La prima volta che Paul Buckmaster incrociò i Rolling Stones fu il cinque luglio del 1969, ad Hyde Park. Quel giorno a Londra si ricordava Brian Jones, defunto due giorni prima, e come è noto le Pietre si diedero da fare per celebrare, ma anche per farla finita una volta per tutte, il loro ex compagno d’avventure. Buckmaster faceva parte della Third Ear Band (TEB) invitata a suonare con altri nelle ore precedenti lo show di Jagger & Co. Un cast bizzarro che proponeva i King Crimson, ancora vergini discograficamente, i Family, Alexis Korner, Roy Harper e i Battered Ornaments, la band dell’ex paroliere dei Cream, Pete Brown. Difficile però che tra i duecentocinquantamila presenti qualcuno si sia davvero reso conto del guazzabuglio, un po’ perché era già norma all’epoca e un po’ per via della mole di canapa indiana e acidi consumata nell’occasione. Meno di due anni dopo Buckmaster ritrovò gli Stones, questa volta per gli arrangiamenti orchestrali di «Sticky Fingers» (in Moonlight Mile e Sway), ma a quel punto la sua carriera di arrangiatore provetto, apprezzato e ricercato era avviata, mentre del tutto archiviate le sue esplorazioni in proprio o assieme a illuminati come quelli della congrega TEB, gente affascinata da riti, magie, antichi egizi e druidi.
Il vertice del suo lavoro come musicista prese forma grazie a una sontuosa formazione, il Chitinous Ensemble, responsabile dell’omonimo album registrato fra il 31 marzo e il 13 aprile del 1970, pubblicato nel 1971 dalla Deram, ristampato nel 2005 dalla Vocalion e in tempi assai rapidi tornato fuori catalogo. C’è di che rammaricarsene. Si tratta di un’opera di impressionante visionarietà, una delle prove più riuscite tra i tanti tentativi pioneristici intenzionati a far convivere linguaggi musicali eterogenei ai tempi ritenuti inconciliabili. Buckmaster mise ogni cosa a suo posto, l’esperienza con la Third Ear Band, il suo interesse per la musica contemporanea e l’amore per il jazz impastato di suoni elettrici e di echi rock, materia nella quale, in quella stagione primeggiavano i Nucleus. Non a caso, da lì il Chitinous Ensemble pescò il leader Ian Carr, John Marshall e Brian Smith, reduci da meno di tre mesi dalla registrazione di «Elastic Rock». Temperie creativa del tempo. La copertina dava conto del nome della formazione, precisando l’etimo di chitina per far luce sull’aggettivo con tanto di assortimento di insetti e altri artropodi in esposizione, il cui esoscheletro è in massima parte composto da chitina, appunto. Quanto alla formazione, si trattava in buona sostanza di un’orchestra composta da diciotto violini, cinque viole, nove violoncelli, quattro contrabbassi, una sezione fiati comprendente sei ottoni e quattro ance, una ritmica formata da due pianisti, due bassisti, un chitarrista, due batteristi e quattro percussionisti. Un Centipede oversize, insomma, registrato un anno prima del più celebre (e celebrato) progetto tippettiano ed entrambi pubblicati nel 1971. È rimasto il suo unico album in veste di leader, un lavoro senza sbavature e neanche una rughetta che mezzo secolo di vita dovrebbe impietosamente iniziare a mostrare.
Buckmaster confermò il suo talento e la sua versatilità tanto come compositore quanto come arrangiatore e direttore d’orchestra, e i membri dell’ensemble ebbero modo farsi valere per capacità e creatività, pur essendo un lavoro concepito per offrire brevi guizzi solistici (a Carr e Smith, oltre che a Peter Robinson al piano elettrico). L’album si compone di due mini-suite, ciascuna in quattro parti e nel mezzo altri due brani. In partenza sembra di trovarsi dentro un lavoro dello Spontaneous Music Ensemble, in un fitto conciliabolo tra corde e fiati e l’addensarsi di frasi smozzicate. È Mandible, prima parte della composizione eponima, frammento ingannevole perché l’impasto del jazz-rock di ascendenza davisiana, musica orchestrale e il pizzico di fusion ante litteram che segue fanno sì che la musica si involi sorprendendo di continuo lungo le altre porzioni: De Blonck, Mushroom Dance e Was-Eye. Segue Aldebaranian Song, brano lirico, teso, tutto affidato alla sezione archi (incluso un breve assolo di violino), nel quale si fa tangibile la frequentazione di Buckmaster con le musiche accademiche novecentesche. A tratti espressionista come in certe orchestrazioni di Bernard Herrmann per Alfred Hitchcock, si fa vertiginoso quando nell’impasto orchestrale sgocciolano le note di un piano elettrico. Tutt’altra musica in Dance, una composizione dall’andamento più sostenuto, maggiormente ritmata. Si avvicendano preziosi assoli di Carr e Smith sopra un tappeto ritmico che ricorda i trascorsi con la TEB mentre il piano elettrico impregna il tutto con sapori lievemente più funky.
La seconda mini-suite, Ronkproat’tn, si sposta verso lidi più astratti, partendo (8 Fish-Eyes) con atmosfere analoghe ad Aldebaranian Song. Gli archi tornano signori della scena e c’è un accenno al magma sonoro che nel tippettiano «Septober Energy» invadeva un’intera facciata mancando la misura. Il brano sfocia nella delicata miniatura Rockrott, che funge più che altro da cerniera per introdurre il davisiano Loopild, con un riff di basso elettrico decisamente consanguineo di quello che pilotava Directions in apertura dei concerti al Fillmore East. Si resta ammirati una volta di più dall’ingresso in scena degli archi, maestosi, epici e mai sopra le righe. Chiude Stoned, che torna al free e all’astrazione del brano di partenza, sorta di circolarità e al tempo stesso manifesto di libertà creativa.
Il disco arrivava dopo l’esperienza di Buckmaster con la Banda del Terzo Orecchio e le diverse collaborazioni come musicista e arrangiatore, in particolare, che gli avevano già fruttato una prima medaglia d’oro per gli arrangiamenti di Space Oddity nel giugno del 1969, ovvero uno dei brani capitali della pop music. Buckmaster lavorava al brano mentre era in tour con la TEB, e la cosa non andò giù agli altri che lo volevano del tutto dentro o fuori la band, come ricordò anni dopo Glen Sweeney, uno dei padri fondatori della Third Ear.
L’indaffaratissimo Buckmaster era entrato a far parte di quella inquieta formazione nella primavera del 1969 e nel frattempo aveva partecipato alle registrazioni del primo album del machiniano Kevin Ayers, «Joy Of A Toy», ma mollò i compagni a luglio rimpiazzato da Ursula Smith, per poi rientrare nei ranghi nel settembre del 1970, sostituendo a sua volta la violoncellista e partecipando alle registrazioni del terzo e ultimo disco dei Settanta della più esoterica formazione inglese del periodo: «Macbeth», colonna sonora del film di Roman Polanski. Per la verità il gruppo aveva provato a realizzare un altro lavoro, ma il progetto fallì e di quel tentativo sono sopravvissuti tre brani apparsi per la prima volta nel 2018 come bonus nella ristampa dell’album omonimo, noto anche come «Elements». Non si concluse nulla per ragioni sostanziali: la musica si discostava troppo dallo stile, dal sound, dalle atmosfere oramai consolidate della TEB. Colpa dell’infatuazione di Buckmaster per «Bitches Brew», a sentire Paul Minns, oboista della formazione e altro membro storico. Colpa anche di certi eccessi con l’acido (sempre a detta di Minns); fatto sta che i tre brani sopravvissuti fluttuano nello spazio in modo assai strano, proprio come si sentiva il Major Tom di Space Oddity. In particolar modo The Dragon Wakes (che avrebbe dovuto dare il titolo all’album) è un brano free form, senza centro di gravità nella prima parte, prima di farsi danzante sulla falsariga di Earth (dal cosiddetto «Elements»), tra sfilacciamenti e punti di fuga. Le dichiarazioni di Minns alla fin fine risultano esagerate, ma quanto davvero accaduto negli studi di Abbey Road rimarrà ignoto per sempre. Di vero, perché accertato, c’è che Buckmaster amava sul serio «Bitches Brew», che aveva conosciuto Davis alla fine del 1969 a casa del suo primo manager, Tony Hall, dopo averlo ascoltato in concerto all’Hammersmith Odeon di Londra (oggi Apollo) e che nel 1972 avrebbe finalmente lavorato con lui per le sedute da cui sarebbero scaturiti gli allora (e a lungo) incompresi «On the Corner», «Big Fun» e «Get Up With It».
Fu in occasione di quel concerto londinese che Buckmaster conobbe un fabbricante di canzoni di talento che si era ribattezzato Elton John, a tutti i capolavori del quale avrebbe poi in pratica lavorato, da «Tumbleweed Connection» a «Madman Across the Water», per un totale di otto album ai quali va aggiunta la colonna sonora di Friends, film di Lewis Gilbert. Appare allora piuttosto sbrigativo e ingeneroso quanto scrisse David Toop nel suo Oceano di suono, citando Paul Buckmaster a proposito di Davis e ricordando in due righe che fu lui a far conoscere al trombettista opere e teorie di Karlheinz Stockhausen: «violoncellista della Third Ear Band, che approvvigionava di musica ambient quasi medievale gli hippie britannici». Una nota stonata in un gran bel libro, verrebbe da dire. Resta da aggiungere che Buckmaster, in effetti, una volta convocato direttamente da Davis nell’aprile del 1972, gli portò da ascoltare i lavori orchestrali Gruppen e Mixtur che lasciarono il segno. In realtà l’unico hippie, almeno nel look, con cui Buckmaster lavorò in diversi album, suonando e arrangiando, fu il texano Shawn Phillips, sorta di Tim Buckley anch’egli alle prese con l’esplorazione delle tecniche vocali. Poi, dopo aver vagato tra Londra e Parigi, finì a Positano sulla costiera amalfitana. Lidi che Buckmaster conosceva bene. Sua madre, napoletana, era dilpomata al conservatorio di San Pietro a Majella e intuendo le qualità del figlio lo mandò «a casa» per studiare violoncello con Willy La Volpe. A Napoli Paul si fermò quattro anni.
Assieme a Buckmaster nei dischi di Phillips si ritrovano alcuni musicisti che nel gennaio del 1972 avevano dato vita a una jam session rimasta strepitosa, l’ultima incursione di Buckmaster nell’azzardo. Ritrovò il chitinoso Perry Robinson (che arrivava dai Quatermass e poi finì nei Brand X di Phil Collins), il bassista John Gustafson, anche lui ex-Quatermass e a sua volta destinato a un altro (ex) Genesis, Steve Hackett. C’erano poi Martyn Ford, che aveva iniziato come arrangiatore per i Barclay James Harvest e qui impegnato al corno, Trevor Morais (anni dopo con la Penguin Cafè Orchestra), il chitarrista Anthony R. Walmsley, al quale il futuro destinava una militanza nei Napoli Centrale di James Senese, e Anode L. all’anagrafe Ann Odell, sessionwoman di formazione classica e ai tempi ricca di committenze, da Sir Andrew Lloyd Webber a Bryan Ferry, nonché membro dei Blue Mink. Che aria tirasse in quello studio è inimmaginabile, fatto sta che quella che sulla carta pare ancora oggi un’accozzaglia senza senso di musicisti trovatisi lì per caso, improvvisò con un affiatamento che pareva frutto di anni e anni di frequentazione andandosene a zonzo per i terreni elettrici spianati da Davis e dando vita a un’orgia sonora inebriante rimasta chiusa in un cassetto per oltre quarant’anni. Ripescato da Esoteric e pubblicato a nome dello Sphincter Ensemble con il titolo «Harrodian Event #1» nel 2013, è anch’esso fuori catalogo ed è davvero un’altra circostanza disgraziata.
Si trattò un episodio limite in uno sciame di collaborazioni il cui elenco, seppur qui succinto, disegna sufficientemente bene il campo largo in cui Buckmaster agì allora e in seguito, suonando o arrangiando con i Blood Sweat & Tears, i Go di Stomu Yamash’ta, Chris Farlowe prossimo a far parte dei Colosseum, i Caravan, Rupert Hine nel cui album «Pick Up A Bone» (1971) compariva assieme al geniale Simon Jeffes cui si deve la Penguin Cafè Orchestra, Claire Hammill, Michael Chapman, Leonard Cohen, ma anche gruppi rock come i Mott The Hoople, per i quali ricorse a un violoncello elettrificato.
L’Italia tornerà spesso nella vita professionale di Buckmaster, che arrangerà l’esordio di Angelo Branduardi, lavorerà per Riccardo Cocciante, Teresa De Sio e in tempi più vicini a noi per Eros Ramazzotti, lasciando ovunque il segno del suo tocco d’arrangiatore sopraffino. Ma questa è un’altra storia, quella del professionista ricercato da tutti e che ci ha lasciato nel 2017.
La storia del Chitinous Ensemble, invece, è in fondo quella di un ritratto dell’artista da giovane e di un’opera unica, sia perché non ebbe seguito sia perché non ci fu alcun lavoro altrui comparabile, né allora né dopo.
Una sortita nell’ignoto, tuttora vincente.