Quando e come hai conosciuto Charlie Haden?
Prima di parlare di Charlie vorrei ricordarvi chi ero io in quel momento. Avevo iniziato la carriera professionale come bandleader e compositore nel 1984 con il Grupo Proyecto, ma mi ero già fatto le ossa con le formazioni di mio padre e con orchestre famose di Cuba come la Orquesta Aragón e l’Orquesta de Musica Moderna, con cantanti come Beatriz Márquez; infine avevo inciso per l’etichetta Egrem con artisti come Marta Valdés, Elena Burke e via dicendo.
Charlie Haden giunse all’Avana nel 1986 con la Liberation Music Orchestra, nella quale c’erano musicisti di altissimo livello come – se ben ricordo – Joe Lovano, Kenny Garrett e Geri Allen. Si esibirono nel patio della Casa della Cultura del quartiere di Plaza, là dove negli anni Settanta nacque il primo festival del jazz dell’Avana (in seguito il festival si trasferì altrove, quando assunse una dimensione internazionale). Nella stessa serata suonai io con il Grupo Proyecto: dopo il nostro set Haden venne a complimentarsi con me e, superando le rigidità che esistevano a Cuba in quel periodo, fece sì che il giorno seguente potessimo suonare e registrare assieme presso gli studi della Egrem in calle San Miguel. Registrammo per circa tre ore, e Charlie portò tutto quanto negli Stati Uniti per farlo ascoltare a Bruce Lundvall. Come sai, Lundvall era uno dei pezzi grossi del mondo discografico: era stato dirigente della Columbia e in quel momento si trovava a capo della Blue Note. L’idea di Charlie era di convincerlo a farci fare un disco assieme.
Lundvall, il motore di quell’evento storico che portò per la prima volta, dopo la Rivoluzione, una delegazione di jazzisti statunitensi a Cuba.
Esatto. Aggiungerei che a quel meeting parteciparono anche artisti non nordamericani ma comunque residenti negli Stati Uniti: si tenne nel marzo del 1979 e fu Lundvall il vero motore e organizzatore di Havana Jam, tre giorni di spettacolo con vari tipi di musica dei due Paesi. A rappresentare Cuba c’erano gli Irakere, l’Orquesta Aragón, Tata Güines, Los Papines e altri ancora; tra gli stranieri ricordo i Weather Report, i Fania All Stars, Kris Kristofferson, Dexter Gordon, Billy Joel, un trio formato da Tony Williams. John McLaughlin e Jaco Pastorius, insomma tantissimi artisti. Avevo sedici anni e mio padre riuscì a farmi avere un biglietto per una di quelle serate: ero nell’ultima fila del teatro Karl Marx, stracolmo, tremila persone, e il momento magico di vedere musicisti nordamericani a Cuba non lo dimenticherò mai. Questo si deve in gran parte proprio a Bruce Lundvall, scomparso pochi anni fa.
Tranne l’episodio di Havana Jam, non esistevano (almeno alla luce del sole) rapporti tra Cuba e Usa: come riuscì Lundvall ad aggirare l’embargo e farti suonare insieme a Haden?
Era il 1989, credo. Bruce e Michael Cuscuna scesero all’Avana con due avvocati per firmare un contratto tra la Blue Note e i discografici cubani ma non fu possibile a causa del bloqueo. Allora gli avvocati trovarono una soluzione coinvolgendo la Toshiba-Emi (partner giapponese della Blue Note) e, aggirando l’ostacolo, riuscirono a farci registrare e pubblicare un disco sul mercato statunitense. Così nel 1990, grazie anche all’aiuto di Claude Nobs, partecipai al festival di Montreux in trio con Haden e Paul Motian, e ad ascoltarci vennero anche i discografici giapponesi: dopo il concerto firmammo il contratto che cambiò la mia vita professionale. Uscì quindi il cd «Discovery – Live in Montreux» e, a partire da quel momento, ebbi con Charlie un rapporto sempre più stretto, non solo in campo artistico ma anche personale.
« A Cuba non si potevano riprodurre le musiche del nemico americano ma c’era sempre il modo di farlo di nascosto»
Prima che sbarcassero nella capitale cubana i musicisti di Havana Jam, tra cui Dizzy Gillespie e Charlie Haden, tu cosa sapevi della musica afro-americana e dei suoi protagonisti? Te lo chiedo perché a Cuba c’è chi sostiene che, almeno fino agli anni Settanta, da voi il jazz era proibito. In tal caso, tu come facevi ad ascoltarlo e suonarlo?
Ufficialmente non si potevano riprodurre le musiche del «nemico imperialista» ma si trovava sempre il modo di farlo di nascosto. Quando mi avvicinai al jazz ero ancora un ragazzino: avvenne con un gruppo che si chiamava Da Capo. Per documentarmi ascoltavo il programma radiofonico di Horacio Hernandez – critico e conduttore nonché padre del batterista Horacio «El Negro» – che riusciva a superare i divieti ufficiali: lui andava in onda dal lunedì al venerdì, verso le undici di sera su CMBF/Radio Musica Nacional con una trasmissione chiamata «Il jazz, la sua storia e i suoi interpreti». Purtroppo Hernandez doveva fare i conti con un archivio antiquato, che comprendeva solo registrazioni degli anni Quaranta e Cinquanta, quando il jazz era di casa anche a Cuba. Dal 1959 in poi era diventato difficilissimo procurarsi le novità discografiche, e l’unico modo per aggiornarsi veniva dai musicisti cubani che rientravano da qualche tournée all’estero con un po’ di dischi o cassette. Tutti questi musicisti facevano sempre una copia per Horacio. Attraverso questo programma radiofonico, oltre a Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Monk e tanti altri, scoprii anche Charlie Haden che suonava nel quartetto di Keith Jarrett con Paul Motian e Dewey Redman su «The Survivors’ Suite», disco che ancora continua a sembrarmi tra i più belli di Jarrett. Questi nomi mi rimasero impressi nella mente, e quando Haden arrivò all’Avana già sapevo qualcosa di lui.
Horacio «El Negro»Hernandez mi ha detto che suo padre infilava di soppiatto il jazz sotto il naso dei pezzi grossi cubani spiegando che era musica dei neri, degli oppressi negli Stati Uniti.
Credo che sia andata proprio così, perché i nostri leader politici non conoscevano proprio niente del jazz, della sua storia e delle cause che spiegavano l’esistenza di una musica afro-americana. Poi le cose sono cambiate per varie ragioni, e tra queste anche quella di considerare il jazz come attrattiva turistica. Credo infatti che il festival del jazz dell’Avana sia stato uno degli eventi culturali e di richiamo più significativi fin dagli anni Settanta, quando il turismo non era diventato ancora importante a Cuba.
Non abbiamo ancora citato Dizzy Gillespie: fu lui a scoprirti al Club Parisien dell’Hotel Nacional dell’Avana nel 1985, ancor prima di Haden. Cos’è che catturò l’attenzione di questi due grandi maestri, nel tuo modo di suonare? Il jazz in clave, il tumbao o il montuno?
Verissimo. Dizzy fu il primo a segnalare il mio nome a Lundvall e lo fece circolare dappertutto dopo che suonammo assieme al festival Jazz Plaza dell’Avana. Eppure l’importanza di Gillespie, non solo per me ma anche per lo sdoganamento del jazz cubano, richiederebbe un’altra intervista. Non saprei dirti se Dizzy e Charlie fossero stati colpiti proprio dagli elementi che hai citato, ma entrambi sapevano capire benissimo la presenza di aspetti innovativi da poter sviluppare. Avevano la vocazione di promuovere nuova musica, erano due apostoli dell’arte delle note, due persone di grande nobiltà: il fatto che mi abbiano sostenuto, anche se giovanissimo, mi riempie di orgoglio. E non capitò solo con me: Dizzy ha appoggiato molti musicisti di ogni luogo creando una sorta di ONU in musica dove sono passati, tra i tanti, Danilo Perez, Michel Camilo, Giovanni Hidalgo, Claudio Roditi, Paquito D’Rivera, Arturo Sandoval, Flora Purim, Airto Moreira e via dicendo. Anche Charlie ha fatto lo stesso. Chiaro, poi dipende tutto da ciò che sai costruire con le tue mani, dal tuo talento eccetera, ma è fondamentale incrociare gente che ti tenda la mano e ti aiuti a trovare una strada propria.
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Gian Franco Grilli
Aymée Nuviola
Aymée Nuviola è nata in una famiglia di musicisti: alcuni dei suoi primi ricordi la vedono già seduta al pianoforte fin da piccolissima. Ha ricevuto un’approfondita formazione classica presso l’Accademia musicale cubana.
Ha vinto il Grammy Award 2020 per il miglior album latino tropicale con “A Journey Through Cuban Music”. Nel 2019 era già stata oggetto di nomination ai Latin Grammies con lo stesso album. E anche nel 2014, 2015 e 2018 aveva vinto quell’importante premio.
Per tre anni consecutivi ha ottenuto la nomination al prestigioso concorso Cubadisco, sia come miglior cantautrice sia per il miglior album di musica popolare con le produzioni “En la intimidad” “First Class to Havana” e “El Regio a la Habana”.
Quest’oggi Musica Jazz vi augura Buon Natale e buon concerto!