«Habitat». Intervista a C’mon Tigre

Nuovo album per il collettivo internazionale. Ne parliamo con loro.

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Foto di Margherita Caprilli

Vorrei partire subito dal vostro ultimo lavoro discografico «Habitat» e, in particolare, dal brano The Botanist, che è anche il primo video di questo disco. Cosa racconta questo brano?
Racconta di come secondo noi bisognerebbe prendersi cura delle cose, della propria mente in primis. E’ un lavoro che andrebbe fatto giorno dopo giorno, come un giardiniere che si prende cura di un insieme di piante, seminando e seguendone il processo di crescita e mantenimento.

Chi ha realizzato le animazioni?
Le animazioni sono del francese Jules Guerin, di base a Marsiglia. Conoscevamo già i suoi lavori ed il suo stile ci è sembrato perfetto per colorare The Botanist, il suo immaginario rappresenta incredibilmente bene questo brano, e anche questo album.

«Habitat» è dedicato anche al nostro malconcio Pianeta?
Certamente sì, c’è un gran bisogno di prendersi cura della terra, delle persone e della natura. L’attualità ci mette questi temi costantemente sotto agli occhi, impossibile non prenderli in considerazione, restare neutrali.
Certamente no, è un disco nato per costruire un luogo dove sentirci meglio noi stessi, perché ne avevamo estremamente bisogno, il nostro inconscio a lavorato per creare questa parentesi temporale in cui abbiamo potuto, e potremo finché non si esaurirà, sentirci più leggeri.

Come e quando è nata l’idea di questo progetto?
«Habitat»  è il nostro quarto album in studio, la distanza da «Scenario», il terzo, è stata abbastanza breve per il nostro solito, poco più di un anno. Dentro «Scenario» abbiamo raccontato dell’ umano, attraverso gli occhi di Paolo Pellegrin, ed è stata un’esperienza emotivamente molto forte. «Habitat»   è un disco se vogliamo più naturalista, l’idea è nata appena abbiamo ricominciato a scrivere, volevamo lavorare su un immaginario che fosse multiforme, colorato, e trasmettesse energia vitale. L’influenza delle sonorità brasiliane ci ha aiutato in questo.

Chi sono i musicisti di questo album?
Il disco lo abbiamo registrato con i musicisti con cui condividiamo anche il palco, e che sono la nostra famiglia: Beppe Scardino ai sassofoni e flauti, Mirko Cisilino alla tromba, trombone e corno francese, Pasquale Mirra allo xilofono e Marco Frattini alla batteria, più altre collaborazioni come Valeria Sturba, Daniela Savoldi ed Eloisa Manera. E Danny Ray Barragan del collettivo californiano dei Drumetrics.

Come e perché avete scelto come ospiti Seun Kuti, Xenia França, Arto Lindsay e Giovanni Truppi?
Per ognuno di loro potremmo raccontare una storia, ognuno di loro rappresenta qualcosa di importante per noi, e una finestra aperta sui mondi che colorano «Habitat»  .
Seun Kuti è una delle voci più forti dell’afrobeat di oggi, Xenia França è un’artista molto importante della musica brasiliana attuale, ha appena vinto un Latin Grammy, Arto Lindsay è un pilastro della musica sperimentale, che fa da ponte tra New York e Rio De Janeiro, e Giovanni Truppi uno dei migliori autori italiani, oltre che un amico. Averli nel disco, aver potuto collaborare con loro ha costruito fattivamente quello che ci immaginavamo, un disco multilingue, che avesse avvicinato noi ad autori così fisicamente distanti, riunendo tutti insieme in un lavoro variopinto e multiforme.

Cambiare strada fa sempre bene, di tanto in tanto. Anche musicalmente parlando. Perché avete voluto perlustrare la tradizione brasiliana?
Il motivo è che tutt’ora stiamo percorrendo una strada, lo facciamo di continuo, siamo in viaggio ed ora ci troviamo (come ispirazione) in quelle zone. Che oltretutto sentiamo molto vicine alle nostre zone precedenti, più di quanto noi stessi immaginassimo. Crediamo che il motivo principale di questo avvicinamento sia stato la necessità di cambiare linguaggio, questo aspetto così intensamente vitale della tradizione brasiliana doveva essere per forza una sfumatura del nostro habitat.

La circostanza che mettiate sempre sul piatto temi sociali di rilevante importanza, rende ancora più appetibile la vostra musica. Anche se, purtroppo, siamo circondati da tanta musica che di impegnato non ha granché, se non stimolare reazioni illegali o violente, come succede in alcuni spaccati della trap. Ma anche con alcuni brani che, anche musicalmente, sono poco più che acqua fresca. Cosa ne pensate della scena musicale attuale?
Molto complesso affrontare un tema del genere in poche righe, andrebbe fatta una distinzione tra musica che rappresenta la realtà o la finzione, molti dei generi derivati dall’hip hop degli ultimi 20 anni, che si è occupato eccetto rari casi di celebrare il lusso e la ricchezza, sono nati proprio per l’esigenza di raccontare il reale, quello che accade sul serio per le strade del proprio quartiere, è come fotografare una scena. E se la musica proviene dalla periferia di un posto come Chicago magari è normale che la foto che ne viene fuori parli di violenza, come ha fatto la Drill ad esempio. Poi se invece si prende in esame chi pretende di fare raccontandosela, allora è anche un po inutile parlarne.

Il marketing, gli aspetti commerciali hanno oramai preso il sopravvento nella musica? Si pensa più a come confezionare un prodotto affinché sia “vendibile”?
Non crediamo abbiano preso il sopravvento, può esserci uno sbilanciamento, ma dipende poi dal singolo caso. Certamente è una parte importante del lavoro, che deve comunque prevedere un prodotto di sostanza.

Tornando al vostro impegno, e facendo un passo indietro, mi piacerebbe parlare del bel video del brano No One You Know tratto dall’album «Scenario». In particolare, vorrei che ci parlaste del concetto “di avere paura dell’altro” e “siamo tutti estranei e familiari”. E, inoltre, come la musica può aiutarci a uscire da tale isolamento?
Il video è animato da Danijel Zezelj, un artista croato con cui abbiamo collaborato su diversi fronti, e soprattutto un caro amico. E’ un tema tremendamente attuale, forte per noi, che consideriamo con grande convinzione C’mon Tigre come un insieme di persone così diverse e distanti tra loro. Sconcertante come la paura dell’altro e del diverso vinca sulla voglia di scoprire, condividere, e sull’empatia. La matrice che lega certe tradizioni musicali, lega ancora prima donne e uomini. Chi è familiare e chi è estraneo a chi? La musica può aiutarci a capire, a connettere i punti, con noi lo ha fatto, in maniera molto potente.

Foto di Margherita Caprilli

La combine video/musica è per voi molto importante. Riuscite a trasporre tale forte impatto anche nei vostri live? Come?
Dipende dalle scelte, abbiamo suonato concerti con proiezioni alle spalle, o frontepalco, altre volte abbiamo usato scenografie e luci specifiche. Cambiamo metodo, spesso, ma l’obiettivo è che la combo funzioni, che dia sempre un impatto potente e di carattere.

A proposito di musica e isolamento. Cosa ne pensate dei concerti in streaming?
Fanno parte di quelle cose che inevitabilmente accadono, ed accadranno, con i loro lati buoni e cattivi: sicuramente si perde l’esperienza fisica, però di fatto è sempre una buona opportunità avere la possibilità di seguire in diretta concerti dall’altra parte del mondo. Immaginiamo che con le nuove tecnologie l’esperienza sarà estremamente immersiva, difficile essere pro o contro, oggi.

E, invece, qual è la vostra opinione su Spotify & Co?
Sono un canale, un mezzo per ascoltare musica. Anche qui tutto dipende da come li si utilizza. A noi piace scoprire attraverso questi mezzi i nuovi artisti, sui quali poi ci andiamo a documentare e dei quali acquistiamo i dischi e andiamo ai concerti. Il loro impatto sull’economia discografica è comunque fortissimo, annullando di fatto la maggior parte delle vendite di dischi e riducendo i guadagni ai soli live. E’ brutale quando strumenti come questi se gestiti iniquamente posso ribaltare interi mercati.

Una domande scontata. Perché avete scelto di chiamarvi C’mon Tigre?
Il nome uscì fuori nel dormiveglia di un jet-lag, un’intera notte insonne con questa figura della Tigre stampata in testa, un animale meraviglioso per complessità di significati. C’è un brano nel primo disco che ne è la testimonianza, registrato in parte in quel momento. La ripetitività di quelle due parole cadenzavano un mantra, che poi è rimasto la mattina seguente.

E sempre per rimanere nell’ambito dell’ovvietà: voi chi siete? Quando è nato il vostro sodalizio?
La prima pubblicazione di C’mon Tigre risale al 2014, ma lavoriamo al progetto da prima, almeno un paio d’anni.
Ci siamo sempre mossi sotto pseudonimo, siamo solo in due a dare la direzione, ma in realtà siamo in tanti a lavorarci insieme, è una vera e propria famiglia allargata.

Tra le altre cose che apprezzo della vostra musica è il fatto che rifuggite ogni etichetta di genere, realizzando delle musiche sempre diverse e onnivore. D’altro canto, il genere musicale è un’invenzione del marketing. O mi sbaglio?
È meglio non essere ‘definiti’ in questo senso, è anche difficile farlo, non solo con noi ma con chiunque. Le etichette di genere sono molto spesso riduttive, servono a poco.

Foto di Margherita Caprilli

Siete giunti a dieci anni di carriera: un bel traguardo. Vi andrebbe di fare un bilancio?
Non siamo sicuri sia ancora il momento di fare bilanci, tendiamo a guardarci poco indietro e a rivolgere tutta l’attenzione in avanti, su quello che ci circonda, al futuro e verso nuovi progetti. Sono passati molto velocemente questi anni.

Visti i temi che toccate, vorrei porvi anche una paio di domande, per così dire, politiche. Sembra che ai cittadini del mondo piaccia sempre di più la destra. Da ultimo anche Argentina e Olanda lo attestano (Italia a parte). Quindi, un nazionalismo sempre più forte e, purtroppo e di conseguenza, anche una revanche del razzismo (semmai fosse stato non in auge). Vi siete mai chiesti quali sono i motivi di certe scelte?
Crediamo ce ne siano molte, di cause: alla base di tutte sta la paura. E l’ignorare al di fuori della propria realtà.

La seconda domanda, invece, riguarda il sistema dell’industria musicale (argomento a me caro per via del fatto che è la mia materia di insegnamento principale). A vostro avviso in Italia come funziona? Bene, male? Possono esserci dei miglioramenti?
Non abbiamo a che fare con l’industria musicale italiana e ne sappiamo molto poco, abbiamo sempre prodotto i nostri lavori autonomamente, ricercando risorse che ci consentissero di muoverci sempre in completa libertà.

Qual è l’identikit del vostro pubblico?
Età sopra i 25, è un pubblico attento e onnivoro, in parte musicisti, attratti dalla parte tecnica soprattutto nei live, in parte romantici e sognatori, quelli che ascoltano ad occhi chiusi.

Quando dieci anni fa avete iniziato vi sarete dati degli obiettivi artistici. Oggi sono gli stessi?
Onestamente no, nessun obiettivo. Volevamo che questo progetto semplicemente si sostenesse e che crescesse, e lo ha fatto, in maniere lenta ma costante. Non sappiamo bene a che punto siamo arrivati, da fuori molto spesso la visione è diversa che da dentro. E’ una cosa di cui non possiamo fare a meno, è un progetto di vita e siamo grati che dopo 10 anni possiamo permetterci di pensare al prossimo album, al prossimo spettacolo, a che coinvolgere di nuovo, è un vero lusso.

Quali sono i vostri prossimi impegni e obiettivi?

Nel 2024 partirà il tour di ‘Habitat’, abbiamo appena annunciato le date nei club in Italia, tra Febbraio e Marzo saremo a Bologna, Milano, Torino, Roma, Molfetta e Pordenone. Stiamo anche lavorando sulle date in Europa. L’ obiettivo è quello di portare l’energia di Habitat in giro il più possibile, sarà molto bello farlo, è un disco molto ritmico e colorato, ci immaginiamo i concerti come una grande festa.
Alceste Ayroldi