Ha la sinuosa e piaciona eleganza dell’entertainer, ma con la grinta del crooner dall’anima soul. Allan Harris, cantante e chitarrista di New York, ben noto al pubblico italiano anche per le sue residenze artistiche a Umbria Jazz, licenzia un nuovo album tutto dal vivo.
Ciao Allan, è nelle performance dal vivo che ti esprimi al meglio?
Le mie esibizioni dal vivo mi permettono non solo di suonare e mettere in scena la mia storia in tempo reale, ma mi danno anche il piacere di sentire la reazione immediata del mio pubblico, creando un ponte emotivo reciproco. Quando ascoltano i miei dischi, non ho il privilegio di vedere la loro reazione, quindi apprezzo molto il fatto che siano presenti di persona.
Ci parleresti dei musicisti che ti accompagnano e quali sono i motivi per cui li hai scelti?
I musicisti che mi accompagnano variano da progetto a progetto. Valuto attentamente ogni musicista prima di farli venire con me in tournée o di partecipare a uno dei miei numerosi spettacoli. Ciò che un artista propone in alcuni spettacoli può non essere necessariamente compatibile con le altre mie performance. Anche la chimica tra loro deve essere sempre compatibile, un musicista può non trovarsi bene con un altro e questo non ha nulla a che fare con il livello di abilità del suo strumento. Credimi, a volte è una linea sottile quella che separa un grande spettacolo da uno che è paragonabile a una estrazione di denti se non c’è lo stesso spirito tra i musicisti.
Il fatto che tu sia chiamato il re del jazz vocale di New York ti disturba, ti rende orgoglioso, oppure è un peso per te?
Quando si parla di me come «il Re del jazz vocale di New York», non do davvero credito a questo genere di cose. Detto questo, sono pienamente consapevole che un’etichetta deve essere applicata a ciò che si fa, quindi sì, mi fa piacere che qualcuno voglia usare questo termine per descrivermi. Ma ho troppo rispetto, amore e ammirazione per i miei colleghi per attribuirgli troppo valore. Per rispondere alla tua domanda, comunque, non è affatto un peso, ma non aggiunge né toglie nulla all’opinione che ho di me stesso.
Chi è stato il tuo mentore?
Il mio mentore è stata innanzitutto mia madre, originaria del Sud. Da bambina raggiunse i membri della famiglia ad Harlem, dove si scoprì che era un prodigio del pianoforte. La sua influenza sul mio sviluppo come artista, come persona e come uomo è, anche ora dopo la sua scomparsa, molto forte. Ci sono altre persone che mi hanno trasmesso molta conoscenza e molto amore, non credo ci sia abbastanza tempo per nominarle. Ma una persona che spicca è il grande Tony Bennett, che mi ha mostrato che il dono che avevo nel cuore doveva essere risvegliato per poter crescere. Non solo lo ha risvegliato, ma lo ha fatto con pazienza e amore! Mi manca molto questo incredibile uomo.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
In questi giorni sto scrivendo un nuovo spettacolo che unisce sonetti e poesie da Shakespeare a Maya Angelou al mio linguaggio jazzistico e lo presenterò a New York al Birdland Jazz Club dal 29 al 31 marzo. Il mio pubblico, che ne ha ascoltato piccole parti, si è detto entusiasta di venire ad assistere allo spettacolo intero.
Alceste Ayroldi