Più di trent’anni fa, era il 1990, Paul Auster pubblicò The Music Of Chance, uno strano romanzo, un intreccio gotico sul senso della libertà; scelse come metafora il gioco del poker, in una partita surreale che i due protagonisti affrontano, ritrovandosi in breve tempo a esplorare, attraverso le carte, le domande radicali su libero arbitrio, solitudine, capacità di comprendere sé stessi per conoscere la realtà esterna. E del resto, che dalla letteratura alla cinematografia, con diverso segno, il poker sia stato vascello elettivo per solcare le onde dell’animo umano è fatto noto. Ne è consapevole Christian McBride, in Italia per una tre giorni del suo tour europeo con il progetto Inside Straight; da buon pokerista, infatti, ci ricorda come quell’espressione descriva una strategia di gioco possibile: si tratta di progettare una scala cui manca una carta al centro per completarsi, commisurando una chance con un rischio. Ma se l’inside straight funziona, grazie alla capacità di controllo, all’intuito e all’inevitabile mescolamento di virtù e fortuna, costringe in modo bruciante gli avversari al fold, la ritirata (da cui il nome di gutshot, un colpo dritto in pancia).
McBride è un gigante gentile capace di interpolare nella sua visione musicale metafore tratte dalle sue tante passioni (gioca a football, è un acceso tifoso di qualunque squadra di Filadelfia, dove è nato, «come McCoy Tyner», appunta con orgoglio) e da una acuta capacità di osservazione sulle dinamiche sociali e politiche del mondo in cui viviamo. È un uomo capace di sedersi a diversi tavoli da gioco in contemporanea: i tour, i progetti educativi, la produzione musicale, la composizione, le prove con le sue diverse formazioni in campo e lo studio; lo fa con l’ostinazione – lo spiegherà dettagliatamente nel corso della lunga chiacchierata che si concede dopo il soundcheck alla Casa del Jazz di Roma – di chi sa che se si vuole ottenere un risultato, non c’è altra via che provarci finché non si raggiunge, costi quel che costi. Non è difficile indovinare i suoi tratti caratteriali ascoltando i suoi album: un’energia dirompente, vulcanica, sempre temperata da un tratto di assoluto garbo, capace di confrontarsi con gli altri senza mai «sovrastarli», progettuale senza tralasciare i limiti e le virtù di chi sceglie di avere accanto. Se in Italia presenta «Inside Straight», oggetto della recente uscita del live al Village Vanguard registrato nel dicembre del 2014 e distribuito da Mack Avenue, parallelamente ha la testa presa dalle sue «Q Sessions» di marzo (prodotte per una nuova piattaforma di streaming in alta qualità digitale) e da un supergruppo, che per ora adombra nella riservatezza, dove tornerà a suonare elettrico con significative scariche di groove.
Dopo trent’anni di professionismo a livelli stellari, dalle collaborazioni come sideman fin da quando era uno studente della Juilliard fino alla non comune incetta di otto Grammy raccolti negli ultimi anni, Christian McBride strabuzza gli occhi come a un marziano se gli si domanda cosa ancora può chiedere alla propria carriera musicale: «Ma stai scherzando? Ho una quantità infinita di cose da fare e da realizzare, c’è un mucchio di lavoro e di sfide davanti!». Sono le scommesse di costruire progetti portando sulle spalle la grande tradizione del jazz americano, i suoi protagonisti ed eroi, parlando dei quali gli brillano ogni volta gli occhi come a un adolescente con i poster dei divi appesi in camera; McBride si sente a pieno titolo dentro il grande fiume di quel patrimonio culturale, ne esalta la vitalità determinata dal suo tramandarsi in via intergenerazionale, mettendo di fronte giovani e vecchi con i loro stili e linguaggi. E, a proposito di padri…
Stasera gli amanti del jazz sono in una tempesta del dubbio, dovranno prendere una scelta difficile: tu che suoni alla Casa del Jazz e a pochi chilometri, all’Auditorium, Herbie Hancock… So che tu ami molto Herbie: che cosa rappresenta per il jazz?
Wow! Ho sentito che stasera Herbie è qui a Roma… Perché è così importante? Per la stessa ragione per cui l’ossigeno lo è per respirare. Non debbo certo spiegare io qual è lo straordinario ruolo che riveste per l’intero mondo musicale, lo hanno fatto in tanti e non aggiungerei nulla di nuovo. Posso però dire che è meraviglioso che lui ci sia, che sia in salute, che faccia concerti; ovunque vada a suonare, la gente dovrebbe davvero baciargli le mani per la gratitudine.
Nel 1997 registrasti un album in omaggio alla sua musica, «Finger Painting», dove tra l’altro manca proprio il piano.
Fu un’idea della Verve: Herbie aveva appena firmato con loro un nuovo contratto e quindi pensarono ad una specie di regalo di benvenuto, così domandarono a me, Mark Whitfield e Nicholas Payton se fossimo interessati. Come immaginerai, rispondemmo subito di sì, lo amiamo profondamente. Quanto alla mancanza del pianoforte, si trattò di lavorare su quella musica in modo originale e spero interessante; avevo fatto qualcosa del genere due anni prima con Roy Hargrove, quando nel 1995 registrammo «Parker’s Mood», dedicato a Bird ma senza sassofono.
Stasera invece suonerai con la formazione che hai chiamato Inside Straight, nome che suggerirebbe l’intenzione di suonare con piglio meno astratto e free, ma carico di groove e swing
Esatto, proprio così! Il senso è quello, ma la definizione del gruppo viene da un concorso. Avevamo suonato al festival di Monterey nel 2008 e mi resi conto di non essere soddisfatto della denominazione «Christian McBride Quintet», perché in quegli anni era una formula standard, completamente priva di fantasia. Così ho deciso di fare qualcosa di divertente insieme ai miei fan: coinvolgerli in un contest per trovare il nome giusto: hanno vinto due ragazzi di Fort Bragg, California, Debrah e Doug, Inside Straight è in primo luogo un’espressione accattivante di per sé, poi è anche il titolo di uno dei miei album preferiti di Cannonball Adderley ed è uno schema del poker, che io gioco. C’erano un sacco di motivi per sceglierlo!

Proviamo a riavvolgere il nastro, anche se la tua carriera è talmente articolata che non è un affare semplice. Hai studiato alla Juilliard e lì hai iniziato la tua carriera come sideman di nomi importantissimi del jazz; quanto credi che sia importante l’esperienza al servizio di un leader nella formazione di un musicista?
Alla Juilliard ho studiato prima che avesse un programma specificamente dedicato al jazz, quindi ho affrontato anche il repertorio classico; ma, per quanto concerne nello specifico la tua domanda, impari a essere un leader, quando sai essere un sideman! Vedi, in molti vogliono saltare questo passaggio, diventare leader senza aver mai gravitato intorno a qualcuno che ti può guidare, che ha in mente un progetto e sa scegliere bene i musicisti giusti per realizzare quell’idea, lasciando loro la percezione e la libertà di dare un contributo con la loro personalità, ma senza che si perda la visione iniziale del leader. Ci vuole un sacco di tempo per fare tutto questo e diventare un leader! Non è che devi essere per forza anziano, ma non è possibile diventare un buon leader senza aver lavorato per qualcun altro a un certo punto della tua carriera. Aggiungo un’altra cosa: moltissimi musicisti non diventano mai frontmen e questo va benissimo, non esistono regole: pensa a Bob Cranshaw che ha suonato con Sonny Rollins per tutta la vita! Poi, ovviamente, potrai anche mettere su un tuo gruppo, ma scegliere espressamente di non focalizzare la tua vita artistica sulla tua musica è assolutamente legittimo…
Tu quando hai capito di essere riuscito a svoltare come bandleader?
Ho iniziato a dare concerti a mio nome soprattutto con l’uscita del primo album nel 1995, «Gettin’ To It» (Verve), ma dubito che avessi già imparato a essere un leader, quello è successo dopo. Avevo girato con la mia band per circa un anno, poi nell’estate del 1996 sono stato in tour per la prima volta con Chick Corea; poco prima avevo avuto la possibilità di lavorare con Pat Metheny e Freddie Hubbard. Quindi, anche se tecnicamente stavo guidando una band, mi sono reso conto che non avevo maturato quel ruolo.
Con Chick Corea hai suonato moltissimi anni. Immagino che tra voi si fosse creato un rapporto molto solido: che ricordo ne hai?
Penso che il suo ritratto migliore, quello più aderente, sia di un uomo davvero per bene, una brava persona, straordinariamente gentile. Non mi è mai capitato, mai, in ventisei anni di lavoro con lui di sentirlo trattare qualcuno in modo sgarbato; era sempre positivo, generoso e riusciva a mantenere intatto lo spirito di un bambino.
Nelle tue «Q Sessions» uscite a marzo c’è un brano, Brouhaha, per Chick.
Quel brano fin dall’inizio era dedicato a lui. Ho iniziato a lavorarci subito dopo la scomparsa di Chick che, quindi, in un certo senso, mi ha ispirato nella sua scrittura. Comunque non lo considero necessariamente un omaggio ma qualcosa di diverso. Chick cercava sempre di spronarmi a scrivere di più, diceva che ero un buon compositore, eppure io diventavo tremendamente nervoso quando si trattava di farlo davanti a lui, perché, sia chiaro, Corea è uno dei maggiori compositori dell’epoca contemporanea. Sudavo freddo, quando mi diceva: «Scrivi qualcosa per il trio!» Fatto sta che, quando è morto, ho cercato di ritrovare la sua voce che mi diceva: «Christian, scrivi qualcosa in più, componi più musica!» e l’ho fatto.
Come contrabbassista e compositore, che rapporto hai con Mingus, del quale ricorre il centenario dalla nascita?
Oh, man! Se sei un leader e un bassista non hai altra scelta che prendere atto del lascito artistico di Mingus! Un uomo talmente immenso e vasto che non si riesce a contenere; una marea di gente ha suonato con lui, che continuava a scrivere musica straordinariamente ampia, ambiziosa; molti suoi lavori vanno ancora scoperti e capiti dopo più di quarant’anni dalla sua morte…
Aveva una scrittura molto densa e complessa.
Lui era un uomo denso e complesso!
Mingus è stato uno degli artisti che hanno inteso la musica anche come una forma di protesta politica, a partire dal tema dei diritti civili e contro ogni forma di discriminazione razziale. Tu nel 2013 hai registrato «The Movement Revisited», poi uscito nel 2020. C’erano quattro ritratti di icone: Rosa Parks, Malcolm X, Martin Luther King Jr. e Muhammad Ali. A dieci anni da quella scrittura, come definiresti oggi l’America su quei temi?
Ti rispondo con un’immagine. Entri in un ristorante molto bello, dove c’è un buffet pieno di ogni ben di dio, cibi differenti e buonissimi; arrivi a quel tavolo imbandito e con una sventagliata di braccio rovesci tutto per terra, poi distruggi il ristorante… Ecco, questa è l’America, oggi: un ristorante incasinato [inevitabilmente ride].
Mi par di capire che sei assai critico verso il mondo in cui viviamo.
Le cose che a mio parere renderebbero il mondo un posto migliore non sono affatto complesse da immaginare, anzi sono semplici. Vedi, spesso la verità è accessibile, possiamo arrivarci, ma c’è sempre tanto caos sulla superficie delle questioni; è una specie di miraggio, un’illusione che ci fa credere importanti cose che non lo sono, mentre quelle davvero significative sono appena sotto. Non è difficile, sai: devi essere gentile e ascoltare gli altri; ognuno ha un’idea diversa di come la vita vada vissuta, per cui puoi credere nella religione che ti pare, avere la sessualità che vuoi, ma devi essere gentile con le persone. Eppure… L’ostacolo sembra essere proprio un tratto della natura umana. Crediamo di essere più intelligenti, piazzati nel punto più alto della catena animale, supponiamo di avere intelligenze puntute e in grado di risolvere ogni problema…
E invece?
Invece, quando vedo tutto il casino che c’è in giro nel mondo negli ultimi tempi, riconosco molta paura, ignoranza, la scarsa propensione a essere flessibili, a incontrare le persone nel punto di vita in cui si trovano, e questo proprio per la paura. Aggiungo che io sono sempre cresciuto come un democratico liberale: credo fermamente che il governo debba prendersi cura dei suoi cittadini, in un senso ampio, ma credo anche nelle capacità dell’individuo, a partire dal suo potersi determinare. Se vedi qualcosa che vuoi nella vita, vattela a prendere! Non puoi aver paura, e se non riesci ad ottenerla non puoi lamentarti sempre che sia colpa degli altri, devi avere la caparbietà di rimetterti a testa bassa e tentare di nuovo, ancora e ancora.
Piuttosto chiaro: questo meccanismo produce rapporti civili e sociali aspri.
Nella confusione di tutti i giorni, vedo persone che non sanno neanche bene più chi sono e fanno fatica a essere garbate, sensibili le une con le altre. Lo vedi da te, tutti sui social media sono perennemente arrabbiati, ma è perché la gente neanche legge più, si ferma ai titoli. Pensano tutti di capire e invece si fermano alle prime righe, non si danno il tempo di leggere tutta la storia, questo perché vedono solo quello che vogliono vedere; anche quando leggono un articolo di giornale lo interpretano come hanno deciso dall’inizio che andasse interpretato, anche a costo di ignorare il dato di realtà, perché li allontanerebbe dall’idea che avevano a monte. Sai cosa mi piacerebbe? Vivere in un mondo in cui la gente fosse più generosa, flessibile e leggesse di più.
Una strategia è senz’altro l’istruzione. Tu sei uno che ha investito moltissimo in ogni senso nella formazione musicale dei giovani, hai fondato e sei il direttore artistico della Jazz House Kids a Montclair nel New Jersey. Quanto è importante questo tipo di formazione scolastica e accademica?
Partiamo dal fatto che molti musicisti, negli anni Quaranta e Cinquanta, non venivano presi sul serio perché, a differenza dei loro colleghi d’accademia classica, non possedevano una formazione specifica, però la cosa importante oggi è chi insegna e come lo fa; l’estetica del jazz è davvero molto diversa dalla musica classica, anche se ci sono ancora molti insegnanti nelle università jazz che insegnano con un metodo tradizionale. Certo, è fondamentale studiare scale, arpeggi, formazione degli accordi perché è come conoscere l’alfabeto o i numeri a scuola, però il jazz è una musica popolare, creata nelle strade. La nostra musica si basa sulla tradizione orale, per cui è importante avere come insegnante qualcuno che l’ha suonata per davvero, nel suo luogo elettivo. Vuoi che faccia qualche nome? Sean Jones, Stefon Harris, Ron Carter, Steve Wilson: loro ti insegnano a lavorare e sanno molto bene cosa bisogna fare per diventare dei bravi musicisti, conoscono il mondo, conoscono lo swing e, quando lo insegnano, diventa un’esperienza bellissima.
Alcuni di quelli che hai citato sono ancora «giovani»: cosa può fare un top player come te per valorizzare i talenti emergenti?
Ho iniziato da poco, e sono molto contento, una nuova avventura creando un mio imprint discografico, Brother Mister, che è distribuito dagli amici di Mack Avenue Records. Sono usciti e stanno uscendo moltissimi progetti interessanti: quello di un gran chitarrista come Dan Wilson, il gruppo di avanguardia di Matthew Shipp ma anche Jennifer Hartswick, che è una trombettista e cantante di talento e ha registrato per noi un album in uscita a settembre. Come direttore esecutivo mi sto molto focalizzando su questa avventura imprenditoriale, poi non so dirti quanto durerà, anche perché nel frattempo sono impegnato nell’organizzazione del Newport Jazz Festival del quale sono direttore artistico dal 2016.
Faccio un altro passo indietro. Tu racconti spesso quanto nella tua formazione sia stato fondamentale James Brown, col quale hai suonato… Così mi chiedevo se la prima volta tu fossi spaventato e avessi preparato i brani suonando sui suoi dischi o con annotazioni date dal suo entourage.
Santo cielo! James Brown è il mio eroe, fin da quando ero ragazzo. Certo, ero spaventato ma non avevo bisogno di nulla, conoscevo ogni suo pezzo a memoria, sapevo tutto quel che aveva fatto. La prima volta che ci ho suonato mi sono semplicemente piazzato vicino ad altri musicisti: era una specie di jam session per il suo sessantaquattresimo compleanno; come sempre, all’ultimo brano invitava un sacco di gente a suonare, c’ero anch’io ma non sono neanche sicuro che si fosse accorto che ero su quel palco enorme gremito di talenti. Però, poi, ho dovuto produrre uno dei suoi ultimi spettacoli, eravamo all’Hollywood Bowl nel settembre 2006, e quell’esperienza è stata forse la più importante di tutta la mia vita, un coinvolgimento emotivo difficile da raccontare. A quel punto James Brown si era fatto un po’ vecchio, era stanco e insieme molto dolce e gentile… In quell’occasione cantò jazz ed era molto contento, perché stava tornando indietro a quello che diceva avrebbe voluto fare fin dall’inizio. Prima di diventare il Godfather Of Soul, insomma, il suo sogno era quello di essere un cantante di jazz.
Come concili il fatto di amare i vinili, per la loro impareggiabile capacità di trasmettere vita ed emozioni, e aver pubblicato le «Q Sessions» espressamente registrate per la nuova piattaforma Qobuz, streaming in alta fedeltà?
Non ci vedo una contraddizione. Il digitale, tra l’altro, consente gli ascolti saltando da un brano all’altro, anche di cose molto lontane tra loro, dov’è il problema? Quando ero alle superiori, prendevo i miei album preferiti e facevo cassette di mix, ci mettevo Coltrane e Prince, James Brown e Bobby Hutcherson, McCoy Tyner e Aretha Franklin. È lo stesso oggi, ma in digitale e non analogico, so what? Detto questo, quando sono a casa ascolto molto i vinili.
A casa, circondato dai tuoi otto Grammy! A ogni modo, senti una qualche responsabilità nel gestire come personaggio pubblico un successo del genere?
Non sento in modo specifico la responsabilità per questo fatto, mentre la sento ogni volta che suono davanti a un pubblico. Così come sento responsabilità verso gli studenti della Jazz House, la no profit che abbiamo costituito io e mia moglie Melissa Walker, che è una cantante jazz e, per l’appunto, direttrice dei corsi della Jazz House. I Grammy, credimi, non sono il motivo per cui faccio questo mestiere: sono molto contento di averli vinti, intendiamoci, ma il mio riconoscimento maggiore è aiutare le persone di talento a diventare bravi musicisti di jazz, penso a Christian Sands o a Dan Wilson. Ecco, la sfida è prepararli a fare tour mondiali, a trasformarli in top players.
In questi giorni sei impegnato in una serie di date in Europa. Come sai, la tradizione jazzistica qui si è andata definendo e affermando in modo sempre più marcato, tanto che c’è chi definisce il jazz europeo come un genere ormai autonomo che, dopo decenni, ha tagliato il cordone con quello statunitense.
Lo so, ma se qualcuno pensa di aver tagliato il cordone con l’America… Be’, sarebbe davvero un peccato! Conosco moltissimi musicisti scandinavi, per esempio, di Copenaghen o di Stoccolma: certo che possiedono una loro tradizione, ma resta il fatto che hanno swing e sono i primi ad essere orgogliosi di suonare musica creata in America. Alla fine è sempre una questione individuale: se sei un musicista europeo e vuoi suonare jazz, quel jazz sarà necessariamente europeo per il solo fatto che lo stai suonando. E questo va benissimo: suonalo, allora!
La capacità di visione non difetta certo in Christian McBride. Mentre parla sembra di riascoltare le parole di un grande del football americano, Lou Holtz, quando diceva che la vita è al dieci per cento quello che succede e al novanta per cento la nostra reazione. Dev’essere la determinazione di quello sport a sedurre il musicista di West Philly, che prima di salutare sfoglia velocissimo le foto sul telefonino: «Guarda, qui siamo alla partita che facciamo alla fine dei Summer camps tra insegnanti e studenti, quello sono io». Non è esattamente uno scricciolo; ma, protezioni e caschetto in testa, vola via dal terreno di gioco afferrando la palla ovale con una grinta e una sicurezza fuori registro.