The Heliocentrics: A World Of Masks – L’intervista

di Marta «Blumi» Tripodi

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Heliocentrics

Abbiamo intervistato Malcolm Catto e Jake Ferguson, fondatori di una delle band più rappresentative della scena attuale: gli Heliocentrics.

Nei loro primi dieci anni di carriera, gli Heliocentrics sono riusciti a diventare un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che interpretano il jazz come una forma mentis, prima ancora che un genere musicale. Fondati nel 2007 a Londra, sono un collettivo il cui nucleo è costituito dal batterista e produttore Malcolm Catto, dal bassista Jake Ferguson, dal polistrumentista Jack Yglesias e dal chitarrista Adrian Owusu. Ciascuno di loro è impegnato anche in altri progetti, ma è la loro unione a fare la vera forza. Come dei novelli Re Mida, ogni cosa che toccano si trasforma in jazz, e il jazz non assomiglia mai a se stesso quando viene trattato da loro: il segreto, probabilmente, è trattare con quell’approccio anche sonorità che in apparenza sembrebrebbero da esso lontanissime. L’unica costante nella loro produzione è l’eccezionale qualità di ogni loro uscita: dagli album con i maestri africani Orlando Julius e Mulatu Astatke alla collaborazione con lo sperimentatore dell’instrumental hip hop dj Shadow, dal sodalizio con il geniale Lloyd Miller fino al loro ultimo lavoro del 2017, «A World of Masks», con la partecipazione della cantante slovena Barbora Patkova. Incontriamo Catto e Ferguson dietro le quinte del Biko, teatro del loro concerto milanese. La giornata, complice un aereo perso, è stata lunghissima, il soundcheck è durato quasi due ore e gran parte della squadra – musicisti, fonici, tour manager – si è dileguata per una meritata cena, ma nulla è in grado di scalfire il buonumore dei due. «Adoriamo suonare insieme» confessano a registratore spento, «Quando siamo in tour è come essere in gita scolastica: siamo un gruppo di amici che occasionalmente ha la possibilità di fare ciò che ama di più e ce la mette tutta per rendere ogni data del tour unica e irripetibile».

Vi riconoscete in una categoria musicale?
M.C. Preferiamo evitare: non appena applichi una definizione a quello che fai, ne diventi automaticamente prigioniero. Nella nostra filosofia, se fai musica facilmente etichettabile stai sbagliando qualcosa, perché vuol dire che qualcuno lo ha già fatto prima di te.
J.F. E poi noi facciamo molti generi diversi, concentrarci su una cosa sola ci annoierebbe. Spesso ci accorgiamo che gli album che ascoltiamo nel tempo libero confluiscono nelle nostre produzioni del periodo, perciò è tutto molto fluido. L’unica cosa di cui siamo certi è che non pubblicheremmo mai un disco che noi per primi non compreremmo.

Che dischi acquistate di solito?
J.F. Domanda difficile, perché compriamo davvero di tutto e in continuazione: fino a due ore fa eravamo in un negozio di Milano a scavare tra i vecchi vinili! Ultimamente amo molto band come gli US ‘69, ma il jazz ha sempre un posto speciale nel mio cuore. Di recente ho recuperato vari album di Charlie Mariano, ad esempio.
M.C. Io invece sto ascoltando parecchio una band italiana e molto sperimentale, si chiama Musica Elettronica Viva. In questo periodo mi piace spingermi fino agli estremi. Più sono album strani e fuori dagli schemi e più mi piacciono.

Che ruolo ha il jazz nella vostra produzione?
M.C. Non siamo musicisti jazz: da ascoltatori lo adoriamo, quindi siamo molto in sintonia con quel mondo, ma in maniera molto libera e anti-dogmatica. Quello che facciamo è una nostra personalissima versione del genere, ma se dovessimo adeguarci agli standard richiesti a un vero jazzista sicuramente saremmo in difficoltà, psicologicamente e professionalmente. Anche perché non abbiamo una formazione classica.

Heliocentrics
Heliocentrics

In che senso?
J.F. Alcuni di noi hanno studiato musica in maniera tradizionale, prendendo lezioni o frequentando il conservatorio. Altri invece sono del tutto autodidatti. Io sono uno di loro: non so neanche leggere la musica.
M.C. Io una volta ero in grado di leggerla – da ragazzino ho preso lezioni di pianoforte – ma ormai ho dimenticato come si fa!
J.F. In generale, comunque, quando lavoriamo insieme facciamo tutto a orecchio, improvvisando: non bisogna sottovalutare l’importanza di ascoltarsi l’un l’altro e di saper interagire senza avere una vera e propria composizione su cui basarsi. Puoi avere uno spartito dettagliatissimo che ti spiega esattamente cosa devi suonare, ma se non c’è una buona sintonia all’interno della band, il risultato sarà comunque mediocre.
M.C. Esatto. È una questione di chimica. Per noi lavorare con una partitura vera e propria non funziona: saremmo troppo concentrati sull’azzeccare le note giuste piuttosto che sul vivere il momento e trarne il meglio. I nostri brani cambiano sempre un po’ ogni volta che li suoniamo, a seconda dell’umore del giorno o di come reagisce il contesto intorno a noi. Un effetto che, chiaramente, dal vivo si amplifica.

È vero che durante le registrazioni di «A World of Masks» perfino i testi dei brani sono stati improvvisati sul momento?
J.F. Esatto, anche i versi di Barbora erano costruiti sull’onda del momento, in base alle nostre sensazioni.
M.C. Paradossalmente, penso che l’alchimia finale sia così perfetta perché non suoniamo spesso insieme. Tutti noi viviamo di musica, e per riuscire a mantenerci in una città cara come Londra dobbiamo fare anche i turnisti in progetti altrui. Ma quando ci troviamo tra di noi, ci ispiriamo l’un l’altro: la curiosità ci spinge a esplorare territori sempre nuovi. Magari non ci vediamo da un po’ e abbiamo accumulato parecchi nuovi ascolti su cui confrontarci, perciò mescoliamo tutte le nostre influenze – da Stockhausen alla musica elettronica, dal jazz alla psichedelia – e il risultato è il sound degli Heliocentrics. Una specie di torre di Babele in cui ciascuno parla la propria lingua ma alla fine ci si capisce alla perfezione.
In un certo senso, insomma, non sapete mai quali saranno le sonorità dell’album a cui state lavorando finché non è finito.
J.F. Se lavoriamo a un progetto nostro al 100%, l’effetto sorpresa è garantito. Per le collaborazioni, invece, è un po’ diverso. Lì la situazione si fa più complesa. È il caso dell’album con Mulatu Astatke. Abbiamo lavorato con molti musicisti etiopi, e avremmo potuto provare a copiare il loro stile per fare un prodotto nel solco della loro tradizione, sia a livello armonico che ritmico. Invece abbiamo scelto di fare diversamente: abbiamo provato a suonare i loro strumenti, applicando però la nostra sensibilità di occidentali e inglesi, e il risultato è stato qualcosa di diverso, inedito. Crediamo sia l’approccio giusto, perché non ha senso cercare di emulare ciò che è già perfetto e intoccabile.
M.C. La world music è una delle nostre più grandi passioni, anche perché ci sono molte affinità con quello che facciamo noi. Ma questo non vuol dire che dobbiamo cercare di replicare pedissequamente il suo sound. Il che è il problema di tante band odierne che si rifanno a generi storici, come il reggae o il funk: cercano di ricreare a tutti i costi un’atmosfera che era legata a un periodo e a un contesto, senza ovviamente riuscirci.

Per il vostro ultimo album, però, anche voi avete preso a modello alcuni riferimenti musicali del passato, e in particolare la psichedelia degli anni Settanta. Come mai?
J.F. Sicuramente ha avuto un peso il fatto che questa volta abbiamo lavorato in sinergia con una cantante: avevamo bisogno di trovare una chiave per permettere alla sua voce di emergere. È stata una sfida nuova per noi, abbiamo dovuto pensare fuori dagli schemi. Abbiamo prestato molta attenzione soprattutto alle dinamiche: è facile salire su un palco e fare più rumore che puoi, molto più difficile calibrare i piani e i forti per valorizzare ogni suono. Questo tipo di atmosfera si prestava molto a farlo.
M.C. È stata una svolta molto naturale, comunque, perché se ascolti i nostri precedenti lavori c’è sempre un’impronta un po’ psichedelica. Forse era tempo di allargare i nostri orizzonti: avevamo coperto il jazz in senso stretto (nell’album con Llyod Miller), poi la musica africana (con Orlando Julius e Mulatu Astatke), affrontando ogni volta la materia con reverenza. Ora è il turno di questa nuova avventura.

Che è sfociata anche nella composizione della colonna sonora per un documentario, The Sunshine Makers, dedicato ai pionieri dell’LSD…
J.F. Un’esperienza completamente diversa rispetto a tutto ciò che avevamo fatto in precedenza, perché effettivamente dovevamo scrivere dei brani musicali, anziché improvvisarli e basta. Il regista ci mandava qualche minuto di girato, e noi componevamo in base alle varie scene e alle transizioni. Il problema è che spesso il montaggio definitivo cambiava all’ultimo momento, e magari noi avevamo composto un tema perfetto e studiato al millisecondo che all’improvviso non andava più bene! E infatti nel vinile della colonna sonora abbiamo inserito anche una serie di brani che non sono presenti nella versione finale del film.
M.C. Siamo molto soddisfatti del risultato, però. Tanto che molte di quelle composizioni le abbiamo inserite nella scaletta dei nostri concerti; ma stavolta come temi su cui improvvisare, finalmente!

Marta «Blumi» Tripodi