«A Long Way». Intervista a Jany McPherson – II parte

Esce il 6 ottobre il nuovo album della pianista e compositrice cubana che, dopo il bel piano solo del 2020, torna a suonare in trio, con anche una guest d’eccezione: John McLaughlin. Questa è la seconda e ultima parte della nostra intervista.

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Sei nata a Cuba. Ora vivi in Francia. Perché hai scelto questo Paese?
Perché c’era qualcosa nell’ambiente francese che risuonava con me, anche se non sapevo esattamente cosa, e quel qualcosa non aveva nulla a che fare con gli altri Paesi che già conoscevo. Ho iniziato a viaggiare fuori da Cuba a 17 anni. Ero appena entrata nella Orquesta Anacaona, la prima orchestra femminile di Cuba, e abbiamo fatto molte tournée internazionali negli anni in cui ho fatto parte dell’orchestra.  Ma una volta terminata la tournée e rientrata a Cuba, la sensazione di scontento ritornava. Qualcosa dentro di me sognava una nuova aria. Cuba è una terra splendida, piena di tante cose belle, ma talvolta difficile, se hai aspettative per un futuro diverso. Ho dovuto fare scelte difficili e dolorose, ma sentivo che dovevo cambiare per crescere e potevo farlo soltanto lasciando Cuba. Ho portato con me tutta la storia, la tradizione e la cultura che mi hanno formato e mi sono trasferita in Francia, dove vivo ancora oggi.

Quando hai deciso che la musica sarebbe diventata la tua professione?
Non l’ho mai deciso, ma è stata la vita a deciderlo. Può sembrare una follia, ma se mi fermo un attimo a riflettere, mi rendo conto che ho risposto solo al desiderio del mio cuore. Ero molto piccola quando ho visto per la prima volta Michael Jackson cantare in televisione, il brano era Don’t Stop ’Til You Get Enough e sono impazzita: lo adoravo. Poi rubavo i tacchi alti di mia nonna, le collane, e la spazzola per capelli era il microfono, e iniziavo ad imitare qualsiasi artista fosse in TV ed ero felice di tutto questo. Penso che la vita sia uno specchio, che rifletta i tuoi desideri più profondi in modi molto diversi e sottili, e tu devi solo seguire il filo del tuo desiderio, dei tuoi sogni, e lasciarti andare. C’è sempre un desiderio profondo in ognuno di noi, il filo conduttore che ti chiama e ti chiede di non resistere a ciò che ti rende veramente felice. Quando fai o lavori a qualcosa che non dà soddisfazione alla tua anima, allora ti ammali, ti rendi la vita amara, non prosperi, ecc. Allora la vita ha deciso che a me spettava la musica, e io sento una gratitudine totale.

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Sei spesso in Italia per concerti. C’è qualcosa in particolare che ti lega al nostro Paese?
Sì, diverse cose. Innanzitutto, la mia formazione classica. Quando si imparano i brani per pianoforte, ad esempio, la terminologia, le indicazioni sullo spartito sono in italiano. I corsi di storia della musica in cui si imparava a conoscere Vivaldi, Scarlatti, Verdi e tutti quei classici. L’eredità della cultura italiana per il mondo è “Grandiosa” e per ogni artista, sia esso musicista, artista plastico, ballerino, ecc. è d’obbligo entrare in contatto con questa cultura e questo è stato il mio approccio. Da noi arrivava anche la musica di artisti come Ramazzotti e Laura Pausini che erano molto famosi a Cuba. Studiando alla Scuola Nazionale di Arte de La Habana ho scoperto Mina e Jovanotti, che contrasto! (sorride, N.d.R.), Lucio Dalla con la sua interpretazione antologica di Caruso e poi è arrivato Pino Daniele, e ho finito per legarmi molto di più al vostro Paese. Quando mi sono trasferita in Francia il legame con l’Italia si è rafforzato. Il padre di mio figlio, nato in Basilicata, è stato per diversi anni mio complice musicale nei progetti precedenti. C’è tanto nella tua cultura che fa il paio con la mia.  E ovviamente l’incontro con Gianluca, il mio produttore, con cui ho realizzato anche il precedente disco «Solo Piano!», la mia prima produzione «made in Italy» nel 2020 e tutti gli amici, le persone che fanno parte del team.

foto di Arturo Di Vita

Hai collaborato con molti musicisti e, soprattutto, con i migliori musicisti cubani. Quali sono le caratteristiche del linguaggio del jazz cubano?
Wow! Il tema è molto ampio. L’inserimento di ritmi propri di Cuba, mescolati con armonie e fraseggi jazz, sono i pilastri di questo linguaggio. Bisogna andare molto indietro nel tempo. Il primo scambio tra la musica cubana e il jazz risale alla fine del 1890, con musicisti cubani a New Orleans e americani a Santiago de Cuba. Da allora, ci sono stati molti scambi e contributi musicali tra le due culture, che si sono nutrite reciprocamente. Merita ricordare il periodo in cui il jazz cominciò ad essere assimilato a Cuba come genere proprio, intorno agli anni ’30. Più tardi, negli anni Quaranta, la diaspora cubana radicata a New York (Mario Bauza, Mongo Santamaría e Chano Pozo) marcherà il proprio stile incorporando le percussioni e i ritmi cubani nel formato della jazz band e in piccoli formati di jazz classico. La famosa canzone di Chano Pozo-Dizzy Gillespie Manteca è in realtà un son cubano in versione jazz e fu presentata come tale dai suoi creatori. Questi processi di assimilazione consapevole di elementi del jazz nordamericano, fusi con elementi della musica afrocubana, sono conosciuti come jazz latino o jazz afrocubano. Tra i riferimenti indiscussi del genere ci sono Chucho Valdés e Irakere, Gonzalo Rubalcaba, Paquito de Rivera, Arturo Sandoval, Boby Carcassés, Horacio Hernández “El Negro”, Orlando “Maraca” Valle, Julito Padrón… La lista è lunghissima!

Tra le tue numerose collaborazioni, vedo musicisti americani, cubani, francesi, ma non italiani. C’è qualche musicista italiano con cui ti piacerebbe collaborare?
Il mio sogno era fare un duo con Pino Daniele, ma in questa vita non mi sarà possibile. Ci sono molti grandi musicisti ed artisti nel tuo Paese. Sarebbe bello fare qualcosa con Paolo Fresu, Stefano Bollani, Fabrizio Bosso e con Zucchero il più internazionali dei vostri artisti o Jovanotti, il più innovativo, con Sergio Cammariere e beh…. Mina! Chi non vorrebbe collaborare con lei??!!  Non li conosco tutti e i miei gusti vanno in tutte le direzioni, quindi non importa se ci sarà una collaborazione nel jazz, nel pop o in altri ambiti, l’importante è che i progetti abbiano un’anima. Penso che alcuni miei brani siano adatti come temi da film ed è un’esperienza che accoglierei con molto entusiasmo. Ho suonato con alcuni musicisti italiani. Recentemente ho tenuto alcuni concerti in Italia con Luca Bulgarelli al contrabbasso ed Amedeo Ariano alla batteria. In passato ho suonato con il bassista Pippo Matino, con Luca Aquino ed ho fatto un concerto in duo con Antonello Salis. Una curiosità: il cantautore Roberto Kunstler  (sodale di Sergio Cammariere) ha scritto un bellissimo testo in italiano su una delle mie composizioni dell’album «Solo Piano!». Forse per la prossima registrazione, se il filo conduttore e l’estetica della nuova musica me lo permetteranno, potrei avventurarmi a cantare in italiano e registrarlo. Chissà!

Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
È la prima volta che mi fanno questa domanda. Grazie! Ho molto rispetto per l’improvvisazione musicale. Per me è il momento in cui l’artista apre il suo cuore, si mette a nudo davanti al pubblico e si lascia vedere così com’è, e per questo bisogna avere coraggio. Non ho mai studiato il jazz o l’improvvisazione in modo accademico. Quando è il momento di fare un assolo cerco sempre di andare il più libera possibile e il più onestamente possibile, anche se talvolta mi piace rendere omaggio ad altri artisti lasciando cadere piccole frasi, brevi citazioni di standard o altri temi conosciuti. Amo Keith Jarrett e Gonzalo Rubalcaba, tutti e due in cima al podio. Ma non importa quanto si ascoltino altri pianisti, chitarristi, cantanti o sassofonisti, non importa quanto siamo influenzati da altri artisti. Alla fine si suona come si è, in ogni assolo, in ogni performance, si espone una parte della propria vita.

Quanto è importante per il musicista jazz di oggi trovare un’etichetta discografica con cui pubblicare la propria musica?
Penso che sia molto importante, anche se oggi c’è la tendenza a credere che un artista possa fare tutto da solo e una casa discografica non sia così necessaria.  Ci sono musicisti che preferiscono fare tutto da soli. Forse per alcuni funziona, non lo so, ma questa scelta comporta anche un’enorme quantità di tempo speso a fare il lavoro dell’etichetta. Penso che ognuno debba fare il proprio mestiere. E’ chiaro che deve essere una vera label. Non una di quelle che ti chiede il prodotto finito, la totalità del publishing, la proprietà del master (che hai pagato tu),  e come se non bastasse ti chiede di comprare un numero consistente di copie per poi pagare la stampa dei tuoi dischi con i tuoi soldi, non facendo nessuna promozione e mettendo il tuo disco in un cassetto. Ecco, quelle sono le label da evitare assolutamente. Nel mio caso personale, non ho dubbi. La Glider è un’etichetta indipendente che lavora in modo sartoriale, artigianale, con una grande attenzione alla qualità del prodotto che realizza, investendo in proprio, avvalendosi di collaboratori di primissimo piano sia nella fase produttiva che in quella promozionale. Io mi sento molto serena da questo punto di vista.

foto di Arturo Di Vita

Qual è la tua playlist personale al momento?
«A Long Way» di Jany McPherson! (ride, n.d.r.). Mi sono davvero innamorata di questo album. Ogni volta che lo ascolto scopro cose nuove nelle interpretazioni dei miei musicisti. E ho la sensazione, forse strana, di ascoltare l’album di un altro artista. Ascolto volentieri Gregory Porter, «Jasmine» di Keith Jarret e Charlie Haden, Kurt Elling, Pasquale Grasso e ovviamente Pino Daniele.

Ti piacerebbe organizzare un festival, esserne la direttrice artistica? Quali sarebbero le tue scelte artistiche?
Una volta ho immaginato di essere la direttrice artistica di un festival, a Guantánamo, la mia città natale, ma al momento non è una cosa che sento come un profondo desiderio. Dirigere artisticamente un festival è una cosa impegnativa e di una certa responsabilità, ma è anche un’ottima opportunità. Forse un giorno la vita mi porterà su questa strada, chi lo sa? Se ciò dovesse accadere, vorrei offrire al pubblico un programma che lo aiuti ad elevare il proprio livello di coscienza e a portare un po’ di serenità e di visione nella propria vita. Far vedere loro, attraverso l’esempio dell’artista stesso, che suonare uno strumento, o cantare, o interpretare un brano, contribuisce a dare il meglio di noi stessi e aiuta anche ad una maggiore comprensione di noi stessi. Farei condividere il palco ad artisti della mia terra con artisti internazionali. Un’idea mi viene in mente in questo momento, per esempio: il gruppo Changüí de Guantánamo ed Esperanza Spalding. Che bella follia!

Quali sono i tuoi obiettivi come artista?
Continuare ad esplorare la creatività che è in me. Il risultato di questo processo creativo mi ha lasciato la curiosità di vedere come arriverà l’ispirazione per il prossimo album. Pochi giorni dopo aver finito di registrare «A Long Way», mi è arrivata una nuova melodia con anche del testo. Ce l’ho da qualche parte. Vedremo se rimarrà per il prossimo disco.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il più immediato è il The Liberation Tour. Sarò in tour in Europa con il John McLaughlin Quintet. Il 5 ottobre avremo la prova generale e partiremo con il primo concerto a Basilea (Svizzera) il 6 ottobre. Lo stesso giorno uscirà il mio nuovo album… che regalo! Continueremo con altri sei concerti in Germania e finiremo a Zurigo il 20. Poi presenterò «A Long Way» in Francia il 28 ottobre al festival Jazz en Tête di Clermont-Ferrand. A metà novembre andrò nella Guyana francese con lo steel-panist newyorkese Andy Narell, con cui collaboro da più di 10 anni per una serie di concerti in duo. Alla fine dell’anno ho anche in programma di fare un salto a Cuba per visitare la mia famiglia. E a gennaio 2024 abbiamo la presentazione dell’album all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 24. Il 26 sarò all’Auditorium Santa Chiara di Foggia e tanti altri concerti sono in via di definizione. Sono anche in attesa di conferme per un progetto a Trinidad e Tobago, sempre  con Andy Narell a marzo, e per altri concerti con il mio trio. Quello che voglio adesso è portare in giro questo nuovo lavoro quanto più possibile.
Alceste Ayroldi

 

*la prima parte dell’intervista a Jany McPherson è stata pubblicata giovedì 5 ottobre.
https://www.musicajazz.it/intervista-jany-mcpherson-prima-parte/

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