Se con una scorciatoia si potesse riassumere il senso della musica dell’ICP si parlerebbe di «rischio della libertà»; e se si percepisse un nume tutelare che vigila sulle loro esecuzioni costui avrebbe il nome e le fattezze di Misha Mengelberg, che nel 1967 varò assieme al batterista Han Bennink e al sassofonista Willem Breuker uno dei più sovversivi, dirompenti collettivi della musica europea contemporanea.
Non c’è un solo membro dell’ottetto – presente come punta di diamante della programmazione del «Summertime 2022» alla Casa del Jazz di Roma – che non finisca per parlare di Misha (sconfitto dall’Alzheimer nel 2017), del suo progetto culturale, del metodo di conduzione e della forza compositiva. Qualcosa che doveva scorrergli nel sangue, l’ostinata ricerca di libertà dalle forme. In effetti, quando nacque a Kiev nel 1935, il padre Karel, direttore d’orchestra di gran fama, ne dirigeva l’orchestra sinfonica e collaborava con le produzioni cinematografiche di Sergej Ėjzenštejn, in quei mesi impegnato a sonorizzare Bežin lug (Il prato di Bežin), da subito contrastato dalla ghigliottina della censura staliniana. La soffocante mancanza di libertà portò Karel a trasferire la famiglia in Olanda e fu proprio l’Olanda l’epicentro della rivoluzione a trazione Mengelberg-Bennink, che a distanza di 55 anni rivela una vitalità ai vertici dell’indice di Apgar.
Il ciclone ICP, acronimo di Instant Composer Pool, si presenta addirittura in anticipo per il soundcheck, in un pomeriggio straziato dall’afa e dai moscerini, che per più di un’ora Bennink sterminerà a mazzate di bacchette per batteria, tra un colpo e l’altro di charleston. Il fatto è che per gli otto musicisti non si tratta solo di trovare volumi ed equalizzazioni, ma darsi un’idea di quello che suoneranno di lì a un paio d’ore. È una via temperata a quello che fu il «metodo» di Mengelberg con l’orchestra: consegnare la tracklist cinque, massimo dieci minuti prima dell’inizio (su un repertorio di centinaia di brani, peraltro). «Per lo più era Misha a decidere i pezzi», racconta il trombettista Thomas Heberer, prossimo ai vent’anni di militanza nel Pool, «a lui piaceva vedere le nostre reazioni, immaginare come avremmo interagito. Il segreto era tenere i nervi saldi, in fondo si era talmente obbligati alla massima concentrazione per creare una musica d’insieme, che non si poteva pensare troppo. Credo fosse una strategia». «Una strategia disturbante!», lo incalza a canone Bennink, «ti ritrovavi in camerino, ma non sentivi musica né vedevi strumenti, solo un frenetico sfogliare di pagine. Magari venti minuti sarebbero stati sufficienti, ma questo non capitava quasi mai», un ricordo non dissimile a quello di Mary Oliver, violinista e violista storica del gruppo: «Misha, a pochi istanti dal concerto, ci comunicava la tonalità dei brani e un accenno alla loro atmosfera. Anche questa è, in un certo senso, composizione. Poi, tutto il resto veniva fuori da ciò che accadeva sul palco, in quell’esatto momento. Per questo due concerti non possono mai essere uguali». La scelta, spiegheranno con identità di vedute, è determinata anche dal tipo di formazione disponibile (a Roma, per esempio, Wolter Wierbos è assente a causa di una lunga convalescenza dopo un problema di salute). Subito dopo il concerto, raccontano, torneranno in Olanda per suonare prima al North Sea Jazz Festival, poi con una marching band, alcune composizioni di Mengelberg e anche, in un paese nelle campagne fiamminghe, con un gruppo di sessanta musicisti dilettanti (ci sono pompieri, impiegati, agricoltori, chiunque voglia cimentarsi). «Quando c’era ancora Misha», ricorda Bennink, «abbiamo suonato in Puglia con una banda di paese, fu molto divertente. La alternavamo con le serate in cui eravamo sul palco con Pino Minafra».
Lo si consideri scritto a matita, il termine «free», sotto la cui ombra viene tradizionalmente ascritta l’esperienza del Pool che però lo ritiene fortemente riduttivo. Fatto sta che, se si avesse voluto avere un termine di paragone tra l’avanguardia statunitense e quella europea, il «Summertime 2022» ha proposto a distanza di pochi giorni Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, Franco D’Andrea con un nuovo progetto orchestrale in via di pubblicazione e, appunto, la ICP. Tutti leader con un’età oscillante tra i 77 e gli 82 anni e con il comun denominatore di una fonte inesausta di energia e creatività, culminata con il concerto degli olandesi. Il merito? Probabilmente della stessa forma musicale di riferimento, per sua natura aperta e indisponibile ad ogni incasellamento. Guai a chiederlo ai diretti interessati: «Free è soltanto un aggettivo, c’è un jazz non libero? Devi esserlo sempre e in ogni forma, nel bop, nel cool o in quello che facciamo», osserva Ab Baars, colonna storica dell’ICP, che pesa le parole accompagnate da una prossemica fatta di imperturbabilità. Tobias Delius si limita a dire che «è un termine difficile, perché non ha referenti possibili e alla fine non riesce a definire alcun fenomeno», mentre il meno diplomatico Bennink erompe: «È solo una stronzata. Faccio musica da sempre; quando mi trovavo a suonare il sax con Peter Brötzmann partivamo da un grado zero, a volte raggiungevamo una nota comune, una sola, eravamo contenti, perché ci sembrava di aver costruito un procedimento possibile e inverso per arrivare a quella nota. Ma non chiamiamo la nostra musica “free”, è un’etichetta insopportabile».
Difficile dargli torto già ascoltando le prove del pomeriggio romano. Accennano brevemente Samba Zombie di Mengelberg, e il consiglio di Ernst Glerum al contrabbasso è sostanzialmente questo: «Può venire bene se partiamo piano, poi torna Ab, poi Thomas, no, forse no, facciamo il contrario, non saprei, OK, vediamo cosa succede sul palco, comunque può venire bene». Ecco, dove chiunque sarebbe affogato nel dubbio impastato d’ansia, all’ICP si suona così e tutti si capiscono alla perfezione anche nei ritorni di struttura da aperta a obbligata sulle sezioni di fiati, che nelle parti arrangiate bop tolgono il fiato per precisione chirurgica e soluzioni dinamiche. Una vertigine di stili che per Bennink sono «come una scatola di biscotti: ne assaggi uno, poi un altro e un altro ancora, finché non ne fai uno tu. È bello sorprendere il pubblico, ma puoi farlo se conosci tutti gli stili; io ho suonato dixieland, Swing con mio padre che era musicista, bop, ma alla fine ne esce un mix»; «Se vuoi suonare in questa band», aggiunge Tobias Delius, «devi avere un’educazione musicale completa dei linguaggi, che non vuol dire necessariamente saper leggere le note». La chiacchierata con Musica Jazz, nel frattempo, assume uno stralunato sapore di performance, perché si crea una sorta di circolo con i musicisti che vanno, vengono, si completano nelle risposte, emendano e si allontanano di nuovo, come se ci si trovasse, anche lì, dentro un momento performativo inespresso; sono tutti d’accordo, ad esempio, nel sottolineare che uno degli elementi qualificanti l’ICP risiede nelle individualità dei musicisti, ognuno con una propria carriera indipendente, dall’insegnamento in Conservatorio al lavoro con diverse formazioni: «quando ci ritroviamo per suonare insieme ognuno porta qualcosa della propria esperienza, è una sorta di melting pot vivente ed è bellissimo». E proprio a proposito dell’istruzione musicale accademica, sia classica sia jazz, si allineano tutti in una trincea eretica, anche a dispetto del fatto che in tanti lì provengono da e insegnano in istituti di altissimo livello: «La cosa più difficile è dimenticarti di un sacco di cose imparate a scuola», scherza Baars, moderato da Heberer: «credo che sia un tipo di istruzione valida, anzi di certo lo è, ma non è strettamente necessaria. Puoi imparare tecniche di armonizzazione, principi di composizione, ma…». «Io non so leggere le note e non sono mai stato in un conservatorio», lo incalza Bennink, «però ho sviluppato un orecchio che mi consente di suonare la musica che ho in mente. Non ho bisogno di libri e spesso mi trovo a fare la setlist conoscendo i pezzi a memoria…». «Anche perché considera», chiude il cerchio Delius, «che abbiamo centinaia di brani in repertorio, non possiamo portarci dietro un’enciclopedia, dobbiamo viaggiare leggeri, essere leggeri». Certo, la memoria, ma gli arrangiamenti per fiati sono necessariamente annotati, dato anche un certo gusto per la complessità armonica delle soluzioni: «Quasi la metà degli arrangiamenti per le sezioni sono di Misha, per il resto contribuiamo noi con le nostre composizioni»; in concerto proporranno una versione lievemente surreale che sembra occhieggiare a Take The «A» Train. «L’amore per Ellington ci mette d’accordo tutti», conferma Heberer, «anche se Misha non aveva dubbi su chi fosse il suo compositore preferito. C’è un docufilm su di lui del 2006 (Afijn, diretto da Jellie Dekker) dove, alla domanda, Mengelberg risponde convinto: “Thelonious!”».
Monk, in effetti, torna in una versione stralunata e originalissima di Criss Cross durante il concerto, che inizia con una specie di «manifesto» programmatico dell’ICP: cinque minuti di flusso di coscienza aperto a ogni deriva improvvisativa, che d’improvviso converge sull’ellingtoniana The Mooche, con una tenuta di swing da grande orchestra fatta per riorientare il pubblico. È la modalità del Pool per creare un effetto madeleine, le tempeste astratte sono il portale, il mezzo per provocarsi e provocare il pubblico. «Chi ci ascolta è certo una componente importante, ma non suoniamo per assecondare i gusti del pubblico. Io adesso so soltanto di essere a Roma, ma non per questo suoniamo Domenico Modugno, noi facciamo la nostra musica», precisa Bennink, sollecitato sul tipo di rapporto che si instaura tra performers e ascoltatori. «Noi sappiamo benissimo», racconta Delius, «che nel nostro pubblico non sono tutti educati a quel tipo di ascolto né, probabilmente, hanno una collezione di dischi a casa. Ma è diverso: qui devono vedere quello che accade e apprezzare il fatto che noi, in quel preciso momento, stiamo azzardando, ci prendiamo dei rischi. La gente non deve avere conoscenze tecniche (quello è il nostro lavoro), deve avere il piacere di nuotare dentro un’avventura. Sai, spesso la musica astratta può risultare più accessibile di altra costruita dentro strutture», annuiscono tutti alle parole del collega di Oxford (Tobias è inglese di padre argentino e madre tedesca, una carriera in Messico e il trasferimento in Olanda, melting pot nel sangue), che prosegue: «ti dirò di più: non ho nessun problema se qualcuno si addormenta mentre suono, non c’è nulla di male! Cerchiamo di essere accessibili e il segreto è non prenderci troppo sul serio, di modo che la musica possa essere una gioia per giovani, vecchi, cani, bambini [risate inevitabili]». «Proprio così», contrappunta Bennink, «mai essere troppo seri! Lo siamo già in abbondanza. Durante un concerto c’è una sorta di eccitazione comune perché percepisci il senso che tutti sono dentro il momento. Quando vai ad ascoltare musica deve accadere qualcosa di autentico, e questo la gente lo capisce e lo apprezza!».
L’idea del rischio di essere liberi, l’azzardo della sovversione, ma dentro un contesto di divertimento è, probabilmente, il tratto più evidente che distingue il piglio avanguardistico dell’ICP rispetto all’esperienza parallela statunitense. Non si tratta in sé di una connotazione geografica. «Dentro il Pool sono passati Butch Morris o Uri Caine», ricorda Bennink, «però devono seguire noi, essere dentro la nostra musica, il nostro timing. Quando sono sul palco è il momento in cui voglio esprimere la mia originalità, non voglio parti scritte; quello lo fanno altri, anche molto bene, penso a Tom Rainey, ma non è quello che so e voglio fare». Con una latenza significativa, sul punto, arriva anche la risposta di Ab Baars, che ci deve aver pensato un po’ su: «Subito dopo la seconda guerra mondiale c’è stata una forte spinta in Europa a imitare la musica jazz americana. Non era sbagliato, il mondo di riferimento era quello. Poi, all’inizio degli anni Sessanta, gente come Bennink, Mengelberg e Breuker si è detta: “Siamo nati in Olanda! Abbiamo marching bands, canzoni popolari, tradizione classica, perché non dovremmo attingere alle nostre radici? Non veniamo da un ghetto di New York”. Questa è una prospettiva completamente differente dal proporre “American jazz music”. Suoniamo anche quei grandi compositori, ma li suoniamo noi, li suona l’ICP e questo vuol dire che non imitiamo lo stile di nessuno».
A ben guardare, in effetti, laddove spesso l’esperienza d’avanguardia oltreoceano ha avuto una forte connotazione politica espressa (le proteste contro il razzismo, il riconoscimento dei diritti civili, le ineguaglianze sociali), in Europa si tratta più di una «pratica culturale, con una spiccata attitudine trasformativa della società attraverso il significato della musica, in particolare cambiando la natura dell’improvvisazione e della performance. Da un punto di vista etnografico, l’ICP incoraggia a riconsiderare gli armamentari concettuali che usiamo solitamente per descrivere cos’è l’improvvisazione e la creatività» (Floris Schuiling, The ICP And Improvisation Beyond Jazz, Routledge 2019). Ed è la creatività il mezzo per costruire una specie di Utopia: «Certo, un’orchestra è come una società», concorda Delius, «la prima di riferimento, nel nostro caso, è la famiglia. Poi si attivano tutte le implicazioni proprie dell’interazione; il Pool è un organismo, un fatto vivente, dove non c’è nulla di prefissato, non c’è un capo e le cose possono cambiare di giorno in giorno».
Il pubblico esce, come sempre divertito e disorientato, provocato e costretto inevitabilmente a interrogarsi su cosa sia accaduto nelle ultime due ore. È la vertigine del sentiero interrotto, quello che nel medesimo bosco d’improvviso svia e può fare paura, perché, come scriveva Erich Fromm negli stessi anni in cui Mengelberg componeva: «La libertà obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi».