Gente di mare, già. Anche ad honorem, come Mauro Pagani, per il suo celebratissimo sodalizio col Fabrizio De André dialettale. E proprio Mauro Pagani, il 22 settembre a San Salvatore Monferrato, è stato protagonista di un incontro con Enrico Deregibus nell’ambi- to di PeM. L’occasione era offerta dalla sua imperdibile autobiografia Nove vite e dieci blues edita mesi fa da Bompiani, nei cui interstizi il musicista bresciano (di Chiari) è entrato con dovizia di dettagli, intercalato da tre inserti audio-video (La carrozza di Hans di una PFM primissima maniera, 1971, Creuza demâ, a proposito di De André, e la sua Domani nella versione del 2009 per la bellezza di 56 voci, per le popolazioni terremotate dell’Aquila, emozionante), ricevendo un’autentica ovazione finale. Perché il musicista è grande e l’uomo pure. Gente di mar Ligure (di levante: Moneglia), anche qui rigorosamente in dialetto, pure in «Voxido mâ» (autoprodotto), ultimo nato in casa-Mandillà, gruppo (nello specifico con ospiti) gravitante attorno a Giuseppe Avanzino, di professione medico condotto, lavoro di estremo rigore e fragranze diffuse: per tono, strumentario, e humus complessivo, esattamente come il calabrese del cosentino Peppe Voltarelli in «La grande corsa verso Lu- pionòpolis» (Visage Music / Todomodo), dove il mare si sente da subito, letteralmente, in Mareniro, e che poi si sdipana attraverso altri nove brani di grande intensità e piglio interpretativo, il tutto abbinato a un volumetto di una cinquantina di pagine con tutti i testi delle canzoni e altrettanti brevi racconti del tutto privi di punteggiatura, à la manière di un precedente quanto mai illustre come l’Ulisse di Joyce.
Ancora di sponda calabro-tirrenica, poco sotto (Reggio Calabria), è il quartetto Mesudì, tre magistrali voci femminili gustosamente popolari e un cantante/ rapper/percussionista, che in «Nodi» (Moonlight) riuniscono nove brani originali o tradizionali rivisitati costruendo un cd di estremo rigore e, ancora, fragranza, uniti a un’eleganza, diremmo un pudore, di tratto veramente ammirevole. Da Crotone, sponda jonica, proviene invece Sergio Cammariere, che con «Una sola giornata» (Parco della Musica / Jando Music) ci regala uno dei suoi album migliori (forse proprio il migliore) dai tempi della memorabile opera prima «Dalla pace del mare lontano» (2001). Qui il mare si respira come presenza allusa, ed è comunque molti mari, quello di certo jazz, dell’amatissimo Brasile, il tutto all’interno di un concetto di chanson senza troppi confini, nello specifico con grande buon gusto, quello che a volte gli è un po’ mancato, in certe scivolate su qualche sdolcinatura di troppo. Qui no: qui ci sono tredici canzoni ben costruite e coese, con punte d’eccellenza in particolare (ma non solo) per Acqua nell’acqua (tanto per rimarcare il concetto fin dal titolo), E tu diventi più vera, I fiori parlano, fra jazz e tango, in cui compare un «grande mare di cui siamo le onde», Dite che ho bisogno, con Fabrizio Bosso di supporto, e Valzer di chimere, probabile vetta del cd. Ancora più a est, costa pugliese, voltando decisamente pagina, incontriamo la «cantattrice» Marialuisa Capurso, membro di un quartetto multietnico tutto al femminile in cui figurano una clarinettista tedesca, una pianista francese e una percussionista portoghese. Il gruppo si chiama Pink Monads e in «Multiple Visions of the Now» (4Dar), titolo quanto mai emblematico (e programmatico), sciorina una free impro assai radicale (testi della Capurso inclusi), di clima ora febbrile ora più pensoso, risolto a intermittenza com’è grosso modo fisiologico in contesti del genere. E dal Portogallo (Lisbona) come l’etichetta di cui sopraproviene anche Sara Serpa, che in coppia col chitarrista André Matos firma «Night Birds» (Roba- lo), lavoro aperto ad altri cinque artisti (fra cui due voci, oltre la Serpa) lungo tracciati a loro volta tutt’altro che docili o condiscendenti, anche se basati su scheletri ben più definiti (undici brani dei due firmatari più Bagatelle Op. 6, Lento di Béla Bartók).
Canto abbastanza lieve, invero, e atmosfere non particolarmente spinte, anzi spesso aggraziate, anche se – come detto – mai ammiccanti. Con un salto di qualche migliaio di chilometri verso nord, eccoci in Norvegia (del sud, peraltro), per riferire dell’ultimo, splendido album di Sinikka Langeland, «Wind and Sun» (ECM), in quintetto con tromba, sax tenore e soprano (Trygve Seim), basso e batteria. Le atmosfere sono quelle che conosciamo, in apparenza algide ma invece ricche di un pathos indicibile, solenne e ancestrale, quieto ma mai amorfo o esangue, anzi intriso fino al midollo in un humus profondo, quasi liturgico (ma a tratti anche più mosso, corporeo), dodici brani tutti della cantante (come sempre anche al kantele, e in un brano al mediterraneissimo scac- ciapensieri) su testi di Jon Fosse.
Con un’altra, quanto mai decisa, giravolta climatico-stilistica, nonché proprio geografica, eccoci all’italo-brasiliana Mafalda Minnozzi, che in «Natural Impression» (MPI) sgrossa ancora una volta il (vastissimo) repertorio che la avvolge, quasi la divora, la avvinghia, nella sua voracità interpretativa, riunendo una volta di più Brasile (prevalente: quattro Jobim, e poi Lins, Ben, Veloso. Bosco, ecc.) e Italia (da Estate a E penso a te), senza disdegnare una puntata francofona con la breliana Ne me quitte pas. Verve da vendere, vocalità maiuscola, temperature che indulgono a una gradevolezza palpabile ma non per questo melensa o appiccicosa.
Un’altra voce italica, quella di Laura Vigilante, travalica l’Atlantico, sporgendosi anzi decisamente sul Pacifico, in «Semil- las» (Gutenberg), live padovano del trio Remedio, col bassista Alberto Zuanon e il chitarrista peruviano David Beltran Soto Chero (ospite Sergio Marchesini alla fisa), che percorre l’America Latina nella sua componente extra-brasileira (ci sono l’argentino Atahualpa Yupanqui, la cilena Violeta Parra, Lhasa de Sela, di origine messicana, ecc.) con fare rigoroso e insieme partecipe, elegante nei modi e nei timbri, risolto sempre nel segno di un’essenzialità di toni e mezzi assolu- tamente ammirevoli.
Tutta di sponda pacifica, operando un ultimo salto della quaglia, fra la natia Autlán de Navarro, Tijuana e San Francisco, è la storia di Carlos Santana, che a fine settembre è tornato d’attualità dalle nostre parti per la proiezione di Carlos: il viaggio di Santana, docufilm di Rudy Valdez che ne ripercorre l’avventura umana e musicale, dall’iniziale, controverso rapporto col violino, lo strumento del padre José, con cui da bambino Carlos suonava in un gruppo mariachi, per poi rompere il cordone ombelicale virando verso la chitarra (scelta osteggiata da Don José, che gli avrebbe perdonato il tradimento solo molti anni dopo), fino alla nascita del gruppo che porta il suo nome, i primi successi (a partire da Woodstock, di cui il film include uno spezzone del memorabile Soul Sacrifice presentato quando i Santana non avevano nemmeno ancora un album all’attivo) e poi la fama crescente, le prime crepe, la conversione alla fede indù (tramite John McLaughlin, che nel film appare in foto ma non è mai citato, come pure Wayne Shorter, e chissà perché?), i successi personali, la definitiva consacrazione. Il tutto tracciato con mano abile, specie – forse fisiologicamente – nella fase formativa e della prima affermazione, con contributi generosi dello stes- so chitarrista, le sorelle e chi ha vissuto più a stretto contatto con lui. Se vi capita, dateci un’occhiata. Complice e devota.
In foto ©TORE SÆTRE(LANGELAND), ALBERTO BAZZURRO (CAMMARIERE, PAGANI), MARYANNE BILHAM(SANTANA)