La musica viene prima di qualunque cosa

È sempre un onore ma anche un piacere parlare con un autentico monumento come il grande contrabbassista, al quale torniamo a dedicare la nostra copertina dopo sette anni

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Sono passati sette anni dalla nota intervista con Ron Carter, che fu la nostra cover story del marzo 2017. Un incontro che fu lungo e esaustivo nella sua bella casa nell’Upper West Side di New York, non lontano da quella che fu l’ultima di Miles Davis, tanto che dal 2014 quell’incrocio tra West 77th Street e West End Avenue è stato rinominato giustamente «Miles Davis Way» (eravamo all’inaugurazione e suggeriamo un piccolo pellegrinaggio agli appassionati in tour newyorkese).

È chiaro che Carter a Davis deve molto: la sua permanenza nel famoso quintetto ha segnato in maniera indelebile la sua carriera e la storia del jazz tutta. Infatti in quell’incontro di qualche anno fa, giusto per dare una rispolveratina alle glorie passate, ci eravamo soffermati a parlare col maestro indiscusso del contrabbasso jazz proprio del rapporto personale e artistico con Miles, oltre che raccogliere le testimonianze sugli inizi della sua carriera, lunga e fulgida come non mai. Carter allora stava per compiere ottanta anni (è del 4 maggio 1937) e tra non molto ne compirà ben ottantasette: un’età in cui chiunque, che faccia il musicista o altro, pensa sinceramente che forse sia venuto il tempo di ritirarsi e magari fare qualche apparizione pubblica per ricevere eventuali onorificenze. Non è il suo caso: Ron Carter non solo è sempre attivo, ma appena può va in tour, incide, suona con la stessa grande maestria di sempre, senza perdere un colpo. I suoi impegni al di fuori di New York si sono leggermente diradati dagli anni del Covid in poi, come del resto è successo a molti musicisti, ma ha diversificato ancor più le collaborazioni e persino incrementato la pratica didattica, come vedremo tra poco. È proprio questo suo atteggiamento verso la vita e la musica che gli permette di muoversi, creare, immaginare con passione e in fondo rimanere quell’eterno ragazzo amorevolmente abbracciato al suo strumento. Una lezione da non dimenticare mai. Lo stile, l’umile attenzione verso gli altri, l’eleganza del portamento e quindi la classe in genere fanno di lui un essere umano esemplare. Ci è sembrato giusto allora ritornare a trovarlo per parlare ancora della sua musica e di altro: del resto con Carter non ci si stanca mai, è una fucina di buonumore. Un vero gentleman. La pandemia, che forzatamente gli ha ridotto l’attività, non lo ha scalfito minimamente: l’arte e il fisico hanno un vigore invidiabile per un uomo della sua età e dalla carriera che si avvicina ormai alla settima decade. Diciamo che la sua è una creatività raffinata, essenziale, non certo esplosiva come quella di Davis o di altri con cui ha collaborato in tutti questi anni. Alla fin fine il suo modo di vivere la musica ha travalicato tutti, facendogli raggiungere il record, non facilmente eguagliabile, di ben 2.221 sedute di registrazione. Una cifra stratosferica che certamente non è definitiva: nel frattempo lui procede imperterrito e non ama guardarsi indietro. Il suo è un carisma discreto, ma presente, mai ingombrante: ogni musicista che abbia avuto modo di suonare con lui testimonia questa sua solidità. Un gigante cui appoggiarsi sicuri di non perdere mai il senso di ciò che si sta facendo.

È ovvio che Ron Carter non «nasce» artisticamente con Davis: c’è un prima e soprattutto un dopo, anche se quei cinque anni – dal 1963 al 1968 – ne hanno cementato la fama, come è successo a tanti altri musicisti che con Miles hanno condiviso un periodo della loro vita. Tanto per fare il nome di un altro contrabbassista, basti pensare a Dave Holland. D’altro canto è evidente che la definizione del suo stile, si è formata senza scossoni o rivoluzioni epocali, né tantomeno con cedimenti verso banalità lucrose, se non in alcuni rari momenti. È come un gigantesco mosaico che è venuto a comporsi pezzo dopo pezzo, fino a mostrare un totale d’inedita, imprescindibile chiarezza. La «cavata», come si dice in termini tecnici, di Carter è leggendaria: sotto le sue dita, o con l’archetto, emerge un suono pieno, profondo, senza sbavature. Il suo è un tocco ritmicamente impeccabile e armonicamente brillante, come il procedere di un atleta da mezzofondo che sa come avanzare senza perdere il passo per arrivare al traguardo che ha di fronte. Se sommiamo ipoteticamente gli anni di Jimmy Blanton e Scott La Faro siamo a circa la metà di quelli attuali di Ron Carter, eppure se con quei due grandi maestri e innovatori, dalla vita così breve, il nostro contrabbassista si è inevitabilmente confrontato, è con la costanza e il tempo dalla sua parte che è riuscito a raggiungerli in un Olimpo immaginario dello strumento, pur nella diversità di stili e di epoche storiche. Un’altra qualità che differenzia Carter da molti altri contrabbassisti è il magistrale uso che lui fa del «piccolo», strumento somigliante al violoncello anche se di forma un po’ più larga. Il piccolo ha una diteggiatura analoga a quella del contrabbasso, ma con un’accordatura di un’ottava sopra. Ciò lo rende particolarmente «sinuoso» e leggero nell’acustica: se suonato come si deve ha un fascino tutto suo. Una comparazione si può fare con il violoncello impiegato dal grande Oscar Pettiford (che ne fu pioniere dell’uso in campo jazzistico), al quale lo stesso Carter si riferisce esplicitamente: non a caso nel suo famoso album «Piccolo» (Milestone, 1977) Carter incise proprio una composizione di Pettiford, Laverne Walk, rendendogli così omaggio. Il raffronto fra questi due giganti dello strumento si ferma però qui, perché a Pettiford concediamo senz’altro una marcia in più come compositore. Carter ama di più la partnership, lo scambio parallelo con altri strumentisti che siano alla sua altezza: da Jim Hall a Richard Galliano ne abbiamo viste e sentite delle belle. Il suo è uno stimolo basato sulla ricezione: con i grandi si esalta e diventa insuperabile. Ma sentiamo da lui stesso cosa ne pensa a proposito.

Vorrei iniziare, se me lo concedi, da un episodio del tutto straordinario cui ho potuto assistere lo scorso anno: la tua partecipazione alla band di Bob Weir (dei Grateful Dead) al Radio City Music Hall. Con loro hai suonato un classico del rock psichedelico: Dark Star. Come è nata questa inedita collaborazione?
Mi hanno chiamato. Tutto qui. Il management mi ha chiamato dicendo che la band desiderava avermi come «special guest» di quel concerto. Ho risposto: «Ci devo pensare». Io non sapevo nemmeno chi fossero i Grateful Dead, né avevo mai ascoltato la loro musica. Poi ho accettato.

Incredibile!
Perché?

Perché quella sera hai suonato davvero bene, come se conoscessi a menadito quella musica! Di più: quel tipo di rock così informale, e se vogliamo relegato a un’epoca specifica.
Davvero, non li conoscevo per nulla. Ricordo solamente che in passato qualche volta venivano a suonare al Beacon Theater, che è vicino a casa mia. Posso dire comunque che sono sempre contento di suonare con bravi musicisti e che abbiano passione per la musica. Che conoscano sul serio la musica. Io così mi impegno a suonare come se appartenessi alla band. Mi è piaciuto moltissimo essere lì con loro: davvero dei bravi ragazzi! 

Te lo chiedevo perché mi è sembrato inusuale, oltre che affascinante.
Ma la musica era veramente bella! E lo farei di nuovo: sicuramente suonerei meglio la seconda volta! 

Ero anche a sentirti alla Carnegie Hall nella serata speciale a te dedicata in occasione del tuo ottantacinquesimo compleanno. Ricordi?
Certamente! Ero lì per tutta la serata!

Hai suonato in duo, trio e quartetto. La sala era stracolma e il pubblico ti ha omaggiato con una standing ovation. Puoi spiegare meglio questo tuo modo eterogeneo di metterti in gioco come musicista suonando in contesti così diversi?
Be’, posso dirti che ogni volta sono sorpreso quando musicisti che non provengono dal mondo del jazz mi chiamano per suonare con loro. Io appartengo alla comunità del jazz e sono ampiamente riconosciuto per quello. Quando Bob Weir mi ha chiamato, così come hanno fatto altri in passato, mi sono chiesto: ma come fa a conoscermi se suona una musica così differente dalla mia? La stessa cosa mi successe con Kate Taylor, la cantante sorella di James Taylor, quando mi chiese di registrare con lei qualche brano una ventina d’anni fa. Anche lei non la conoscevo, ma una volta che mi fece ascoltare dei pezzi accettai perché la musica mi piaceva. Pensa che anche il rapper Q-Tip della band A Tribe Called Quest mi cercò anni fa. Non sapevo chi fosse, quindi chiesi a mio figlio se la cosa avesse un senso. Mi disse di accettare, perché la band era parecchio famosa e i ragazzi avevano grande rispetto per me. Mi consideravano molto importante. Così l’ho fatto. Infine ciò che penso è sapere che per qualcuno non appartenente al mondo del jazz il collaborare con me può essere gratificante. È una cosa che stuzzica e stimola la mia curiosità. Oggi ci sono tanti bassisti nel jazz molto validi, perché chiamare proprio me? 

Perché sei molto noto anche al di fuori del jazz e sanno che puoi trovarti a tuo agio in qualsiasi contesto. È ovvio che la cosa possa interessarti. Poi c’è l’aspetto più intimo, più personale, come per esempio la splendida serata che ricordo di recente al Birdland in duo con Bill Charlap. Straordinaria!
Oh, davvero un bellissimo concerto! Io e Bill ci siamo divertiti un sacco! 

In quel caso c’era una perfetta osmosi fra te e il pianista. Credo che il duo con qualcuno che ti è congeniale sia la situazione migliore per te. Con chi suoneresti ancora?
Con Bill Frisell. Mi piace moltissimo suonare con lui. C’è una perfetta sintonia perché lo spazio che condividiamo è equilibrato, ci capiamo bene l’un l’altro. E poi ricordo al Birdland quella settimana con la big band di sedici elementi, quindi il quartetto, il trio e infine il duo! Situazioni diverse, ma medesimo divertimento.

Nel parlare con te mi sembra di avere a che fare con un giovane musicista in cerca di nuove esperienze! In che direzione sti andando adesso?
Due cose: prima di tutto ho un nuovo schermo per il computer, che mi permette di fare un sacco di cose che prima non potevo realizzare. Poi sto lavorando su nuove composizioni per big band, quindi a un nuovo album per solo contrabbasso e anche a un progetto dedicato a variazioni sulla musica sacra di Mozart. In questo momento sto raccogliendo i fondi necessari per prendere i cantanti adatti: voglio lavorare su queste mie variazioni con loro. Devono essere otto voci. È un po’ analogo al lavoro che feci con le composizioni di Johann Sebastian Bach nei miei due album a lui dedicati («Ron Carter Meets Bach», Blue Note 1992 e «Ron Carter Plays Bach», PSP 2012), solo che questa volta uso delle voci. Per l’album di solo contrabbasso invece vorrei dedicarmi agli standard, così chi ascolta non si perde e può prestare attenzione alla linea melodica. Il mio solo precedente risale al 1988, «All Alone» (EmArcy), ma lì erano tutte mie composizioni eccetto Body and Soul

Ti piacerebbe fare un duo con un altro contrabbassista?
Dovrei pensarci su. In effetti ci sono quattro o cinque musicisti con cui mi piacerebbe, però prima vorrei parlare con loro di alcune cose per me importanti: qual è il loro feeling nei confronti del contrabbasso? Che sensazioni avrebbero nel suonare accompagnando a volte l’assolo di un altro? Sarebbero capaci di tirarsi indietro quando l’altro – non necessariamente io – fa l’assolo, mettendolo così in particolare evidenza? Per me la musica viene prima di tutto, quindi avrei bisogno di partner che possano mettere da parte l’ego in funzione della bellezza del risultato. In tal caso accetterei con piacere. Ma credo di essere ormai troppo anziano per farlo. 

Andiamo ora un po’ indietro nel tempo per parlare di un paio di album fondamentali per la tua carriera artistica. Il primo a tuo nome, ad esempio, «Where?», del 1961, con una formazione stellare: Mal Waldron, Eric Dolphy, Charlie Persip e George Duvivier al contrabbasso come te. C’è anche un brano in duo con lui.
Fui davvero esaltato all’epoca dalla possibilità di suonare con George Duvivier! Ero un ragazzo, appena ventiquattro anni, e per me fu un sogno condividere con George quell’album. Un gigante dello strumento: aveva un timing straordinario! Credo che quel disco sia una delle cose migliori di tutta la mia carriera. 

E poi quei meravigliosi album in duo con Jim Hall: «Alone Together», «Live at Village West», «Telephone». Tra le cose più belle mai incise con contrabbasso e chitarra.
Lo credo anch’io! Le cose andavano così: Jim scriveva gli arrangiamenti a casa sua, da solo. Poi veniva al club per le prove (i tre dischi sono incisi dal vivo, ndr.) e il mio compito era quello di far funzionare bene i brani!

E cosa mi dici di «Piccolo», il disco del 1977 dove finalmente suoni quello strumento per tutto l’album?
Mi hai toccato il cuore! Ci tengo tantissimo a quelle registrazioni. Era l’occasione per fare un passo del tutto speciale. I brani erano tutti arrangiati da me e avevo musicisti straordinari, solo che non c’era un sax o un fiato qualsiasi. Con me al piccolo, Kenny Barron al piano, Ben Riley alla batteria e Buster Williams al contrabbasso! C’era chi veniva sempre a chiederci: «Ma dov’è il bandleader?». Bada bene: non chi è, ma dov’è! Io rispondevo: «È mio padre, ma ora non è qui…» [ride]. Ho recentemente riascoltato il remix di quel disco: che suono! E che bel quartetto di jazz! 

Mi sapresti dire qual è per te il disco più importante che hai registrato?
Questo! (e tira fuori senza esitazioni «All Alone»). Volevo vedere dove potevo arrivare con le mie dita sul contrabbasso, e poi avevo l’archetto come seconda opzione. Non ci sono sovraincisioni in quel disco, nessun trucco. Solo io e il mio contrabbasso. Lo strumento suonava benissimo, quel giorno: non so se sarebbe stato lo stesso in un’altra giornata. Credo che tu capisca cosa voglio dire. Comunque tutti i dischi che ho registrato sono importanti per me, anche per via dei musicisti con i quali li ho condivisi. 

Mi sembra di capire che per te è assolutamente necessario prendere qualcosa dai musicisti con cui ti metti in rapporto.
Certamente! È come andare a scuola gratis! Che si sia trattato di Art Farmer, di Chet Baker, di Miles Davis o altri: mi hanno dato qualcosa che non avrei potuto trovare altrove. 

Così impari ogni volta.
È per questo che lavoro ogni sera! I musicisti con cui suono mi aiutano a migliorarmi, a suonare ogni volta meglio di prima. È la loro presenza che è importante: per il loro interesse per la musica, per l’amore che hanno verso la musica. È come lavorare gratis per me stesso! Se le cose funzionano io mi sento meglio, insisto con gli altri sul palco: «Dai, facciamo un altro brano! Continuiamo!». 

È per questo che i tuoi impegni, le tournée che fai, sono sempre così frequenti.
Beh, devo dire che giro meno di un tempo. Non è più così semplice per me viaggiare. Cerco di stare a casa più tempo possibile e godere dello splendido caffè che mia moglie mi prepara!

Come hai passato gli anni della pandemia?
Ho scritto e pubblicato quattro libri per una piccola casa editrice che ho fondato: Ron Carter Comprehensive Bass Method, Blueprint for the Working Jazz Bassist, Seven Unique Bass Arrangements, Behind the Changes, che si vanno ad aggiungere ad altri che ho scritto (per i musicisti: questi metodi sono rintracciabili online al sito di Ron Carter, roncarterjazz.com). Ho scritto tanto perché stavo a lungo a casa, visto che non si poteva viaggiare. Mi è piaciuto stabilire una routine di scrittura. 

Insegni anche direttamente a qualche studente?
Ne ho quattro che seguo in questo periodo. In passato ho anche insegnato in scuole di musica, ma non lo faccio più per via del tempo a disposizione, delle pratiche burocratiche e dei meeting cui ero sottoposto. Quindi insegno privatamente ai ragazzi come suonare meglio il contrabbasso.

C’è qualcuno fra i tuoi studenti che tu pensi un giorno possa diventare un grande musicista?
Questo non glielo posso mica insegnare io. Dipende da loro stessi!

Bella risposta! Allora mi sapresti dire se c’è un progetto, qualcosa che tu hai in mente che non sei ancora riuscito a realizzare?
Ho già fatto tutto ciò che avevo in mente: progetti con orchestra sinfonica, big band, quartetti, trii, duo. Tutte cose che mi interessavano e che ho avuto modo di realizzare. Non cerco altro se non fare il mio lavoro ogni giorno. 

Parliamo di musicisti europei: con chi ti sei trovato meglio nel suonarci assieme?Richard Galliano senz’altro. Straordinario fisarmonicista. Con lui ho fatto belle incisioni e tournée davvero piacevoli. Ecco un musicista che capisce sul serio l’importanza del contrabbasso! L’unico mio problema è che non parlo francese! E lui si sforza a parlare meglio l’inglese. Ma in fondo ci capiamo: è un musicista eccellente. Poi Friedrich Gulda, col quale sono andato in tour molti anni fa, credo fosse la prima volta per me: era un’orchestra di sedici elementi americani e europei, da lui diretta. Bellissima esperienza. C’era anche Tubby Hayes, il formidabile sassofonista inglese e il bravissimo trombonista austriaco Erich Kleinschuster, poi tanti altri grandi musicisti europei: purtroppo molti nomi li ho dimenticati. Oggi mi capita meno di poter andare in tour in Europa: ho bisogno di tornare a casa a New York più di frequente. 

Cosa mi sai dire invece del pubblico europeo rispetto a quello americano: c’è molta differenza?
Se c’è differenza, dipende solo da me. Da come suono in una determinata circostanza. L’importante per me è riuscire a farmi ascoltare il meglio possibile, che io sia il leader o il comprimario della band. Il mio compito è sempre far loro prestare attenzione alla mia musica. Far venire loro la voglia di ascoltarmi, per capirci. Non dipende dal volume sonoro, ma da come reagisce la gente di fronte alla mia musica. Ciò che mi interessa è la loro attenzione. Se ciò non succede allora devo cambiare qualcosa. Ti faccio un esempio: una serata in un club. La gente parla, magari ad alta voce, ma io non pretendo di essere alla Carnegie Hall: è un jazz club, la gente beve, mangia, si diverte. E va bene così, non mi sento offeso, capisco che sono a loro agio. Quindi non cerco di alzare il volume o di fare un assolo potente, anzi suono piano, magari per fare in modo che loro provino ad ascoltarmi di più. Funziona, credimi. Succede a New York come in Europa. Mi è capitato al New Morning Jazz Club di Parigi: c’era tanta gente che chiacchierava, molti turisti, ma sono riuscito a fare in modo che smettessero di parlare per ascoltarmi. Questo è il mio compito. Devo essere sempre cosciente della risposta del pubblico verso la mia musica. 

Cosa ti interessa di più in questo periodo della tua vita?
Insegnare. Mi piace molto insegnare ai ragazzi come suonare il contrabbasso, ma non solo: cerco di insegnare loro a essere delle persone migliori, prima che musicisti di ottimo livello. Per questo rimango di più a New York: vorrei che i miei allievi o quelli che leggono i miei libri capiscano che essere persone per bene e istruite è importante quanto suonare bene. Direi anzi che è assolutamente necessario. 

 

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