J.J. Johnson registrò il suo primo assolo il 25 ottobre 1943, negli studi della Capitol. Faceva parte della sezione dei tromboni dell’orchestra di Benny Carter, che gli lasciò, per quella breve ma concentrata improvvisazione, le otto battute del bridge nel brano Love for Sale. Un paio d’anni più tardi, esattamente il 4 febbraio 1946, incise Rambo, il suo primo lavoro come compositore e arrangiatore, per la Columbia. Se Count Basie, nella cui big band questa volta militava, gli aveva concesso tale prestazione, era ovvio che il giovane musicista stesse mostrando doti non comuni. Basie non si sbagliava: J.J. Johnson si sarebbe imposto, nel prosieguo della carriera, come uno dei più grandi solisti e uno dei più raffinati arrangiatori di tutto il jazz.
Proprio in quel 1946 era scomparso, a soli 29 anni, il trombonista Fred Beckett. Oggi sarebbe dimenticato, se non fosse per J.J. Johnson, che in quasi tutte le interviste lo ha altamente elogiato. Johnson, che da solo rivoluzionò il modo di suonare il trombone adeguandolo alla sintassi moderna del bop e non avendo alcun trombonista a cui collegarsi stilisticamente in modo diretto, ha sempre indicato Beckett come il solista che più lo aveva impressionato. Non gli era mai capitato di ascoltarlo dal vivo, ma soltanto in certi dischi della territory band di Harlan Leonard (1905-1983). In brani del 1940 come My Gal Sal e À la Bridges, a nome Harlan Leonard & His Rockets, Beckett aveva adottato (attraverso la mediazione dello stile di Dickie Wells) un fraseggio fluido, chiaro e lineare, lontano dagli orpelli retorici cari ai trombonisti della tradizione. Fu proprio quel poco di tailgate e gutbucket rimasto nel trombone jazz a essere giocoforza sacrificato affinché il linguaggio dello strumento si adeguasse al nuovo verbo imposto da Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Per fare questo, Johnson si dovette direttamente ispirare a loro, i boppers più autorevoli. Non è un caso che quando si era avvicinato al jazz (un po’ tardi, verso i 14 anni), i suoi idoli fossero Lester Young e Roy Eldridge, un sassofonista e un trombettista (che influenzarono rispettivamente proprio Parker e Gillespie). Anche in seguito, Johnson non trasse ispirazione da alcun trombonista bensì da trombettisti come Fats Navarro e Miles Davis; e, per quanto riguarda il sassofono, da Sonny Rollins.
James Louis Johnson era nato a Indianapolis il 22 gennaio 1924. Tra i sei e gli otto anni iniziò a studiare il piano con un organista di chiesa e passò al trombone convinto dagli amici, perché nella band in cui ambiva entrare mancava proprio chi suonasse quello strumento. Studiò seriamente, come gli comandava il suo carattere già metodico e coscienzioso, tanto che acquisì presto una discreta tecnica. E altrettanto presto decise di passare al professionismo, nonostante la famiglia fosse contraria. Nell’autunno del 1941 aveva già cominciato a suonare con l’orchestra di Clarence Love e, dalla fine dello stesso anno al 1942, con quella di Isaac «Snookum» Russell, dove conobbe il trombettista Fats Navarro. Ma la tournée con Russell, un mezzo fallimento, lo disarmò. Ritornò così a Indianapolis, dove trovò lavoro come lavapiatti. Una numerosa serie di ritiri più o meno lunghi e diversamente motivati contraddistinse tutta la sua carriera: questo fu il primo e durò lo spazio di una stagione. Durante una jam session, però, venne ascoltato dal cantante Earl Coleman, che ne rimase favorevolmente colpito, tanto da segnalarlo a Benny Carter, che era di passaggio in città. Johnson passò l’audizione e venne scritturato. Rimase con Carter sino al 1945, girando la nazione in tournée, registrando trasmissioni radio e dischi (anche il suo primo assolo, come si è ricordato), cominciando a cimentarsi con la composizione e l’arrangiamento. Per il trombonista fu un’esperienza fondamentale: come usa ricordare lui stesso, «ogni minuto nell’orchestra era come una vera e propria lezione di jazz». Prima di buttarsi a capofitto nei locali notturni di New York, in mezzo ai boppers, terminò il prezioso apprendistato orchestrale nella big band di Count Basie, in cui rimase sino all’estate del 1946. Lo si può ascoltare, oltre che in Rambo (che arrangiò rifacendosi al modo in cui Carter muoveva la sezione dei sassofoni e dando particolare rilievo a quella dei tromboni), in Stay Cool, anch’esso del 4 febbraio 1946: qui si può ascoltare come già usasse, ancora un po’ meccanicamente, alcune formule tratte dalla sintassi del bop.
Questo apprendistato non fu per Johnson prezioso solo per il contatto con maestri del calibro di Carter e Basie (e Dickie Wells, membro dell’orchestra di Basie), ma anche perché tra i giovani di quelle orchestre (Fats Navarro, Freddie Webster, Max Roach, Art Pepper, Illinois Jacquet) si creò un clima di fervore, di entusiasmo e di fecondo interscambio di idee musicali in conseguenza dell’aria nuova portata dai lavori di Parker e Gillespie. Così J.J. , con un’incondizionata adesione al loro mondo, si mescolò ai boppers in concerti, jam session notturne, incisioni, suonando con tutti i più importanti fra loro e diventando amico, in special modo, di Miles Davis, oltre che di Max Roach e Fats Navarro. Johnson era più che ben accetto, nella Cinquantaduesima Strada, perché non c’era ancora nessun trombonista che suonasse bebop. La sua fu una autentica «rifondazione», come la definì poi il critico e produttore George Avakian. Ponendo tecnicamente il trombone sullo stesso piano di trombe e sassofoni, Johnson ne ristrutturò il vocabolario armonico e melodico, adeguandolo alle esigenze del jazz moderno; poi lo liberò dalla tirannia di una forzata espressività, che ancora era rimasta come retaggio delle brass band di New Orleans. Utilizzò dunque con estrema parsimonia growl, smears e slide, abolì i trilli, diminuì i glissando, prestò particolare attenzione al suono dello strumento che assunse un timbro pulito e nitido, con il vibrato ridotto ai minimi termini. L’uso sicuro e preciso dello «staccato» anche nei tempi più veloci fece addirittura credere a diversi recensori di dischi del periodo che il trombone di Johnson fosse a pistoni, non a coulisse.
Forte di questo nuovo bagaglio espressivo, che era comunque in continua via di perfezionamento, Johnson cominciò a suonare in diverse piccole formazioni. Già nel 1944, ancora membro dell’orchestra di Benny Carter, era stato scelto dall’impresario Norman Granz per partecipare, il 2 luglio 1944, assieme alle «stelle» Illinois Jacquet e Nat King Cole, al primo dei concerti della serie «Jazz At The Philharmonic». Johnson appariva ancora legato a uno stile pre-bop, dalle frasi semplici e ritmicamente incalzanti, sul modello di quello di Lester Young (lo si ascolti in Blues, Lester Leaps In, Body and Soul). Lasciato Basie, entrò nel quintetto di Bud Powell per una scrittura allo Spotlite. Il 26 giugno 1946 registrò per la prima volta come leader, anche se il gruppo era in effetti quello di Powell (con Cecil Payne, Leonard Gaskin e Max Roach), realizzando quattro brani per la Savoy (Jay Bird, Coppin’ the Bop, Jay Jay e Mad Be-Bop). In un’ esemplare atmosfera bop, il trombonista dimostra di avere acquisito, rispetto alla jam con il JATP, fluidità e sicurezza, anche se è ancora lontano dalla completa messa a punto del suo stile. Registrò poi nel dicembre con Coleman Hawkins, Fats Navarro e Hank Jones (I Mean You, Bean and the Boys) e, nel 1946, vinse anche per la prima volta (una serie che diverrà poi interminabile) un referendum indetto da una rivista specializzata, in questo caso Esquire, come miglior trombonista dell’anno. I vincitori di ogni singolo strumento venivano annualmente riuniti dal periodico in sala di incisione: il 4 dicembre J .J. Johnson fu quindi assieme a Charlie Shavers, Coleman Hawkins e Teddy Wilson, tra gli altri, per registrare Indiana Winter, sulle armonie di How High the Moon. A rappresentare il bop c’era solo Johnson, che eseguì un assolo impeccabile (anche se accademicamente infarcito di quinte diminuite), dove ben si sentivano i progressi per quanto riguardava la sua ricerca di un timbro nitido e rotondo.
Il 1947 si rivelò per Johnson molto impegnativo. Ebbe una scrittura che durò sino al 1949 con Illinois Jacquet: per la Aladdin registrò diversi brani, ma gli fu lasciato poco spazio ( si distingue in For Truly del 7 settembre 1947). I due erano comunque ormai agli antipodi per quello che riguardava la concezione della musica. Fu poi ancora con Coleman Hawkins, che si era dimostrato subito solidale con i «nuovi suoni», e Fats Navarro: vanno ricordati i suoi assolo in Half Step Down, Please e Jumpin’ Jane dell’11 dicembre. Il 17 dicembre entrò negli studi della Dial per registrare con il sestetto di Charlie Parker sei brani diventati dei classici del bop e annoverati fra i capolavori del jazz. Con lui c’erano anche Miles Davis, Duke Jordan, Tommy Potter e Max Roach. Johnson, come del resto Davis, nei cinque brani originali composti da Parker (Drifting on a Reed, Quasimodo, Charlie’s Wig, Bongo Beep e Crazeology) usò sempre la sordina, mentre nella ballad How Deep Is the Ocean suonò con la campana aperta. Nel fraseggio del trombonista si comincia a sentire l’influenza di Davis, del quale riprende certe divisioni ritmiche e qualche cliché melodico. Una settimana più tardi Johnson guida ancora un proprio quintetto per la Savoy con Leo Parker, Hank Jones, Al Lucas e Shadow Wilson. Il clima è già meno incandescente, e Johnson si fa sempre più calibrato. Down Vernon’s Alley, Riffette e soprattutto Bone-ology (tutte scritte da lui), oltre a Yesterdays, sono tra le sue cose migliori del periodo.
Nel 1948 continuò a suonare con Jacquet e al contempo accettò qualche altra scrittura, come quella al Royal Roost con Bud Powell ( ci è rimasta una splendida incisione dal vivo di Indiana, in quartetto, del 13 dicembre). La ricerca di un suono meno aggressivo, da una parte, e le sperimentazioni soprattutto sulle divisioni e gli spostamenti ritmici delle frasi (come sottolinea il lungo assolo in Indiana), dall’altra, testimoniano che l’etichetta di semplice bopper stava diventando limitativa per la sua sensibilità di artista. Del resto ancora altri nuovi suoni, quelli del cool, erano ormai nell’aria. In effetti Johnson cominciò il 1949 all’insegna del passato prossimo. Avendo vinto un altro referendum, questa volta indetto dalla rivista Metronome, si ritrovò di nuovo in sala di registrazione, il 3 gennaio, con una «all stars» (Dizzy Gillespie, Fats Navarro, Miles Davis, Kai Winding, Buddy De Franco, Charlie Parker, Charlie Ventura, Ernie Caceres, Lennie Tristano, Billy Bauer, Eddie Safranski, Shelly Manne) sotto la direzione di Pete Rugolo per incidere due brani, Victory Ball e Overtime. Proprio in questa occasione incontrò il collega di strumento Winding, con il quale da lì a pochi anni avrebbe formato uno dei quintetti più celebri del jazz. Il 20 gennaio incise con il cantante scat Babs Gonzales (Capitolizing è degno di nota, anche perché il suo stile viene messo a confronto con quello dell’altro trombonista Benny Green). Il 21 aprile fu con Tadd Dameron e incontrò ancora Miles Davis e Fats Navarro (Focus); il giorno dopo venne chiamato a partecipare alla seconda seduta delle tre che sarebbero andate a comporre lo storico album «Birth of the Cool» per la Capitol. Avrebbe partecipato poi anche alla terza, quella del 9 marzo 1950 (prese un breve assolo in Deception). La grande influenza esercitata dal disco sulla musica afro-americana sta soprattutto nell’aver imposto un nuovo metodo di approccio, sulla falsariga di quanto aveva insegnato Lester Young. Il jazz, con Parker, aveva scelto la categoria estetica del barocco; con Davis e Gil Evans si rivolgeva adesso al classico. Era lo stesso cammino che avrebbe compiuto Johnson, che sentiva come una calamita l’attrazione verso lo stile del suo primo ispiratore, Lester Young.
L’11 maggio 1949 Johnson guidò per la Savoy un proprio gruppo con Sonny Rollins, John Lewis, Gene Ramey e Shadow Wilson (Audubon e Goof Square sono le prime composizioni di Rollins mai registrate; ci sono poi Don’t Blame Me, tutta per il trombonista, e Bee Jay). Quindici giorni dopo Johnson capeggiò un sestetto con Kenny Dorham, Sonny Rollins, John Lewis, Leonard Gaskin e Max Roach, registrando per la Prestige Elysee, Hilo, Fox Hunt (con un assolo magistrale) e Opus V. Il 17 ottobre si mise alla testa di un quintetto con Sonny Stitt al tenore (l’accostamento fra i due fiati creava un fascinoso dark sound), John Lewis, Nelson Boyd e Max Roach, con cui registrò per la New Jazz Teapot, Afternoon in Paris, Elora e soprattutto Blue Mode, un brano lento, denso, melanconico, con un accompagnamento inusitatamente spigoloso di Lewis al piano: un gioiello. Con Blue Mode, impostato in modo così diverso dalla consueta produzione boppistica, Johnson sembra volere chiudere la seconda fase della sua carriera focalizzata soprattutto, mediante il recupero scrupoloso degli stilemi del bop, sulla ricerca e lo sviluppo di una nuova tecnica che aveva fatto giungere a un alto livello virtuosistico; nello stesso tempo ne apriva una terza, quella della piena maturità. A questo passaggio corrispondeva un altro ritiro del trombonista dalle scene; non fu totale, ma gli servì per recuperare il controllo di sé stesso dopo il periodo trascorso nell’inquieto ambiente dei boppers.
Per oltre quattro anni Johnson non registro più niente a suo nome. Tra il 1949 e il 1950 lavorò con l’orchestra di Woody Herman, e nel marzo 1950 con la big band di Chubby Jackson, dove tornò a incontrare Winding (su Flying the Coop i due si confrontano). Nello stesso anno fu anche con la big band di Gillespie, e in quello seguente, sempre con il trombettista ma in sestetto, incise The Champ, dove prese un assolo particolarmente ispirato. In quel 1951, per conto dell’United Service Organization e in sostegno delle truppe americane andò in tournée in Corea (nel pieno della guerra sul 38° parallelo), Giappone e Asia meridionale, con un sestetto guidato da Oscar Pettiford e comprendente Howard McGhee: ne scaturì un album dal vivo per la Regent/Savoy, «Jazz South Pacific», in cui si rivisitava la storia del jazz, da Royal Garden Blues al bop. Tornato dall’Asia, registrò il 9 maggio 1952 sei brani per la Blue Note con Miles Davis, mettendosi in evidenza su Dear Old Stockholm, Chance It (ovvero Max Is Making Wax di Oscar Pettiford) e Would’n You. (più nota come Woody ‘n’ You). Subito dopo fu chiamato dal disc-jockey Symphony Sid a far parte di una «all stars» denominata «Jazz Inc.» con Miles Davis, Milt Jackson, Zoot Sims, Percy Heath e Kenny Clarke, che avrebbe dovuto percorrere in lungo e in largo gli Stati Uniti ma ebbe scarso successo e vita breve. Questo relativo fallimento, le scarse offerte di lavoro, una situazione economica ben poco florida fecero sì che Johnson si ritirasse completamente dalla professione di musicista e trovasse impiego come ispettore di cianografiche alla Sperry Gyroscope Company.
Per riascoltarlo si dovette aspettare un anno, quando – pur continuando a lavorare per la Sperry – Johnson riprese l’attività in sala di incisione con la Blue Note di Alfred Lion, cominciando il periodo della sua piena maturità di solista. Allo stesso tempo la sua influenza cominciò a farsi sentire nei trombonisti delle nuove generazioni: primo fra tutti Jimmy Cleveland, poi Frank Rosolino e Carl Fontana. Nello stile di Johnson andava concretizzandosi con il passare degli anni un senso di compostezza, di equilibrio, di rifiuto dell’eccesso, alla ricerca di strutture organiche e unitarie, prive di orpelli decorativi. Il 20 aprile 1953 incise con il sestetto di Miles Davis, comprendente fra gli altri Jimmy Heath, Tempus Fugit, C.T.A. e le sue due composizioni Kelo ed Enigma. In giugno fu con Clifford Brown, in un gruppo dove figurava ancora Jimmy Heath, e registrò il proprio Turnpike (che molto risente dell’influenza delle atmosfere di «Birth of the Cool», in special modo degli arrangiamenti di Johnny Carisi), Get Happy, Sketch, Capri e le toccanti interpretazioni di due ballads, Lover Man e It Could Happen to You, che confermano l’equilibrio perfetto raggiunto fra lo sviluppo tematico e i suoi personali moduli sintattici. Da segnalare come, in Turnpike, Johnson inizi a mettere in pratica le armonie quartali che gli erano state ispirate da Hindemith e che sarebbero poi diventate una tipicità del suo stile compositivo: per esempio, nel brano Mohawk su «J.J. Inc.».
Tre mesi dopo, J.J. partecipò a un interessante esperimento nel Jazz Workshop di Charles Mingus, che sulla base di una sezione ritmica di ferro (John Lewis, Art Taylor e lui stesso al contrabbasso), aveva riunito un’insolita front line di quattro trombonisti (Winding, Green, Willie Dennis, e appunto Johnson). Essi si confrontarono in lunghe e trascinanti improvvisazioni su temi come Wee Dot, Now’s The Time, Ow, I’ll Remember April, Move. Questo fu lo spunto da cui partì l’anno seguente l’idea di costituire un quintetto con un secondo trombone che andasse ad affiancare Johnson. Nel febbraio e marzo del 1954 Johnson fu presente ad alcune sedute d’incisione con gruppi guidati dal pianista francese Henri Renaud, con Al Cohn al sax tenore , mentre il 29 aprile partecipò a una celebre seduta guidata per la Prestige da Miles Davis, ancora con Lucky Thompson: ne uscirono due brani, Walkin’ e Blue ‘n’ Boogie, che sarebbero rimaste fra le opere migliori di Davis, indicative di una nuova concezione del jazz, più libera e legata alla semplicità e al groove del blues e del funky.
Nell’agosto del 1954 formò il citato quintetto con Kai Winding, una formazione senza precedenti con la front line composta da due tromboni e da considerarsi, con il Modern Jazz Quartet e il quartetto di Gerry Mulligan con Chet Baker, fra le più eleganti, pregiate, swinganti e, insieme, popolari di quel periodo. In merito alla costituzione del quintetto, i ricordi di Johnson sono contraddittori, dato che nelle varie interviste diede differenti versioni dei fatti, addirittura a volte palesemente inesatte, come la dichiarazione di non aver mai incontrato prima Winding. Se si prendono in esame tre interviste di Johnson si rimane con le idee confuse: nella prima J.J. dice che l’idea venne all’impresario di Kai, quando Kai era a Filadelfia a suonare con un gruppo locale (Metronome dell’aprile 1955, pag 24: Bill Coss, «J.J. Johnson And Kai Winding»); nella seconda che l’idea fu invece di Ozzie Cadena (direttore artistico della Savoy) che si rivolse, oltre che a lui, a Benny Green, il quale declinò l’invito per gli impegni con il proprio gruppo (note di copertina di Leonard Feather per il disco Savoy SJL-2232); nella terza che, dopo il diniego di Green, fu Teddy Reig (proprietario della Savoy) a suggerire di rivolgersi a Winding (The Trombonist, organo della British Trombone Society, estate 1994, pag. 18).
Ma c’’è una quarta intervista che ci può fare avvicinare alla verità, quella rilasciata a Cadence dal trombonista Eddie Bert che, attribuendo l’idea senz’altro a Cadena, rivela che dopo Green, ma prima di Winding, si rivolsero a lui, costretto però a declinare a malincuore l’invito per il mancato nulla osta della Discovery, la casa discografica con cui era sotto contratto (Cadence del febbraio 1992, intervista di Paul B. Matthews, pag. 5). Ironia della sorte, la Discovery sarebbe fallita dopo pochi mesi per essere acquistata nel 1956 proprio dalla Savoy (e Bert si arrabbiò non poco presumendo che al momento della richiesta la Discovery sapesse già della prossima propria dichiarazione di fallimento). Riassumendo: con ogni probabilità l’idea di formare un quintetto con la front line di due tromboni sorse in casa Savoy (precisamente grazie a Ozzie Cadena, sostenuto da Teddy Reig) ispirandosi al workshop con quattro trombonisti diretto da Mingus, e dapprincipio scegliendo Johnson e Green; quest’ultimo non poté accettare, così ci si rivolse a Bert, pure costretto a desistere, e si finì per chiedere disponibilità a Winding, subito entusiasta dell’idea. Alla Savoy avevano dato molto credito, artisticamente e commercialmente, al progetto, tanto da spingere Johnson a licenziarsi dalla Sperry Gyroscope Company e a dedicarsi a tempo pieno alla nuova musica. Sorse così il Jay & Kai Group, chiamato poi anche Kai and Jay, o J.J. & K., o, più usualmente J. & K., col nome Kai pronunciato all’americana, non alla danese. In passato c’erano già stati alcuni curiosi episodi in cui, per via di quel nome inconsueto, si era equivocato sull’identità sessuale di Winding, per esempio quando su una locandina era stato scritto «Kai Winding and her orchestra», o quando era stata annunciata l’orchestra di Charlie Ventura, in cui militava: «con Jackie Cain al trombone e la deliziosa Mrs. Kay Winding al canto». Il quintetto fu attivo dall’agosto 1954 all’agosto 1956, con sporadiche reunions (alcune artisticamente proficue) nei decenni seguenti. Ai suoni pacati, all’andamento elegante e agli arrangiamenti accurati tipici del movimento cool in auge in quegli anni, il gruppo dei due trombonisti aggiunse una robustezza e una forza derivate, oltre che dalle caratteristiche espressive proprie dello strumento, dall’indole esuberante di Winding e da quella forte e rocciosa, pur ossimoricamente al contempo flessuosa, di Johnson, combinate con un intendimento stilistico di stampo bop, così da mediare in una Klassische Dämpfung la calma e la freschezza del cool con l’esuberanza e l’irruenza dell’hard bop che in quegli anni si stava affermando.
Johnson e Winding fecero rodaggio mettendo a punto il loro repertorio a Filadelfia: vi suonarono verso la metà dell’agosto 1954 in uno dei più noti locali cittadini dell’epoca, nel quale solevano esibirsi i più importanti musicisti bop: il Blue Note Club. E furono pronti, il 24 e il 26 di quel mese, per entrare negli studi newyorkesi della Savoy. Furono registrati otto titoli: di questi, What Is This Thing Called Love?, The Major, Blues for Trombones e Lament (una composizione di J.J. Johnson che sarebbe diventata un classico del repertorio jazz) furono incisi con una sezione ritmica elastica, compatta e leggera, formata da Billy Bauer alla chitarra (che conferì una sonorità speciale all’insieme), Charles Mingus al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria; mentre Reflections (modernissima, inquieta e pensosa composizione di Mingus), Bernie’s Tune, Co-op e Blues in Twos (gli ultimi due di Kai) ebbero al posto di Bauer l’interessante pianista Wally Cirillo. I brani, dapprima usciti su due 10 pollici della Savoy e poi riuniti nell’album «Jay and Kay», già presentavano uno stile ben determinato, pienamente formato nelle sue peculiarità principali, da cui i due trombonisti poco si sarebbero discostati in seguito, se non per preziosismi sintattici e affinamenti nell’organizzazione dell’insieme.
Si dovette aspettare un paio di mesi prima che Jay & Kai, il 17 ottobre 1954, si ritrovassero per esibirsi al Birdland e far così diventare effettivamente «stabile» il gruppo. La formazione era del tutto cambiata con l’inserimento di una inedita sezione ritmica che univa forza e linearità a raffinatezza e senso dello swing: Peck Morrison al contrabbasso, Al Harewood alla batteria e Dick Katz al pianoforte, quest’ultimo che mescolava la fantasia melodica di Teddy Wilson e la raffinatezza armonica di John Lewis, entrambi suoi maestri, a uno spiccato senso del ritmo e a una scansione boppistica, il solo a rimanere sino allo scioglimento del 1956. Il concerto fu registrato e pubblicato dalla «X» (una sottomarca della RCA) con il titolo «An Afternoon at Birdland». I temi di Johnson erano Bone Of Contention e Vista, di Winding Funny Bone, Cornerstone e Birdland Festival: i due avrebbero sempre diviso equamente, oltre che gli assolo, le composizioni e gli arrangiamenti (anche di brani altrui, per lo più celebri ballads e popolari canzoni, in questa occasione Lullaby of Birdland di George Shearing, che in quella prima metà degli anni Cinquanta veniva messa in repertorio da decine di musicisti). Il repertorio del gruppo era ancora esiguo, e questa fu la ragione per cui in quel concerto i brani furono tenuti molto lunghi rispetto allo standard di ogni altra loro registrazione passata e futura sorpassando, in ben quattro dei sei complessivamente eseguiti, i sei minuti e mezzo (arrivando agli 8 minuti e 54 secondi di Cornerstone), tanto che in alcuni momenti il concerto non appare sostanzialmente differente da una tipica jam session.
Già in queste due prime prove comuni Johnson e Winding integravano i propri suoni con estrema accuratezza, facendo risultare una sonorità scura, ovattata, ricca di risonanze. I loro assolo sono simili formalmente (anche se non concettualmente), conferendo unità di stile a ogni brano. A un ascolto non superficiale risultano comunque evidenti le differenze: J.J., che nel frattempo era rimasto affascinato dalla poetica di Miles Davis, di cui era amico e per il quale nutriva grande ammirazione, aveva portato l’eloquio al massimo della economia espressiva, con frasi perentoriamente stagliate, note che parevano scolpite nel marmo, uso efficace della sincope e della pausa, andando al sodo senza preamboli, con calma olimpica; invece Kai, ancora condizionato dallo stile ricco di abbellimenti del periodo pre-bop (i suoi modelli iniziali erano stati Jack Teagarden e Trummy Young), non si affrancò mai del tutto da alcuni vezzi tipici del jazz tradizionale e classico, fra cui certe infiorettature tipiche dello stile tailgate, come l’ampio vibrato e il glissando nelle sue varie specificità. Le differenze sono ben individuabili soprattutto quando fanno uso della chase, espediente sintattico-formale da loro spesso usato per conferire più drammaticità all’esposizione del chorus, mettendo di continuo a confronto ravvicinato i due stili (It’s All Right With Me, Side by Side, This Could Be Start of Something): Kai ha un suono più «sporco», una costruzione dell’assolo meno compatta, più «teatrale» e dall’andamento apparentemente più sconnesso, con picchi improvvisi delle dinamiche e pure affondi nei registri più gravi sconosciuti a J.J., che al contrario è più asciutto e sobrio, dalla sonorità più levigata e penetrante, dagli attacchi più precisi, con un fraseggio più netto, solenne e spostato ritmicamente. In entrambi i casi, comunque, quanto di meglio abbia mai potuto offrire il trombone fino ad allora.
In quei due anni J. & K. suonarono copiosamente in concerto e in sala di registrazione, sempre mantenendo un alto livello qualitativo, perfezionando continuamente la loro musica senza mutare le caratteristiche fondamentali iniziali, però non ottenendo quell’immediato grande successo su cui puntava Ozzie Cadena già dalle prime registrazioni Savoy. Così per il loro terzo album (il secondo in studio) cambiarono ancora casa discografica: dopo la Savoy e la Rca passarono alla Prestige con «Jay And Kai Quintet (Jay Jay Johnson & Kai Winding)», registrato il 3 dicembre 1954: la formazione rimase immutata, i brani comprendevano il tecnicamente stupefacente Hip Bones e Riviera (di J.J.), Dinner for One Please James, Don’t Argue, Bags’ Groove, Wind Bag (di Kai) e la ballad We’ll Be Together Again.
Il successo arrivò solo con il passaggio, al quarto album, alla quarta casa discografica, la Bethlehem, giovane e aggressiva compagnia fondata appena due anni prima, per la quale il 26 e 27 gennaio 1955 fu inciso «K + J.J.», in seguito intitolato «’Nuff Said»: al contrabbasso Wendell Marshall (nella prima seduta) o Milt Hinton (nella seconda) sostituirono Morrison e di tutti i brani, comprendenti Lope City e Stolen Bass (di J.J.), Gong Rock e That’s How I Feel About You (di Kai), poi le ballad Out of This World, Thou Swell, Lover, Mad About the Boy e Yes Sir, That’s My Baby, quello che effettivamente «sfondò» fu It’s All Right With Me (di Cole Porter), arrangiato con leggiadra maestria da Kai e la cui interessante ed emblematica parte di pianoforte non si limita al consueto accompagnamento di sostegno ma usa gli accordi in un continuo contrappunto ritmico. I due leader si alternano in una sequela entusiasmante di spezzoni di diverse lunghezze, a campana aperta o con differenti tipi di sordine. Il pezzo arrivò nei jukebox, addirittura spopolando, e il suo grande successo convinse definitivamente i due (che avevano entrambi, più Winding di Johnson, un occhio ben aperto sul lato economico del fare musicale) ad abbandonare ogni altro progetto per dedicarsi a tempo pieno al gruppo. Particolarmente interessante è l’intensa, scura e malinconica Mad About the Boy, che comincia con una linea cromatica ascendente in settima minore suonata contemporaneamente dai due tromboni che si sovrappongono sul pedale del contrabbasso (con archetto) di Hinton, culminando in un passaggio a toni interi del pianoforte che introduce la prima parte del brano centrato sul Fa minore.
Tutte le composizioni sono estremamente raffinate e studiate nei minimi particolari, soprattutto quelle di Johnson, meticoloso anche nello scrivere le parti della sezione ritmica. E poiché rispecchiano lo stile solistico dei due leader hanno caratteristiche differenti, pur se omogenee: i temi di Johnson sono pieni di sospensioni e riprese, stop e silenzi, frasi accentate e spostate, spesso preceduti da intense e quadrate introduzioni, dove risultano evidenti i suoi interessi per la musica classica del primo Novecento; Winding invece sembra più rifarsi all’andamento leggiadro del musical e del jazz per big band dell’era Swing, quindi a una cantabilità più accattivante. Su tutto si avverte l’ombra lunga di Gerry Mulligan, che in quel periodo aveva il favore del pubblico grazie al suo jazz altrettanto elegante e sofisticato. Ma se Mulligan rimaneva più sul gioco contrappuntistico e comunque di pronta e spontanea risposta fra il suo sax baritono e la tromba di Chet Baker, Johnson e Winding scrivevano e suonavano con estrema precisione le complicate parti affidate ai loro singoli strumenti come fossero sezioni di una moderna big band (Yes Sir, That’s My Baby, Side by Side e soprattutto It’s Sand, Man, emblematico come esempio di simulazione di big band, nello stile di Count Basie, con i chorus urlati con sordine plunger), nulla lasciando al caso, nemmeno gli assolo, concepiti come parti integranti della composizione (fondamentale era stata l’esperienza orchestrale di ciascuno: J.J. con Benny Carter, Count Basie e Dizzy Gillespie; Kai con Benny Goodman, Stan Kenton e Woody Herman). In ciò la concezione musicale del quintetto si contrapponeva a quella del bop, che invece aveva esaltato il momento prettamente solistico dell’esecuzione: gli arrangiamenti tendevano a mettere in atto la potenzialità che dava una sezione di due tromboni nei cambi di colore e di gamma di suono, esaltavano la purezza delle voci e al contempo evitavano, con la ricchezza delle soluzioni formali, il pericolo della monotonia timbrica, giocando su sapienti armonizzazioni, doppie voci avviluppate, unisoni perentoriamente scanditi, fugaci intrecci, inseguimenti strumentali, virtuosistico uso incrociato di diverse specie di sordine, dividendosi anche il compito di trombone guida e riservandosi all’occasione una esclusiva improvvisazione in certi brani particolarmente congeniali all’uno o all’altro (Capri o Afternoon in Paris per Johnson; Honey, Always o The Boy Next Door per Winding).
(continua sul prossimo numero)