisti, per cui, durante le feste si ballava, si suonava e si cantava a squarciagola, vino permettendo. Queste atmosfere le ho vissute solo durante i tour con The Skopje Connection. Comunque «Italian Songbook» per me rappresenta un tuffo nel passato per un nuovo inizio.

Ci vorresti parlare di questo progetto che vede diverse collaborazioni?
Il trio base è tromba, pianoforte e fisarmonica e in quattro brani è presente l’orchestra filarmonica di Benevento, con l’aggiunta di Fabio Giachino al piano e Ruben Bellavia ai tamburi, arrangiata magistralmente da Giovanni Francesca. Con Danilo Rea e Natalino Marchetti un feeling immediato. Abbiamo registrato tutto in due ore. Danilo è un poeta, si sa, e Natalino è un fisarmonicista molto raffinato ed elegante, col quale avevo già collaborato nel mio progetto e album «Petra» registrato nel sito archeologico Unesco di Petra, nel deserto Wadi Rum, qualche anno fa insieme a musicisti provenienti dalla Giordania, Iraq, Romania, Afghanistan, Bulgaria e un percussionista di New Orleans. La copertina è un’opera di Mimmo Paladino, col quale, al di là del rapporto professionale, sono molto amico. Fu grazie a lui che conobbi Lucio Dalla che poi cantò in francese il brano La Mer nel mio album «Chiaro» registrato col trio norvegese.

Il canzoniere italiano è sconfinato. Come hai operato le tue scelte?
La lista dei brani iniziale prevedeva più di cento titoli. Inizialmente volevo seguire un tema, un canovaccio, un trade union, attitudine a me cara, ma poi ho semplicemente scelto i brani che amavo suonare di più.

Mi ha colpito molto la scelta – e l’esecuzione – di So che ti perderò di Chet Baker. C’è un legame particolare tra te e Chet?
Chet è il trombettista che amo di più, insieme a Miles. Qualche anno fa avevo un timore reverenziale nei suoi confronti, anche nel pronunciare il suo nome. Ho poi chiamato Chet il mio cagnolino, anche per costringermi a pronunciare il suo nome cento volte al giorno. Su questo brano ho preferito però suonare il trombone a pistoni che, durante questo percorso riabilitativo, mi ha aiutato, avendo un bocchino più largo.

Come hai agito in fase di arrangiamento?
E’ stato difficile. Dopo questa lunga pausa ero poco lucido. In una prima sessione di registrazione avevamo snaturato i brani con arrangiamenti belli ma serrati. Ho cestinato tutto, per registrare daccapo l’album con una nuova session, suonando semplicemente col cuore le melodie, senza troppi paletti e senza alcuna prova. Per quanto riguarda gli arrangiamenti orchestrali dei quattro brani, ho dato massima fiducia e carta bianca a Giovanni.

Luca, perché non hai voluto produrre un disco con brani originali a tua firma?
E’ vero, suona strano, visto che ho sempre pubblicato album originali con mie composizioni, a parte «OverDoors» che però rappresenta un omaggio al messaggio dei The Doors, più che alle loro note. Per produrre musica propria ci si deve scavare per cercar qualcosa dentro, che sia bello o brutto, e io invece questa volta, dopo tante difficoltà, ho preferito rendermi la vita più semplice, partendo da qualcosa già scritto che andasse solo rispettato e soffiato. La Act punta molto ai tributi quindi ha immediatamente sposato l’idea con entusiasmo e il disco sta andando molto bene, raggiungendo luoghi diversi. Oggi ho ricevuto una recensione dall’Uzbekistan e un’intervista da un giornalista di Caracas. Sono contento.

Luca Aquino
Foto di Andrea Boccalini

Comunque, suonare con un’orchestra sta diventando un tuo punto di riferimento. Passi dal duo ai large ensemble. Cosa trovi di diverso, rispetto ad altre tipologie di formazioni?
Con le orchestre mi piace rispettare quel che è scritto, badando al suono e all’interpretazione, in duo è quasi tutto improvvisato e libero. Sono due approcci completamente differenti. Dipende, ovviamente, dal tipo di orchestra e di scrittura e ora mi piacerebbe suonare con un’orchestra libera da schemi e partiture e anche metter su un quartetto nuovo.

In questi due anni di astinenza forzata dai palchi, c’è qualcosa che è cambiato in Luca Aquino?
Sono diventato ancora più Zen.

Luca, hai lasciato in sospeso il Jazz Bike Tour. Porterai a termine questo bel progetto?
Col Jazz Bike Tour sarei dovuto partire, il giorno dopo il mio primo infortunio, da Benevento, con bici e tromba, fino a Oslo, in cinquanta giorni, pedalando di giorno e suonando la sera in festival, luoghi d’arte, club, teatri, piazzette e borghi antichi, con musicisti e artisti provenienti dall’Europa e dal Medio Oriente. Quaranta concerti, organizzati in otto nazioni, insieme al manager del progetto Andrea Scaccia, come me appassionato di ciclismo. Il sottotitolo del tour era Wheels not Walls, un viaggio su due ruote oltre muri e barriere, un cammino nel segno della musica e della sua capacità di avvicinare culture e accorciare distanze. Arte, sport, jazz, economia verde, natura, riverberi, avventura, arte culinaria, amicizia, accoglienza, solidarietà e un po’ di follia. Il tour in bicicletta era un sunto di tutte le esperienze e passioni vissute fino a quel momento. Ho sempre pedalato, una passione trasmessa dal mio adorato papà. Per ora ancora non riesco a risalire su una bici ma sono una persona caparbia quindi si vedrà.

 Luca, di Riverberi Festival cosa mi dici?
Riverberi è la mia gioia e fonte di orgoglio. Un festival di musica che l’anno prossimo compie dieci anni e che, in un territorio completamente abbandonato come la città di Benevento e la sua provincia, riesco a portar avanti, senza scendere a compromessi con nessuno e mandando via chiunque, politico o non, voglia metterci le mani su. Lo si organizza in piccoli borghi storici, chiostri, cortili, corti private, chiese e luoghi dotati di un suono e riverbero naturale, affascinanti cornici la cui storia e architettura, al di là della presenza visiva, rappresentano parti fondanti di un’indagine uditiva dello spazio, che condensa, a sua volta, suggestioni, rimbalzi e attese. E’ l’artista che adatta il proprio suono e la propria esibizione alla location e non viceversa. Riverberi non vuole raggiungere grandi numeri, è secondario. Preferiamo la qualità.

Chi è il tuo artista (bada bene, non solo musicista) di riferimento?
Jon Hassell.

Tu sei laureato in Economia. Ti è tornata utile la tua laurea nel settore della musica?
Si, so programmare e gestire i miei progetti musicali con visione lungimirante, badando non solo al breve periodo, e riesco a guardare e studiare il mercato con lucidità e capacità di analisi. In questi due anni e mezzo però son cambiate troppe cose.

Di cosa ha bisogno il jazz in Italia?
Sono appena tornato da San Pietroburgo dove ho tenuto una masterclass e un concerto. La sera dopo sono andato ad una jam session in un locale dal nome The Hat e sono rimasto esterrefatto dall’età del pubblico. Erano tutti ventenni, appassionati di jazz, a far foto e video con i loro cellulari a musicisti acclamati e osannati. In tutta la mia vita non ho mai visto tanti ragazzini a una jam o a un concerto. Neanche a New York. Mi sono chiesto come mai. Di certo le scuole di musica sembra funzionino in Italia e anche in Europa, come in Russia, ma la differenza è che lì nei taxi, nei locali e nelle hall degli alberghi loro ascoltano jazz, R&B, Soul, Blues, musica classica. Parlo di musica trasmessa dalle radio! In Italia, a parte Radio Rai 3 e qualche altra emittente, si ascolta solo Pop e quel che resta della musica Indie. Nulla contro il pop, ma di certo la fa da padrone nelle nostre stazioni radiofoniche e, come sappiamo, essendo una musica più semplice vince facile. Detto ciò ritengo il tutto forse debba partire dai piani alti. Il termine cultura deriva dal verbo latino colere, «coltivare» e spetta al Ministero dei beni culturali comprendere, una volta per tutte, che il jazz oggi può essere considerato al pari di altre musiche perché ben radicato nel nostro Dna e quindi andrebbero rivisti i criteri generali delle percentuali di ripartizione dei contributi allo spettacolo.

Cosa è scritto nell’agenda di Luca Aquino? A quali progetti stai lavorando?
Ho tanta voglia di suonare dal vivo, di far ascoltare il mio nuovo suono, per me ancora più bello di prima, e il mio nuovo modo di suonare jazz, più viscerale e diretto, meno pensato. Per ora porto in giro il progetto “Italian Songbook” in trio, con pianoforte e fisarmonica, ma per l’estate sarà pronto il mio nuovo progetto in solo tromba e una nuova band con composizioni mie.

Cosa è scritto nel cassetto dei desideri segreti di Luca Aquino?
Qualche anno fa suonai con Sting e, da allora, i mio sogno è stato sempre suonare con i Depeche Mode.
Alceste Ayroldi