Seduto in un teatro nel gioco delle speranze e delle paure, mentre l’orchestra sospira a fatica la musica delle sfere. Parafrasare Stéphane Mallarmè è forse l’approccio per somma approssimazione migliore quando ci si accosta a Charles Lloyd e alla sua musica, sempre più vicina allo sfaldarsi delle grammatiche umane, sprofondata piuttosto in una ricerca spirituale che trova nella propria inesauribilità legittimazione e senso. L’alfabeto degli astri è, in fondo, la cifra che lega, nella mistica del numero tre, il cofanetto Blue Note fresco di stampa con i tre Trios, dove il grande vecchio di Memphis si fa accompagnare in un viaggio oltremondano da Gerald Clayton, Julian Lage, Anthony Wilson, Bill Frisell, Zakir Hussain. E come ogni viaggio al di là del noto, Lloyd ha la sua guida luminosa: Dorothy Darr, da quarantadue anni molto più che una moglie. Pittrice, documentarista, grafica, produttrice, manager, è lei a curare da anni le copertine dei suoi album, è lei a prendersi cura della sua agenda di impegni, modulandola con la grazia dovuta ad una ispirazione a ciclo continuo e avida di spazi. La missione di Dorothy sembra volta a lasciare Charles comporre, suonare, entrare sempre più in profondità e in contatto con il rovescio maiuscolo della musica in sé, mentre, per esercitare la sua effervescente identità creativa, raccoglie, organizza e ricompone ogni video, foto, registrazione e traccia del lavoro del marito. Non con il piglio resocontista di un Rustichello da Pisa, ma con la consapevolezza che Lloyd è di per sé ispirazione e moltiplicatore di arti, che tutte lega sotto il comun denominatore della parola «bellezza». Da questo zodiaco, per dire, Darr ha presentato nel 2012 il docufilm Arrows Into Infinity e nel 2021, su commissione della berlinese Pierre Boulez Saal, Love, Longing And Loss: At Home With Charles Lloyd During Isolation, dove il sassofonista ragiona sugli universali di solitudine, resistenza, ispirazione e ascendenza.
Dallo studio della loro casa di Santa Barbara in California arriva, pure nella necessitata algida connessione web, l’eco di un’atmosfera prolifica, vitalissima, dove libri, partiture, album, pitture fanno da cornice a una maturata saggezza, che non sa arrendersi alla brutalità della cronaca. Lloyd è un uomo pacato, brillante, timido oltre ogni previsione, tanto ben disposto a mettersi in connessione col chi ha davanti quanto in difficoltà a reggere il peso di un’intervista, come un uccello cui si chiedesse di nuotare a dorso. La sua preoccupazione maggiore, durante la chiacchierata a distanza, è in effetti più legata a comporre il conflitto tra inadeguatezza del linguaggio e ricerca di un legame con l’interlocutore, rispetto di sé e rispetto dell’altro da sé, il cui risultato è una conversazione fragile e appassionante sotto il segno della frammentarietà. Dalle parole di Lloyd escono schegge di memoria, nomi da rapire all’oblio della storia maggiore, idee di estetica e di etica, binomio che nella sua musica non potrebbe esser scisso, pena il sostanziale fraintendimento dell’intenzione e del risultato.
Nel grande vecchio di Memphis torna con forza quella propensione alle idee di connessione, ordine universale, pace e ascensione che nella storia del jazz in particolare ha preso, nel Novecento, la via della mistica indiana e orientale: da Sun Ra a Pharoah, da John e Alice Coltrane a McLaughlin, da Yusef Lateef al Doctor Lonnie Smith, la declinazione panumanista dello spirito ha attraversato come la più potente delle correnti creative tante delle svolte espressive di questo linguaggio, ibridando le radici ritmiche africane con le tensioni artistiche di quella parte di mondo. E non è, forse, un caso che l’ultimo dei Trios presentati da Lloyd nel box set sia in compagnia delle percussioni e della voce di Zakir Hussain, che partito settantadue anni fa da Mumbai ha trasformato il suono e le potenzialità delle tabla portandole per sentieri non tracciati e compiendo sul suo strumento la stessa rivoluzione operata da Ravi Shankar sul sitar. Tutti compagni di viaggio che Lloyd considera sempre con lui, vivi in un grande loft dove passato e presente non hanno rintocchi possibili; nelle sue parole, incontri Charlie Parker, Howlin’ Wolf, Phineas Newborn, Billy Higgins e gli altri, che dialogano oltre la pensabile corrispondenza d’amorosi sensi, in un continuum armonico. Sono loro, come il titolo del documentario della Darr, le frecce lanciate verso l’infinito: e il viaggio continua.
Mr Lloyd, è felice di questo nuovo cofanetto, dove sono raccolti i Trios usciti negli ultimi mesi?
Sono proprio molto contento, pensa che l’ho ricevuto solo qualche giorno fa, me lo ha portato Dorothy come una sorpresa. Lei ha fatto tanto per questo risultato e trovo che abbia un packaging proprio bello… lo hai? Altrimenti te lo mando io.
Grazie, è qui con me; in effetti mi sono preparato ascoltandolo a lungo, c’è moltissimo dentro.
Sai che ti dico? Se riuscissi in qualche modo a separarmi da me stesso, direi che è davvero un gran bel prodotto. Sono grato a Don Was e a tutto il gruppo della Blue Note per la cura e l’amore che ci hanno messo dentro; mi hanno anche aiutato a vincere la rituale paura di non riuscire a fare le cose nel modo giusto. Per me è stato molto emozionante.
Nella sua produzione musicale ci sono spesso chitarristi d’eccellenza. La sua biografia racconta di quanto Gabor Szabo o John Abercrombie siano stati importanti, solo per citarne due. In questi tre dischi c’è sempre una chitarra a far da perno: Bill Frisell, Anthony Wilson, Julian Lage. È un legame speciale legato al tipo di suono e al suo legame con i fiati?
Ho iniziato ad apprezzare il suono della chitarra fin da quando ero ragazzino; mio nonno la suonava, il riferimento era lo stile di Robert Johnson. Poi sono cresciuto ascoltando B.B. King e tutto quell’incredibile gruppo di bluesmen di Memphis, dove sono nato. Come dire, la chitarra in qualche modo ha sempre premiato il mio modo di sentire e di essere; sarà perché è uno dei primi suoni con i quali sono entrato in contatto, ma trovo abbia una voce particolarmente incline al canto e ci sono chitarristi speciali che riescono a trovare quella voce. E poi mi piace il timbro: i vecchi chitarristi mi dicevano che il loro lavoro era estrarre la bellezza di quel suono. Per tornare ad oggi, Frisell, Wilson, Lage sono capaci di tirare fuori forti risonanze con il mio strumento. È una questione di radici, anche: se fossi nato a Vienna magari sarebbe stato il violoncello, ma sono di Memphis e lì c’erano il sassofono e la chitarra, che è sempre stata una vicina di casa. Poi, a pensarci bene, ho anche suonato con un sacco di pianisti, quindi forse ha più a che fare con la personalità del musicista che con lo strumento in sé. L’obiettivo è raccontare una storia con il proprio strumento, e tutti i chitarristi che hai citato hanno una spiccata capacità di raccontare storie.
In «Ocean» ci sono un piano e una chitarra, due strumenti armonici spesso complessi da integrare. A parte Bill Evans e Jim Hall, con questa formazione mi viene in mente il trio Petrucciani, Hall e Shorter, ma non c’è molta letteratura jazz… è stato complesso?
Ma no, non c’è nulla di difficile, faccio musica da una vita e tutto dipende dal musicista, come ti dicevo, da quello che riesce a metterci dentro. Quando ero solo un ragazzino ho avuto un grande mentore: Phineas Newborn. Viveva nella mia città, è stato proprio un maestro, suonava in modo non dissimile da Art Tatum. È stato lui a portarmi dentro la musica di Charlie Parker o di Bud Powell, avevo solo nove o dieci anni e tutto è diventato da allora perfettamente normale. È qualcosa di naturale per me fare questa musica, non è legato alla mia formazione.
Che uomo era Phineas Newborn?
Ho iniziato a suonare molto presto, prima dei dieci anni. Una volta lui mi ascoltò, disse che dovevo studiare meglio la musica e decise di mettermi sotto la sua ala protettiva. Mi consigliò di prendere lezioni da un insegnante di sassofono, continuando però a seguire i miei progressi. Phineas era un’anima dolce e sensibile, non faceva gossip, non parlava mai male delle persone, pensava solo alla musica e a suonare. Tra le sue dita potevano passare Bach, Beethoven, Chopin, in lui c’era solo musica. Era un uomo brillante e benedetto, che mi ha ispirato moltissimo, mi ha ubriacato di suoni. Credo che debba a lui anche la capacità di essere un buon ascoltatore, perché rimanevo incantato quando ero davanti al suo piano: potevo restare lì tutto il giorno così.
In «Sacred Thread», il terzo dei Trios, è tornato a suonare il tàrogatò. In passato, ricordo «Which Way Is East» , ha esplorato altri fiati come l’oboe tibetano. Cosa le piace di questi strumenti?
Ah, gli strumenti a fiato… Ci sono questi molto belli che vengono dall’Est. Il tàrogatò dalla Transilvania. Mi piace quello che grazie a quel suono può accadere nella musica, apprezzo molto il silenzio ma resto un sound-seeker, un ricercatore di suoni, e devo trovare qualcosa che restituisca una vibrazione al mio petto e al mio cuore. Pertanto sono felice di conoscere altri suoni che siano simpatetici al mio modo di essere e di sentire
Anche per le restrizioni della pandemia, i tre album oggi riuniti nel box sono stati registrati in sale molto diverse tra loro e in assenza di pubblico: «Chapel» nella Elizabeth Huth Coates Chapel a San Antonio, «Ocean» al Lobero Theatre di Santa Barbara e «Sacred Thread» alla Paul Mahder Gallery di Healdsburgh in California. È stata una scelta dettata dalla curiosità di esplorare risonanze sonore diverse?
Credo sia qualcosa che ha a che fare con il tempo presente, so di averci messo tutto me stesso. Prendi «Chapel»: alcuni amici, gente appassionata di musica, mi avevano parlato di questo luogo e mi ci hanno portato. Lì ho sentito qualcosa di speciale e mi sono detto: «Voglio suonare qui!»: era come se in qualche modo quel posto mi stesse chiamando dicendomi: «Charles, vieni!». La stessa cosa è successa alla Mahder Gallery, che mi ricordava un bellissimo loft di New York in cui avevo suonato. E poi c’è il Lobero, qui a Santa Barbara dove vivo. Quel teatro ha centocinquant’anni, all’inizio era una Opera House ed è ancora fatto di mattoni; la cosa che mi ha più colpito ed emozionato è stato il ricordo di quando ci ho suonato per la prima volta, proprio nel posto dove si è esibita la grande contralto Marian Anderson. Mi hanno fatto notare che ho suonato al Lobero più che in qualunque altro posto nella mia vita, forse diciassette o diciotto volte ed è qui che ho scelto di tornare a suonare, per festeggiare il mio compleanno a breve. Per quanto riguarda la scelta dei musicisti, invece, la Huth Coates Chapel aveva un’acustica non adatta alle percussioni ma volevo suonarci a ogni costo, e così è nato il trio con Bill Frisell e Thomas Morgan, anche se avevo in testo come riferimento la musica di Billy Higgins. Ho scelto come compagni di viaggio Bill e Thomas (che ha un modo di suonare il contrabbasso straordinariamente lirico): entrambi hanno una perfetta sintonia con il mio spirito. Per «Sacred Thread», invece, ho voluto Julian Lage: l’ho conosciuto quando aveva solo dodici anni e pensai di trovarmi di fronte a un giovane…. genio! Con Zakir, che dire, ci suono da oltre vent’anni, semplicemente è il più profondo in assoluto.
In «Ocean» c’è un blues brillante dalla struttura tradizionale dedicato a Virginia Jamarillo e a suo marito Daniel LaRue Johnson, due artisti d’avanguardia del Novecento. Sono importanti per lei?
Wow! Siamo amici fin da quando eravamo ragazzini, mi ricordo bene di suo marito Danny, erano gli anni in cui andavamo al college (Lloyd si è laureato nel 1956 a Los Angeles, University Of Southern California, ndr). Lei poi si è trasferita a studiare a Parigi e abbiamo seguito strade diverse. Loro, per me, sono artisti straordinari, quindi volevo in qualche modo rendergli un omaggio. In particolare, Danny è morto un paio d’anni fa ed era il mio modo di fargli una dedica. Virginia, invece, ha il successo che merita, finalmente! Sono molto contento per questo, perché amo il suo lavoro… Da poco ha esposto all’Hammer Museum di L.A., era una mostra bellissima, ci sono stato anch’io. Questo blues, insomma, è il mio modo di salutare Virginia con tutto il cuore. Quando gliel’abbiamo mandata si è commossa, non se l’aspettava e quindi sono contento che l’abbia presa bene.
Il blues continua a essere la casa base, no?
Sono nato in questo Paese e ho suonato con i grandi maestri di questo genere. Si sono scolpiti nel mio cuore e verso ognuno di essi ho un legame molto forte, pieno di corrispondenze. Io sono e resto un bluesman in questo mio viaggio, ed è ciò che in qualche modo cerco di testimoniare con la mia musica.
Anche se poi è entrata forte l’influenza dei raga e della musica indiana, dalla sua amicizia con Ravi Shankar all’ultimo Trio con Zakir Hussain. C’è un legame tra il jazz afroamericano e gli stilemi orientali?
Il legame esiste solo tra la musica buona, non mi piacciono per niente le linee di demarcazione tra i generi. Certo, ho ascoltato molto la musica indiana, Ravi Shankar e molti altri. Semplicemente è in grado di calmare la mia anima ed entrare in risonanza con ciò che sono. In quegli anni, mentre lavoravo, volevo tirare fuori il mio meglio e volevo capire cosa sarebbe successo comprendendo anche il linguaggio indiano. Negli anni Settanta ho inciso un album al quale tengo molto, «Geeta», con Baba Alade al basso e Planish Khan al dholak (una percussione simile a un tamburo a due teste, di dimensioni e pelli differenti, ndr), l’India mi ha chiamato per un lungo, lungo tempo. Poi, sai, la batteria viene dall’Africa e mi interessava che questi strumenti e il loro suono riuscissero a parlare tra loro, a tirare fuori l’umanità. È il mio obiettivo: contribuire a realizzare un universo migliore, creare mondi diversi e meno limitati di questo.
Non le piace il mondo in cui viviamo?
Io sono un ambientalista, amo la natura, amo l’umanità e nella mia anima ho bisogno di esprimere l’inesprimibile. La mia via è stata la musica, io non sono uno scrittore e non sono un poeta. A me fare le interviste non piace, non mi è mai piaciuto: non sono bravo con le parole, la musica mi chiama e sono ancora sedotto da lei. È tutta una vita che continuo a scalare un tetto e a cantare per il Creatore. Sono stato fortunato, perché ho trovato persone che volevano farlo con me, e in loro compagnia vado avanti ad esplorare…
Resta il fatto che forse nel presente si sottovaluta largamente il ruolo dell’istruzione.
Istruzione! Hai detto una parola bellissima, mi fa piacere che tu l’abbia pronunciata, perché è davvero importante. Più fornisci istruzione alle persone e meno avrai un mondo così poco in sintonia. Invece noi abbiamo bisogno di sintonia! Devi svegliarti ogni mattina con la consapevolezza di dover ancora imparare e studiare e crescere, e l’istruzione è il mezzo migliore per ottenere questi risultati. Non parlo solo della musica ma anche delle altre arti. Ho sempre coltivato il sogno di un mondo ideale in cui far crescere la musica, proprio come fa Virginia, di cui parlavamo prima, con le sue pitture e le sue linee. È un modo di connettersi e comunicare verso l’alto. Io non sono qui per fare critiche al mondo, figuriamoci. Voglio solo crescere e voglio essere abbracciato e avere qualcosa da cantare, qualcosa da condividere. Vorrei ispirare le persone, perché la musica può anche essere fonte di ispirazione; poterlo io fare per gli altri, questo è il punto.
Maestro, ha sottolineato spesso di aver lavorato sodo sul suo carattere. Che tipo di impatto ha avuto questo lavoro sul suo modo di suonare?
Ci lavoro ancora! Man mano che il tuo carattere migliora, migliora anche la tua musica; si ha qualcosa in più da offrire. Io avevo un caro amico, Booker Little, un grande trombettista ma soprattutto un grande compositore. Quando per la prima volta sono arrivato a New York, lui lavorava con Max Roach. Io, in quel momento, non desideravo altro che suonare, ovunque e sempre, in ogni strada, in ogni angolo o locale. Lui mi disse: «Ehi, cerca di calmarti e di lavorare su te stesso. Finché non hai qualcosa da dare, resta solo una manciata di note». È una questione di carattere, aveva ragione Lester Young che una volta disse al suo pianista: «Suoni bene, ma puoi cantarmi una canzone, una melodia?»: ecco, io voglio cantare una canzone per qualcuno.
Lei ha sempre avuto un rapporto speciale con Billy Higgins. Avete suonato e registrato insieme per ECM, poi lei gli ha dedicato un album… Che uomo era?
Billy è un grande maestro che ha avuto sempre una grande umiltà. Era un uomo sempre positivo. Certo, ascoltavo Kenny Clarke e Max Roach, ci mancherebbe, ma lui aveva una cosmologia tutta sua, andava in chiesa con sua madre. Era una persona perennemente in atteggiamento di preghiera, come se dovesse chiedere qualcosa al Signore. Il talento, per esempio, non credeva fosse merito suo, un fatto privato, ma qualcosa dal quale bisognava essere attraversati e lui, certamente, è stato attraversato da questa onda invisibile. Non era importante con chi lui suonasse, poteva essere davanti al beat, sul beat o dietro il beat, ma lo faceva sempre come un lavoro sartoriale, molto profondo e spirituale. Poi, io e lui avevamo sempre un sorriso l’uno per l’altro, non abbiamo mai discusso. E ancora una volta, vedi, torna il tema dell’istruzione, perché più tempo dedichi ad essa, meno hai bisogno di essere meschino, piccolo per difendere un certo territorio. Al contrario, puoi abbracciare tutto e questa è una cosa alla quale credo molto.
Da ragazzo, ha avuto la possibilità di suonare con i grandi del jazz, adesso è lei a lasciare nei suoi album che le generazioni più giovani entrino nel suo linguaggio. Quanto è importante questo tipo di scambio?
Te l’ho detto, io arrivo da una tradizione davvero molto ricca, dalla forma indigena della mia arte e su questo terreno i più anziani mi hanno sempre aiutato. Adesso è un mio onore quello di poter aiutare i giovani che crescono, quelli – almeno – con i quali sento che c’è una corrispondenza, una simpatia. E la cosa bella è che i giovani continuano a formarsi e ad avere un amore grande e profondo per la musica grande e profonda, lasciando perdere le cose commerciali. Come dire, lo fanno per la giusta causa: più vai nel profondo e più la musica va nel profondo, è come se si aprisse. Non so, è una faccenda strana da raccontare, ma mi è sempre capitato e questo è il senso della mia ricerca. Lo faccio da tutta una vita, ma ogni volta è una gioia, perché il tuo compito è creare e allora devi creare con altri che vogliono condividere con te quel momento. È un modo bello di «guarire» e di «guarire» il mondo, perché bisogna non solo prendersi cura dell’ambiente, salvare gli oceani e così via, ma guarirsi uno con l’altro, andando nel profondo del cuore. Ne vale la pena: io ho viaggiato per tutto il mondo e sono ancora onorato di poterlo fare; non mi piace per niente prendere l’aereo, però mi piace fare musica e quindi se devo pagare questo prezzo, lo pago. Perché poi, ti dirò, torno ogni volta arricchito, ho anche tanti ricordi del vostro Paese, dell’Italia…
In effetti, il pubblico italiano la ama molto.
È uno scambio. Vedi? Anche attraverso questa intervista stiamo riuscendo a condividere la nostra umanità. Tu scrivi per il giornale ed è bello che tu possa dare il tuo contributo, come io do il mio. Mia moglie Dorothy è una pittrice e ci sono i suoi dipinti in giro per casa. E così io sono vicino a loro e suono la mia musica ed è come se tutto iniziasse a volare nell’aria. Non so se sono arrivato al punto che cercavo della mia ricerca, ma certamente mi sono avvicinato e mi avvicino sempre di più.
Vero è che chi cerca di dare un contributo in termini di arte è alla perenne ricerca della bellezza, di offrire un lato migliore al passaggio.
Ecco, lo hai detto meglio di me. Quando ascolti la musica di qualcuno, puoi sempre cercare quello che c’è dietro, qualcosa per cui valga la pena di sforzarsi a comprendere, andare sempre di più nel profondo e io voglio inoltrarmi ancora in questa foresta, non mi voglio fermare. La creazione di Dio è davvero qualcosa di incredibile e noi dobbiamo portarla dentro le nostre vite. Quando sono stanco e ascolto musica è come se mi arrivasse una nuova energia, la stessa cosa quando mi metto a suonare: parto affaticato e poi è come se mi ricaricassi.
Le capita mai di riascoltare la sua musica?
Qualche volta mi capita ma di rado. Non sono come Louis Armstrong che ci teneva moltissimo a risentire le sue registrazioni, per migliorarsi. Quando mi ascolto, trovo solo aspetti in cui avrei potuto o dovuto fare una cosa anziché un’altra. In effetti, forse dovrei ascoltarmi di più, perché bisogna sempre fare i conti con la propria inadeguatezza.
Grazie del suo tempo, Mr. Lloyd!
Grazie a te! Non so se questa sarà una delle mie ultime interviste, perché quello che davvero sento e che mi interessa sempre di più è andare oltre, sempre più nel profondo della musica. Adesso che ho una pausa dal tour sento di dover comporre musica nuova, mi piacerebbe riuscire a registrarla per il mio ottantacinquesimo compleanno. Però ti dico che sono felicissimo che Musica Jazz abbia ancora voglia di dedicarmi spazio, e magari c’è ancora qualcuno che è interessato a ciò che faccio. Mi piacerebbe tornare e con l’occasione trovarci di fronte a un piatto di funghi porcini e tartufo. Chissà.