Bentrovato. Emiliano. «The Baggage Room» sembra proprio segnare un nuovo percorso, una nuova strada per te: sia come compositore sia come pianista. Hai abbandonato la «via scandinava» per direzionarti, in ogni senso, negli Stati Uniti. Cosa è successo? Come e perché questo cambiamento?
Sai, per me i cambiamenti rappresentano sempre un tuffo nell’inatteso, nell’imprevedibile e per questo motivo mi attraggono ed incuriosiscono. «The Baggage Room» è sicuramente un disco che segna per me una svolta comunicativa, ma allo stesso tempo ripropone alcune caratteristiche del mio linguaggio musicale. Il disco è stato scritto in parte a New York e, quindi, ha indubbiamente assorbito le atmosfere e le vibrazioni della Grande Mela. Tra tutti i miei lavori, credo che questo abbia maggiormente in sé una forte matrice ritmica, va alla ricerca di quel tipico drive che tanto caratterizza l’attuale scena jazzistica americana. Nonostante sia un disco dal forte impulso ritmico, riesce però a mantenere una connessione con i precedenti lavori, caratterizzati da una significativa impronta melodica e da ampi spazi eterei. In alcuni brani ritmicamente serrati non mancano incursioni nelle nebbie scandinave e nelle atmosfere dilatate dei panorami nordeuropei che caratterizzano il mio stile.
So che il titolo narra una storia, anzi più d’una. Ce le vorresti spiegare?
«The baggage room» è il nome della stanza in cui venivano depositati i bagagli dei migranti italiani a Ellis Island, un luogo dove, soprattutto oggi, è molto difficile rimanere indifferenti. Quella stanza, per molti, direi per tutti, ha rappresentato un varco verso un mondo nuovo, l’approdo in una terra straniera, potrei dire quasi aliena, un salto nel vuoto, lasciandosi alle spalle tutto. In un mondo iper-connesso, pieno di occhi e telecamere, può sembrare tutto raggiungibile e a portata di mano; sembrerebbe quasi non esserci né un percorso, né qualcosa di nuovo da scoprire. Credo sia opportuno recuperare quella sensibilità, quel coraggio, quella voglia di spingersi oltre.
Io sono sempre stato attratto dal viaggio, non solo dalla meta ma da tutto il percorso necessario e sono stato sempre mosso dalla curiosità e dal fascino del non-certo, dell’incerto. Ho cercato di sviluppare il concept del disco sul non-certo, sul non-sicuro, sull’in-atteso. Da questo punto di vista posso ritenermi fortunato. La vita da musicista ti obbliga a percorsi lunghissimi, introspezione, grandi attese e, soprattutto, speranze. Quando pensi di aver raggiunto una meta, ti rendi conto che ne hai altre nuove e più grandi davanti. Il percorso è continuo, così come gli incontri con persone che non hai mai avuto modo di conoscere, provenienti da altri paesi. Il jazz può considerarsi l’arte dell’incontro, dello scambio. Non accadrebbe nulla senza questa visione delle cose che ti obbliga all’ascolto dell’altro, alla comprensione. Ma c’è anche un altro punto di vista. Per capire l’enorme fatica e dolore che provano i migranti di oggi, dobbiamo immaginare anche cosa si lasciano alle spalle, la rinuncia e il coraggio di affrontare un mondo nuovo che non è lo stesso di un secolo fa ma non per questo più semplice. Tutti quanti dovrebbero entrare in una baggage room, non solo quella di New York, e mettersi semplicemente in ascolto, provando a capire.
Hai voluto narrare – in musica – la storia di Sacco e Vanzetti. Come hai proceduto dal punto di vista compositivo? Quali sono stati gli elementi che ti hanno guidato?
Ho concepito la storia di Sacco e Vanzetti parlando e cercando di far emergere la disperazione e l’ansia di due innocenti, giudicati colpevoli di non essere allineati con il sistema americano, colpevoli di essere italiani, di non essere americani. La storia di Sacco e Vanzetti è la storia di tanti che sono stati giudicati da un sistema giudiziario pigro, razzista e intollerante. La musica è caratterizzata da un incedere ipnotico scritto in 5/4. C’è poi il momento dei soli, caratterizzato da un tempo quaternario che vuole rappresentare l’urlo, la riflessione su una condizione generalizzata e subita dalle sfere più basse e indifese.
Penso che sia d’obbligo che tu ci dica qualcosa sui tuoi compagni di viaggio, anche di come li hai conosciuti.
Ho sempre seguito il lavoro di questi musicisti considerandoli dei riferimenti nella nuova scena jazzistica americana. Di persona avevo conosciuto Philip Dizack durante un suo concerto. Con lui ho avuto modo di confrontarmi musicalmente ed insieme abbiamo trovato gli altri componenti della formazione.
In pratica, Emiliano, questo progetto come è nato?
Dopo la bellissima esperienza avuta in Norvegia durante la registrazione di «First Rain», ho immaginato di coniugare l’idea del viaggio con la creazione musicale. Così ho pensato di passare parte dell’estate a New York insieme alla mia famiglia, di lasciarmi sedurre e stimolare musicalmente e di scrivere della nuova musica. Sono partito dall’Italia con delle idee che ho poi sviluppato a New York.
A parte The Story of Sacco and Vanzetti, ti andrebbe di dirci qualcosa su ogni singolo brano?
Mantenendo l’ordine di ascolto dell’album:
The Baggage Room vuole rappresentare una zona di transizione tra il vecchio ed il nuovo, il passato ed il futuro, il certo e l’inatteso.
1891: Ellis Island: la fine del secolo ha segnato l’inizio di queste grosse migrazioni dall’Europa verso le Americhe ,e il primo approdo e punto di smistamento in America era Ellis Island, la famigerata isola vicino a Liberty Island, dove troneggia la Statua della Libertà.
Temporarily Detained: tutti gli immigrati che arrivavano ad Ellis Island, venivano trattenuti, temporaneamente detenuti, in attesa di essere ammessi o respinti verso il paese di origine. Erano momenti di grossa tensione per gli immigrati che dovevano fare test di idoneità fisica e mentale e dimostrare di avere le doti necessarie per poter svolgere un lavoro.
Searching for the New World: la ricerca di un mondo nuovo, parafrasando le parole di Evan Hunter/Ed McBain/Salvatore Lombino, il mondo dove ci sarebbero state le Strade d’Oro. Teoricamente un mondo colmo di aspettative, speranze, opulenza e democrazia. Un mondo del quale esser fieri di far parte.
The Eye Man: una figura giudicante, il dottore che poneva particolare attenzione agli occhi ed alle infezioni legate all’apparato oculare. Era un periodo in cui in Europa c’erano molti casi di tracoma, un’infezione molto grave che portava alla cecità.
The Long Wait: la grande attesa era circa di 60 giorni che rappresentavano il tempo necessario per accettare o rifiutare i nuovi cittadini in terra americana. In questo periodo lo stato americano offriva ai migranti i pasti che venivano serviti in grandi tavolate apparecchiate di tutto punto con tovaglie, raffinate porcellane e posate. Seppur fossero pieni di ansie e paure, riuscivano a condividere piacevolmente questi momenti di convivialità. Ho voluto scandire questo tempo con una ballad.
Human Connections: inevitabilmente in quei momenti si sviluppava un senso di appartenenza all’indefinito destino di tutti gli immigrati in attesa, si sviluppavano delle connessioni che il più delle volte erano necessarie per riuscire ad affrontare momenti così difficili e carichi di aspettative.
Third Class: il brano parla del viaggio in terza classe nei grandi transatlantici. Spazi che venivano condivisi dalle persone delle fasce economiche più svantaggiate. In questo brano mi sono ispirato alla musica popolare irlandese ed immaginato dei momenti di balli comuni accompagnati dalle note di un pianoforte scordato, qualche violino e fisarmonica. Un’immagine onirica che vuole trasportarci in un momento di disperata allegria.
Emiliano, della tua precedente via musicale, in questo album cosa è rimasto?
Credo siano rimaste quelle peculiarità che rendono la mia musica riconoscibile. L’impronta melodica, l’approccio a situazioni musicali più sospese, irrisolte e dilatate credo siano presenti anche in questo lavoro.
Immagino che non sarà un’impresa semplice coordinare e sincronizzare i musicisti che ti affiancano per un eventuale tour. Hai già in mente un piano alternativo?
I brani di «The Baggage Room» li stiamo portando in giro insieme alla mia formazione italiana: Dario Miranda, Ermanno Baron, Simone Alessandrini e Luca Aquino. Ho avuto anche modo di suonarli in un bellissimo tour fatto a novembre con parte del quintetto americano ma con l’inserimento di Jacopo Ferrazza e Kush Abadey al posto di Rick Rosato e Kweku Sumbry. Devo dire che abbiamo passato insieme dei momenti molto belli, distesi ed intensi, anche la nostra musica ne ha positivamente risentito.
Hai realizzato anche dei video per il lancio di questo disco?
Al Bunker Studio di Brooklyn, Adrien Tillmann si è occupato di realizzare due video live. Uno su The Story of Sacco and Vanzetti e l’altro sulla title-track The Baggage Room. Sono disponibili sul mio sito emilianodauria.com e sul mio canale Youtube.
Come si inserisce nella tua carriera artistica? È un nuovo punto di partenza oppure d’approdo?
Mi piacerebbe considerarlo un punto di transito, un inevitabile momento di ricerca per me di nuove forme di linguaggio.
Ho notato che sei spesso in tour all’estero. È così difficile suonare in Italia per un musicista italiano?
In generale, credo che non sia semplice trovare spazi e muoversi all’interno dei circuiti dei club o dei Festival, sia in Italia che all’estero. La nostra musica sta riscuotendo interesse soprattutto nel Nord Europa e sicuramente questo motivo mi spinge a lavorare forse più sull’estero che in Italia, anche se riusciamo a suonare in prestigiose rassegne e situazioni anche a «casa».
A proposito del pubblico, cosa ne pensi? Trovi molte differenze tra quello italiano e quello di altri Paesi?
Credo che il pubblico italiano sia il miglior pubblico del mondo, sempre coinvolto e caloroso. All’estero c’è un pubblico molto ordinato, educato, attento e competente, in linea con le peculiarità caratteriali dei popoli del Nord Europa.
A tal proposito, qual è il tuo approccio all’esibizione sul palco?
Solitamente cerco una connessione con il pubblico, suonando almeno tre brani prima di presentare la formazione e il progetto. Il concerto porta con sé l’unicità del momento che si vive insieme al pubblico.
Emiliano, quali sono i tuoi punti di forza e quali i punti di debolezza?
Sono convinto di riuscire a creare sempre un buon clima all’interno del gruppo perché apprezzo profondamente la passione che i musicisti riversano nei progetti. Inoltre, amo condividere i miei lavori con le persone con cui collaboro e questo è un notevole punto di forza per me perché le idee e le direzioni di tutti necessariamente convergono verso la musica che diventa condivisa nell’intimità da tutti i musicisti. Non credo di essere un musicista «muscolare». Sto cercando di lavorare molto all’aspetto ritmico della composizione e credo che questo album ne rappresenti il tentativo. Amo fare ricerca armonica e melodica. Mi ritengo comunque un «giovane» musicista, anche se anagraficamente non lo sono. Nel senso che mi sento addosso l’energia e l’entusiasmo di un neo-diplomato con tanti progetti in testa e voglia di sperimentare, rischiare e confrontarmi con realtà diverse e capaci di portarmi fuori dalla mia zona di confort.
Ci sono molte descrizioni dello stato mentale ideale per essere creativi. Qual è il tuo stato d’animo?
Il mio stato mentale nella fase compositiva è sempre caratterizzato da un’inquietudine profonda. Inquietudine necessaria a far emergere le mie vulnerabilità e a stimolare in me una intensa ricerca di equilibrio che non sempre però riesce a portarmi nella direzione a cui ambisco arrivare. Forse è proprio questo sentimento di incertezza e di irrequietezza che va a ispirare la mia parte creativa più intima. Ho sempre l’esigenza di esprimere ed esplorare ambiti nascosti o sconosciuti di me stesso, in qualche modo di mettermi alla prova, di rischiare.
Come vedi il rapporto tra improvvisazione e composizione?
Per me spesso la composizione ha origine dall’improvvisazione ma credo che le due cose siano separate e non legate da un filo esplicitamente conduttore. La composizione è qualcosa di ragionato, di funzionale al discorso musicale, ha in sei un elemento di consapevolezza. L’improvvisazione, in quanto tale, è estemporanea e non ha la necessità di rispondere ad una logica musicale definita. Può uscire fuori dalla necessità di essere rappresentazione di sé stessa e varcare soglie imprevedibili e imperscrutabili.
Pensi che la situazione economica critica determinata dalla pandemia sia stata del tutto superata?
Non credo sia del tutto superata. Sicuramente non vedo un eclatante miglioramento delle condizioni generali. In realtà però, sarà forse per un mio approccio a volte forse troppo ottimista, vedo un grande fermento tra gli organizzatori, le associazioni, l’accessibilità a fondi e bandi. Forse solo perché ho sempre bisogno di vedere il bicchiere mezzo pieno.
Sei il direttore artistico del Cotton Club di Ascoli Piceno. Quali sono i tuoi obiettivi e come effettui le scelte artistiche?
Il mio obiettivo è diffondere il più possibile la musica jazz e per questo cerco di pensare ad una programmazione che possa fungere per molti da stimolo ad avvicinarsi a questa incredibile musica e per altri fonte di approfondimento e curiosità verso le infinite e diverse dimensioni del jazz.
Cosa hai scritto nella tua agenda?
Durante il tour novembrino abbiamo registrato a Monaco con Kush Abadey, Jacopo Ferrazza, Dayna Stephens e Philip Dizack il nuovo disco «Meanwhile» che verrà mixato e masterizzato a New York da Dave Darlington, già sound engineer di «The Baggage Room». Dovrebbe uscire a novembre 2025 e stiamo lavorando a un tour di presentazione in Italia e all’estero. Ho iniziato a concepire il mio piano solo con elettronica, che spero a breve di poter pubblicare, e ho in cantiere una produzione con un sassofonista norvegese di cui non posso ancora svelare il nome insieme a un trombettista italiano, mia conoscenza di lunga data… Credo sia piuttosto facile immaginare di chi si tratti.