«Mysterium Lunae». Intervista a Lorenzo De Finti

Nuovo ed esplosivo disco per il pianista milanese, pubblicato dalla Losen Records.

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Buongiorno Lorenzo e benvenuto sulle pagine di Musica Jazz. Dunque, facendo due conti, da «We Live Here» a «Mysterium Lunae» sono passati sei anni. Cosa è successo in questo periodo di tempo?
Sono successe tantissime cose, perlopiù inaspettate. «We Live Here» ha segnato per me lo spunto per un  percorso sonoro e compositivo nuovo e diverso da ciò che avevo fatto fino a lì, dopo anni dedicati al jazz elettrico: una ricerca di spazio, di sonorità quasi cameristiche con al centro il pianoforte e la sua galassia infinita di sonorità. Da qui è nata anche l’idea del quartetto con tromba, più come “ensemble” che come tradizionale line up jazz. Il progetto, prodotto e lanciato dall’etichetta norvegese Losen Records, ci ha dato da subito visibilità internazionale, dapprima a livello di stampa specializzata, poi a livello concertistico. Abbiamo lavorato tanto per questo ma una sovrabbondanza così non ce l’aspettavamo. Con «Love Unknown», il secondo album, abbiamo girato l’Europa in lungo e in largo, fino a che la pandemia non ci ha fermato. Ma con «Mysterium Lunae» tutto è ripreso e la prima parte di tour Europeo conta 25 concerti. E andremo anche in Canada!

Ora, nel merito di questo tuo ultimo lavoro, perché hai scelto questo titolo?
I brani sono stati concepiti e scritti da me e Stefano Dall’Ora, a distanza, nel pesantissimo periodo del lockdown 2020. Lessi in quei giorni di una metafora usata dai primi cristiani per indicare se stessi: povera gente, oscura e spesso buia, ma risplendente di una bellezza data da una luce non propria (come la Luna, splende perché il Sole la inonda: da qui,  Mysterium Lunae). In mezzo a tanta negatività avevo bisogno di cercare sprazzi di luce e di bellezza, per cui quell’espressione mi ha catturato e ho cercato di raccontare i Mysteria Lunae che ho potuto vedere intorno a me.

Mysterium Lunae è anche il titolo del singolo. L’uscita di un singolo era qualcosa che apparteneva al pop, rock, soul e così via, ma è diventato un costume parecchio praticato anche nel jazz. Nel tuo caso, lo scopo qual è (o qual è stato) e quali sono stati i risultati dal punto di vista commerciale?
Ci sono molte persone (appassionati e addetti ai lavori) che ci seguono, che chiedono di noi sui social, che si iscrivono alla nostra newsletter, che desiderano ascoltare la nostra musica. Piaccia o no, nel nostro tempo tutto viaggia in modo velocissimo e non dar notizia di sé non pubblicando nulla per il tempo fisiologico di concezione, scrittura e realizzazione di un album, spesso può essere “letale”: far uscire un singolo senza ovviamente che ciò stravolga l’iter compositivo né che vada a impoverire la qualità del tessuto musicale e di esecuzione/ registrazione, aiuta a tenere l’attenzione alta, sia quella del pubblico e degli addetti ai lavori, sia la nostra, come continua sfida a migliorare ciò che si è fatto in precedenza.

Ci parleresti dei tuoi compagni di viaggio?
Con Stefano Dall’Ora suono e collaboro da quando ero un ragazzino: il suo stile contrabbassistico, penso unico e irripetibile, è una sintesi  dell’immensa cultura musicale che lo caratterizza, il suo approccio spazia dal contrappunto quattrocentesco ai Led Zeppelin, con una profondità di conoscenza non comune. Tutti i brani dei nostri tre album sono stati scritti a quattro mani con lui. Marco Castiglioni, oltre ad essere un batterista di livello internazionale, è un musicista di estrema intelligenza tanto da riuscire a calarsi perfettamente in un repertorio molto complesso per il suo strumento, grazie ad enorme lavoro di ascolto, prova, immedesimazione e confronto continuo. Alberto Mandarini è a mio avviso uno dei più importanti trombettisti italiani per tecnica, sonorità, intuizione improvvisativa. Per anni ha fatto parte di contesti noti in tutto il mondo (vedi L’Orchestra Instabile” da un lato, o i gruppo di Paolo Conte dall’altro) ed è con noi dal 2020 dando un contributo fondamentale soprattutto nella ricerca di una maggior libertà formale nello sviluppo dei nostri brani. Io ritengo siano davvero tre fuoriclasse e sono impressionato da come, con tanto lavoro, si sia creata un’intesa fortissima tra di noi. Alberto è con noi dal 2020, prendendo il posto lasciato vacante da Gendrickson Mena, meraviglioso trombettista cubano da anni in Italia che iniziato il percorso con noi per poi decidere di seguire altre strade.

La tua musica è fortemente influenzata dalla matrice jazzistica europea. Al di là della tua appartenenza geografica, quali sono le affinità che senti con questo emisfero jazzistico?
Ormai sono decenni che il jazz europeo esiste come entità perfettamente autonoma rispetto alla matrice originaria afro-americana: ho notato in molti musicisti, soprattutto nord-europei, una capacità di osare, di cercare nuove strade, di esplorare nuovi territori e nuove sonorità, più profonda e attenta rispetto a quella mostrata negli ultimi anni da musicisti americani o di altre parti del mondo. Ovviamente è una mia impressione e quindi non fa testo, nel modo più assoluto, ma a livello di affinità mia personale, musicalmente mi sento più vicino ad Esbjorn Svensson che a Robert Glasper. Vedo un approccio più attento alla propria tradizione (ormai anche il rock ne fa parte!), meno superficiale anche nel cogliere elementi della contemporaneità.

Sei brani tutti di spessore, e con una struttura a suite. Come hai agito in fase compositiva?
Con la stessa procedura usata negli altri due album: ho scritto dei brani, a volte completi a volte abbozzati, li ho “provinati” e li ho inviati a Stefano Dall’Ora, il quale ci ha lavorato a sua volta. Poi ci siamo incontrati a abbiamo tirato le somme. La forma della suite ci ha sempre affascinato: We Live Here è una suite di 60 minuti, Love Unknown contiene un mini-suite Return to  Quaraqosh: nel caso di «Mysterium Lunae» abbiamo notato, unendo i brani in fase di mastering, che connessi da tra di loro senza soluzione di continuità suonavano meglio: abbiamo perciò deciso di pubblicarli così, in forma di suite, stavolta senza enunciarlo ufficialmente.

Sono tutte tue composizioni e non vi è la presenza di alcun standard/cover, che spesso rendono “piacione” un disco. Qual è il tuo rapporto con la tradizione jazzistica?
Di massimo rispetto, quasi adorante: parliamo di un patrimonio universale assoluto! Da pianista però mi chiedo: dopo che Bill Evans, Keith Jarrett, Brad Mehldau hanno inciso versioni quasi mistiche degli standard, io cosa posso aggiungere? Penso nulla. Per cui ho sempre preferito rischiare qualcosa di mio, nel bene e nel male piuttosto che percorrere una strada solo  apparentemente più facile. Questo è un aspetto molto significativo nella realtà jazzistica europea: presentare progetti originali. I musicisti italiani che riescono a “fare breccia” in campo europeo portano nella stragrande maggioranza dei casi progetti originali, quasi mai omaggi o tributi.

Nel caso di «Mysterium Lunae» possiamo parlare di un concept-album? Quale storia racconta questo disco?
Io penso di sì, anche se come detto prima è una cosa inespressa e lascio volentieri a chi ascolta l’album l’onere del verdetto definitivo. Certamente in titoli ed ispirazione, l’album risente molto del contesto pandemico in cui è stato concepito e registrato, anche se, a differenza di molti lavori pensati durante quel momento, pone l’accento sui momenti di luce vissuti, piuttosto che sul buio generale. C’è traccia di luce esplicitata nella title track, Mysterium Lunae, come spiegato prima, in Tiny Candle, dove una luce minuscola illumina la tempesta più nera (spero ben descritta dal “tuono” del pianoforte ottenuto appoggiando un foglio di carta su parte della cordiera e dalla distorsione del contrabbasso) e infine in Minuial Enni Arphent, che nella lingua elfica di Tolkien indica un dialogo con l’alba. Mentre Mystery Clock si riferisce al misterioso significato del tempo descrivendo un fantascientifico orologio senza meccanica creato negli anni Cinquanta, Whispers From The End Of The World descrive l’impatto emozionale che mi colpì quando, tornato a casa dopo quattro mesi a giugno 2020 (bloccato all’estero con la mia famiglia da fine febbraio durante una breve vacanza a causa dei progressivi divieti di spostamento e relative chiusure delle frontiere) trovai sul mio computer rimasto acceso durante tutto quel tempo, un accenno di brano di cui mi ero scordato: la melodia mi parve così bella, intensa e drammatica da sembrare un sussurro da un mondo che ormai sembrava non esistere più. Da qui il titolo che poi fu scelto insieme a Stefano: molti critici lo hanno indicato come brano principe dell’album!

Come si colloca «Mysterium Lunae» nel tuo processo artistico e nella tua discografia? Quale ruolo gli attribuisci: un approdo o un nuovo inizio?
Davvero difficile rispondere: i tre album del mio quartetto sono stati scritti e realizzati sotto circostanze molto diverse, come molto diverse sono state le fonti di ispirazione e di influenza. In Mysterium Lunae abbiamo esercitato più libertà, estremizzato il linguaggio, esasperato gli opposti dinamici, per cui trovi silenzi e spazi sconfinati accanto a vere esplosioni di stampo rock… ora siamo impegnati in un lungo tour europeo, non stiamo ancora pensando al passo successivo. Tutto è aperto, attendiamo qualche suggerimento dalla realtà, come sempre…

Quali forme di distribuzione hai scelto/voluto per questo tuo ultimo lavoro discografico?
Losen Records lavora molto bene, con un approccio legato al mercato discografico, o a ciò che ne rimane. L’album è reperibile su tutte le piattaforme digitali, su Bandcamp, fisicamente nei negozi on line e in quelli reali, ove ancora esistano, specialmente in Giappone. Più di così difficile fare, oggi.

Lorenzo, qual è il tuo background artistico e culturale?
Ho sempre respirato aria di jazz a casa mia, mio papà è un pianista dilettante molto bravo: sono sempre stato colpito però da musica di tutti i generi. Mi sono diplomato in pianoforte principale a Milano, i grandi compositori classici mi hanno stregato fin da ragazzino, soprattutto Beethoven e Schubert. Allo stesso tempo studiavo jazz con Gil Goldstein e scoprivo la magia dei voicing di Bill Evans o la poesia di My Song di Jarrett. Il vero trait d’union a tutto ciò è stata una passione totale, emotiva e “musicologica” per la musica dei Beatles, fenomeno musicale inspiegabile che sarà oggetto di studio per i prossimo duecento anni. Insomma, la vera matrice del mio background è la curiosità, verso tutto ciò che suscita attrattiva in me.

Tra le tue collaborazioni, qual è quella che ha influenzato maggiormente la tua visione della musica?
Ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti straordinari, ognuno dei quali mi ha arricchito a suo modo. Vorrei però ricordare Eric Marienthal, con cui ho cominciato a lavorare in studio e dal vivo quando ero un ragazzino mentre lui era già la star dell’ Elektric Band di Chick Corea: al di là del suo talento musicale non misurabile, ho imparato molto dalla sua professionalità, dalla sua serietà nel concepire l’arte come un lavoro vero, da svolgere con passione e umiltà.

Dal punto di vista stilistico, invece, quali sono i tuoi pianisti di riferimento?
Sono cresciuto ascoltando Keith Jarrett, Chick Corea ed Herbie Hancock, dei quali mi sono innamorato musicalmente. Poi la mia strada è stata segnata dai grandi pianisti del nord come Bobo Stenson e John Taylor. Ma il vero game changer per me è stato Esbjörn Svensson, che purtroppo non ho avuto modo di conoscere personalmente. Altro esempio di talento assoluto coltivato con passione e professionalità totale. Per me ha segnato un confine epocale, prima e dopo di lui, contribuendo ulteriormente a segnare la strada di un nuovo inizio di “jazz europeo”. Cioè, non si può ascoltare «Seven Days of Falling» senza che la tua vita un pochino cambi in meglio… Conosco bene i suoi compagni di trio e parlano di lui come di un professionista pazzesco, allo stesso tempo pieno di vita e curiosità su tutto, dalle stelle ai trenini elettrici.

Quali sono i tuoi compositori preferiti e, in generale, quali sono i tuoi ascolti musicali?
Avrai ormai capito che i miei gusti sono vastissimi, facciamo prima a consultare la mia playlist di oggi: Bach padre, Mozart, Beethoven, Schubert, Stravinsky, Joe Zawinul, E.S.T., Bobo Stenson Trio,  Beatles,  Pearl Jam, Soundgarden , Fred Hersch, Shai Maestro, PFM… Ma ogni giorno la cambio!

Lorenzo, oggigiorno non è possibile prescindere dalle piattaforme, dallo streaming, dai social. Qual è il tuo rapporto con queste forme di comunicazione?
Le prendo come un modo per tenere aggiornate le persone che sono interessate alla mia musica e che seguono la mia attività concertistica. Non non posto sui social foto dei miei bambini o delle mie vacanze, li uso per raggiungere il più alto numero di persone possibile. Non è un compito semplice, ma è utile e penso, piaccia o no, imprescindibile oggi. Cerco di postare materiale di alta qualità audio e video e cerco di interagire il più possibile con chi mostra interesse e passione per quello che faccio. Le piattaforme dello streaming penso siano un fenomeno soggetto alla spaventosa velocità di evoluzione del mondo digitale: ciò che sembra vincente oggi, domani potrebbe non esistere più. Sono modelli di proporre musica spesso totalmente irrispettosi del valore della musica stessa e di chi con tanto lavoro la crea, per non parlare della qualità d’ascolto. Modelli che tra l’altro spesso obbligano ad una velocità di produzione che fa a pugni con i tempi di un album jazz… ma è quello che abbiamo oggi, inutile lamentarsi e rimpiangere un passato che non c’è più. Ora c’è questo, cerchiamo di utilizzare questi strumenti per il meglio.

Se ne avessi le possibilità, quali sono i principali aspetti del Music Business che cambieresti dal punto di vista legislativo?
In Italia abbiamo una regolamentazione fiscale della professione del musicista totalmente folle, pensata probabilmente per una figura professionale in vigore 100 anni fa e ora estinta, difficilissima da gestire, capire e applicare. Quando spiego la nostra situazione a direttori artistici o colleghi europei stentano a crederci, eppure è così. Comincerei da lì, come penso il 99% dei miei colleghi. Sarebbe utile anche istituzionalizzare una forma di sovvenzione per i musicisti italiani che tentano di portare la loro avventura creativa oltre confine. Quasi tutti i musicisti di tutti i paesi europei che si mostrano adeguati ad una carriera internazionale, vengono pesantemente aiutati da istituzioni statali all’inizio. Noi possiamo contare solo sulla grande disponibilità degli Istituti Italiani di Cultura che svolgono un lavoro fantastico ma che non può essere esaustivo per sua natura e per il resto ci dobbiamo arrangiare: con il problema fiscale di cui sopra, il mix è letale… Qualcosa sembra si sta muovendo proprio in questi giorni, vedremo.

Qual è l’ultimo libro che hai letto (o quello che stai leggendo)?
Essendo estate, libri non troppo impegnativi. Sono alle prese con Joel Dicker, giovane scrittore svizzero autore di gialli davvero appassionanti e scritti benissimo. L’ultimo, Il caso Alaska Sanders, che prosegue La verità sul caso Harry Quebert lo sto leggendo in questi giorni: per ora entusiasmante!

Cosa è scritto nell’agenda di Lorenzo De Finti?
Ci sono molti concerti per fortuna: il tour di “Mysterium Lunae” ci sta portando in Austria, Germania, Estonia, Lituania, Polonia e Olanda. La prima parte si concluderà a ottobre in Canada. La seconda parte, nel 2023, ci riporterà in Scandinavia, ci stiamo lavorando e speriamo di riempire tante caselle al più presto!
Alceste Ayroldi