«First Rain» Intervista a Emiliano D’Auria.

Il nuovo disco del pianista e compositore di Ascoli Piceno parla un linguaggio europeo accurato ed elegante.

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Dalla copertina ai colori e alle ambientazioni, si capisce subito che è un disco dalle sonorità molto nordiche. Qual è la genesi di «First Rain»?
«First Rain» è il risultato di un percorso iniziato qualche anno fa con la mia attuale formazione. Un percorso che ha visto in prima battuta la creazione dell’album In-Equilibrio. Ai tempi, circa tre anni fa, ancora non ci conoscevamo musicalmente così bene e quella registrazione è risultata indispensabile per comprendere meglio la direzione verso cui si stava proiettando la nostra musica. Oggi, tutto ci sembra chiaro e riusciamo a dialogare con molta facilità. La scrittura è diventata più fluida ed aperta ad accogliere le traiettorie che il gruppo vuole intraprendere. «First Rain» è stato creato su forti basi melodiche inserite in un contesto ed in ambientazioni eteree, su paesaggi sonori dal sapore nordico.

E di nordico c’è anche la casa discografica, la Losen Records. In Italia c’è qualcosa che non gira per il verso giusto?
Non credo che in Italia ci sia qualcosa di particolare che non funzioni. Le difficoltà legate al mondo discografico ci sono ormai in tutta Europa, in alcune nazioni meno evidenti ma non da sottovalutare. Spesso sono le situazioni che si sviluppano inaspettatamente a creare degli scenari perfetti per far sì che una collaborazione possa prendere piede. Questo è il caso della Losen, etichetta a cui sono approdato quasi per caso. Ho conosciuto il ceo Odd Gjelsnes al Jazzahead di Brema, ci siamo subito presi e lui, dopo aver ascoltato In-Equilibrio, si è offerto di ristamparlo, di inserirlo nella sua etichetta e di co-produrre il nuovo album «First Rain». E’ stato tutto estremamente immediato.

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C’è un motivo in particolare per cui hai voluto che il brano First Rain desse il nome all’album?
Tra tutti i brani presenti nella line-up, ho creduto che First Rain fosse quello più idoneo ad esprimere il concept dell’album. In tutto il disco ci sono forti riferimenti all’ecologia e questa «Prima Pioggia» rappresenta la dimensione che tutti noi auspichiamo di trovare in questo periodo a dir poco difficile. La prima pioggia è quella che propriamente lava il terreno, porta via con sé impurità, detriti, che ha in sé un carattere salvifico e purificativo.

Emiliano, squadra vincente non si cambia. Hai lasciato il tuo quartetto-quintetto del precedente «In-Equilibrio». Ciò significa che hai raggiunto il suono e l’amalgama che cercavi?
In questi anni passati insieme siamo riusciti a trovare una dimensione condivisa di intensa affinità sia musicale che umana. Adesso tutto sembra facile e spontaneo. Dall’interazione nei live al pensiero legato alla scrittura dei brani. Sinceramente mi sento estremamente fortunato e privilegiato a poter collaborare con questi musicisti unici. Diciamo che ognuno di noi ha aperto le proprie porte dando modo di entrare nella propria ed intima sfera emozionale e creativa.

Emiliano D’Auria. Alesun Norvegia registrazione album

Ti           andrebbe          di           spiegarci            il            significato             narrativo           di           ogni  singolo brano di «First Rain»?
Iniziamo con la title track. Come ho detto sopra, First Rain è una pioggia gentile che porta via con sé tutto ciò che c’è di impuro.
Dead Ice. Legato a questo titolo c’è una situazione che mi ha molto colpito durante un recente viaggio in Islanda. Qui, visitando un ghiacciaio ai confini con una laguna, ho visto un blocco di un Iceberg staccato dal ghiacciaio madre e particolarmente scuro, quasi nero. Ho chiesto alla guida che ci stava accompagnando in gommone, come mai fosse così diverso dal resto del ghiacciaio e mi rispose, sconcertandomi, che si trattava di  ghiaccio  morto che nel momento in cui si stacca dalla “madre”, non essendo più alimentato e subendo l’interruzione del flusso interno di acqua e ossigeno, tende ad attirare le impurità presenti nell’atmosfera e a scurirsi.
Momento. Questo titolo è stato suggerito da una mia amica che mi stava chiedendo come nascevano i titoli dei brani. Io le stavo spiegando che il brano in questione era nato musicalmente nel momento in cui avevo ascoltato un mio amico suonare una variazione degli Studi Sinfonici op. 13 di Schumann  e  ancora non ero riuscito a dargli un titolo. Il mio brano si apre proprio con una citazione a questo studio ed è stata lei, parafrasando le mie parole, a suggerirmi di chiamarlo Momento.
Looking For Love. Qui devo fare una confessione. Il vero titolo del brano è Looking For Peace e credo che non sia necessario parlarne. Fa solo sorridere il fatto di come sia riuscito io stesso a consegnare all’editore un titolo sbagliato!

A un  certo  punto  fa  capolino  l’Erik  Satie  più  surrealista  con Entr’act #1, #2 e #3? Come mai?
Questi tre intermezzi sono delle impro create e registrate in una delle notti che abbiamo passato all’Ocean Studio di Giske, in Norvegia. Avevamo lo studio tutto per noi in cui dormivamo, mangiavamo e registravamo così in una di queste sere ci siamo abbandonati e abbiamo registrato in assenza del sound engineer Anders Boska e con l’aiuto di mio figlio Diego in regia, alcune tracce totalmente improvvisate. Entr’acte vuol dire intermezzo ma è anche il titolo di uno dei manifesti del cinema dadaista anni Venti a firma di Renè Claire.
Social Melancholy. La malinconia sociale è un sentimento a cui ci siamo dovuti abituare durante questi anni passati a riflettere sullo stato delle cose dopo aver dovuto affrontare ma soprattuto subire situazioni impensabili come la pandemia, la guerra a  due  passi  dalle nostre case, l’impennata del costo delle risorse energetiche, il costo della vita praticamene raddoppiato. E’ un brano dal sapore malinconico perché riflette su ciò che siamo stati e su come sono cambiati adesso i rapporti all’interno della società. Il brano è ispirato alla tradizione delle canzoni popolari armene. Figurativamente mi fa pensare ad una popolazione non più capace di saper sorridere come un tempo, abituata a farlo poco e soprattutto a mezza bocca, con i denti un po’ serrati.
The Man Without Nose. Questo è un brano a cui sono fortemente legato perché rappresenta il saluto musicale fatto a mio padre, a cui devo musicalmente molto. E’ l’ultimo ricordo di condivisione che ho avuto con lui prima che ci lasciasse. Il titolo rappresenta la sua condizione fisica degli ultimi anni.
Birth And Rebirth Of Birds. Lo spartito di questo brano è entrato nello studio norvegese con il titolo “Ancora non lo so”. Il titolo si è materializzato registrandolo. Avevo la fortuna di poter suonare e registrare guardando dalla parete finestrata  il  fiordo  di  fronte  su  cui  tutte le mattine arrivavano stormi di uccelli a passare la propria giornata. Mi piaceva immaginare questi uccelli compiere  ogni giorno il proprio ciclo vitale per poi riproporsi sugli stessi scogli il giorno successivo. L’andamento del brano credo possa rispecchiare quest’idea di vita e rinascita. Inizia infatti con un andamento morbido per poi tuffarsi in una sorta di incubo noise e tornare all’andamento iniziale.
The Unexpected. Il titolo del brano in questione è ispirato a quello di cui spesso musicalmente andiamo alla ricerca: l’inatteso, l’inaspettato. Nel momento in cui lo abbiamo iniziato a provare, prima della registrazione, abbiamo deciso di lasciarlo libero da strutture predefinite e mi riferisco al beat ed al processo  esecutivo.  Così come ora possiamo ascoltarlo, non è stato mai suonato prima.
The Storm Around Stillness. Sia musicalmente che linguisticamente mi piace giocare sugli opposti. In questo caso gli stati d’animo legati alla tempesta e alla quiete sono evidenziati dalle diverse sezioni del brano in cui alla parte iniziale più ostinata, incalzante e cupa, risponde un’altra dall’andamento più accogliente, con il tempo dimezzato ed una forte connotazione blues. Per me The Storm Around Stillness è una riflessione sulla condizione interiore legata alla ricerca di un’intimità in cui si riesca ad essere padroni delle proprie emozioni, a sapersi centrare e avvolgere di serenità anche se circondati da varie forme di tempeste e instabilità.

Quali sono gli elementi musicali che reputi oramai imprescindibili nella tua musica?
Nella mia scrittura cerco sempre di stupirmi con soluzioni che riescano a portarmi in un’altra direzione rispetto a quella inizialmente approcciata. Sopra parlavo dell’inatteso, dell’inaspettato. Sono costantemente attratto dagli opposti intesi come cambi repentini di tempo, di paesaggi sonori. A situazioni apparentemente calme cerco di contrapporre momenti caratterizzati da ritmi più serrati ed incalzanti. A colori morbidi cerco di contrapporre realtà più scure.

Per la maggior parte degli artisti, l’originalità è preceduta da una fase di apprendimento e, spesso,  di  emulazione  degli altri. Com’è stata questa fase per te?  Come  descriverebbe  il tuo sviluppo come artista?
Sicuramente quello che sono è il frutto di tutto ciò che ho metabolizzato in anni di ascolti e studi. Se penso  al  mio  modo  di scrivere non riesco a pensare ad un artista di riferimento. Forse è una fortuna perché moralmente mi sento integro nella mia originalità. Ultimamente il processo di consapevolezza è maturato e posso affermare di non ispirarmi in particolare a nessuno. Ho dei riferimenti stilistici, come tutti, ad esempio mi piace molto il jazz di stampo nordeuropeo ma allo stesso tempo seguo con interesse le nuove tendenze del jazz americano. Sono cresciuto ascoltando  il  rock  degli anni Settanta, sopra tutti i Pink Floyd, amo i romantici come Ravel, Debussy, Satie così come compositori come Hindemith o  Bartok.  Alla fine, quello che per me è importante, è riuscire  ad  abbandonarsi  e  a farsi travolgere dal flusso creativo senza cercare compromessi.

Quali sono state le tue principali sfide artistiche quando hai iniziato a lavorare come artista e in che modo sono cambiate nel corso degli anni?
Nutro nei confronti del jazz un profondo rispetto. Sono cresciuto ascoltando jazz dai vinili di mio padre ed ho iniziato ad approcciarlo da ragazzino suonando sulle prime cassette  con  gli  Aebersold.  Forse non sono cresciuto pensando di diventare un pianista jazz e probabilmente attualmente non lo sono tout-court. Ma una cosa ho sempre inseguito da questa musica: la liberà creativa e la forza propulsiva insita nell’’improvvisazione. La cosa più difficile che  ho dovuto affrontare è stata trovare un piccolo spazio per proporre la mia musica originale non suonando standards.

Emiliano, in Italia è complicato essere un musicista professionista?
Credo che  in  Italia  sia  particolarmente  difficile.  Negli  ultimi  tempi  si stanno sollevando questioni di cui prima neanche si riusciva a parlare e questo è un bene. Mi riferisco a concetti legati alla continuità contributiva, alla possibilità di poter accedere a fondi per esportare la propria musica all’estero, ad associazioni che si sono create e che cercano anche con buoni risultati di portare avanti le istanze dei musicisti. Sono convinto che si stia avviando un processo di cambiamento, forse lento ma d’altronde la natura della nostra nazione è lenta e sonnacchiosa.

Foto di Pierluigi Giorgi

A proposito, qual è il tuo concetto di professionismo, con particolare riguardo al settore della musica?
Oggi la figura del musicista è strettamente connessa a quella dell’artigiano. Solo nel Rinascimento abbiamo iniziato a parlare del musicista, prima si parlava di artigiano ed oggi, secondo me, questo termine è tornato fortemente attuale. Il musicista deve essere tecnicamente ineccepibile e fin qui nulla di nuovo ma allo stesso tempo deve essere un validissimo imprenditore di sé stesso. Un abile manager, un perfetto conoscitore di logiche legate ai social, saper leggere tra la rete le varie possibilità legate a bandi, concorsi, residenze e tanto altro ancora. Credo sia estremamente difficile proprio perché i linguaggi di promozione sono profondamente cambiati e spesso se non si è dentro si rischia di rimanere in ombra.

Parlaci del tuo studio/spazio di lavoro. Quali  sono  stati  i criteri di allestimento e come questo ambiente influenza il processo creativo?
Sotto questo punto di vista mi sento un po’ nomade avendo la fortuna di poter studiare, scrivere ed esercitarmi in più luoghi dotati di piano. La maggior parte del mio tempo la passo all’interno del Cotton dove ho scritto quasi tutte le mie composizioni.

Ci sono molte descrizioni dello stato mentale ideale per essere creativi. Qual è il tuo stato d’animo?
Il processo e l’atto creativo per me sono sempre caratterizzati da una sorta d’inquietudine,  di  irrazionale  insoddisfazione  che  prende  forma e da forma a quello che scrivo.

Tu sei anche un imprenditore del settore musicale, visto che dirigi il Cotton Lab. Quali sono le maggiori difficoltà che incontri, dal punto di vista amministrativo, economico e giuridico?
Io dirigo il Cotton Lab ed il Cotton Jazz Club che sono entrambi associazioni culturali. Non possiamo quindi parlare di processi imprenditoriali non potendo, per statuto, ricavare profitti dalla propria attività. Dal punto amministrativo per noi non ci sono grosse difficoltà burocratiche mentre noto che negli ultimi tempi le difficoltà si siano spostate su tutto ciò riguarda sicurezza, permessi, agibilità.

Invece, come giudichi il livello di conoscenza della musica dei giovani?
Da questo punto di vista credo che i giovani oggi siano estremamente fortunati. Tramite il web è possibile fare cose prima impensabili. Fare lezioni online con maestri incredibili, anche d’oltreoceano, aver la possibilità di accedere a programmi di studio, spartiti, metodi, musica, tutto stando comodamente seduti davanti al proprio computer. I giovani di oggi sono estremamente preparati, motivati e curiosi di scoprire nuovi linguaggi musicali. Le cose più belle che sto ascoltando adesso in Italia  vengono  proprio  da  formazioni  composte da giovani musicisti il più delle volte poco conosciuti. In Italia si sta creando uno scenario musicale molto interessante ed innovativo.

Foto di Pierluigi Giorgi

Visto che sei il fondatore-promotore e direttore artistico di JazzAp, ci parleresti di come è nata questa idea di festival diffuso e quali sono i criteri con cui selezioni gli artisti ospiti?
L’idea è nata nel momento in cui ho pensato di uscire, se così si può dire, dalla zona di confort del mio club inteso come spazio fisico/ organizzativo. Se Ascoli vanta una tradizione jazzistica lo si deve al lavoro che mio padre ed i suoi collaboratori hanno portato avanti per circa trent’anni con il Cotton Jazz Club ma quello che è mancato a questa città è stato propriamente un festival dedicato non solo agli appassionati ma anche e soprattutto ai curiosi e a chi si trova nel periodo estivo a visitare Ascoli Piceno e i suoi dintorni.
Il progetto di festival diffuso nasce dalla convinzione che il far rete e riuscire a far dialogare soggetti diversi possa arricchire il tessuto provinciale, possa essere volano per una crescita turistica ed economica, possa riuscire a parlare ad una  molteplicità  di  persone anche fuori dal tradizionale circuito jazzistico. Parlare di festival diffuso vuol dire raccontare un territorio ma soprattutto lasciare che le comunità a volte piccole ed immerse in una moltitudine di difficoltà, possano raccontarsi, possano partecipare in  prima  persona alla costruzione di contenuti, possano fattivamente contribuire a creare una nuova platea, possano sentirsi parte integrante del processo culturale. Programmaticamente credo che il festival, a differenza del Cotton Jazz Club che ha ormai consolidato una platea attenta  e  preparata  e  che nella programmazione inserisce regolarmente progetti più di ricerca, debba sapersi rivolgere ad una moltitudine di persone, proponendo artisti dalla forte attrattività. Per far questo la linea programmatica si affida ai grandi nomi del jazz nazionale ed internazionale non trascurando degli spazi per musiche più legate alla sperimentazione. Quest’anno verrà allestito per la prima volta il JazzAp  Village,  che sorgerà su  un  ex-spazio  industriale in  cui  saranno  ospitati  progetti più trasversali e a forte contenuto di contaminazione con l’elettronica e la video art.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi artistici e quali i tuoi prossimi impegni?
A fine agosto andrò a registrare  al  Bunker  Studio  di  Brooklyn  un nuovo album con dei musicisti americani pazzeschi. Sono la  nuova schiera di giovani realtà ormai  affermate  in  America  e  nel  mondo. Parlo di Philip Dizack alla tromba, Dayna Stephens al sax, Rick Rosato al contrabbasso e Kweku Sumbry alla batteria. Sono estremamente curioso di vedere quale direzione prenderà la mia musica.
Alceste Ayroldi

 

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