Carta bianca a Franco D’Andrea

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Franco D'Andrea Sextet
Franco D'Andrea Sextet

Roma, Auditorium Parco della Musica – Spazio Ascolto

10 gennaio 2014

Posti in piedi per la conferenza stampa di presentazione della «carta bianca» offerta per la stagione 2013-14 a Franco D’Andrea, appena incoronato (ma non è più una notizia!) musicista dell’anno dal Top Jazz 2013 in occasione dei suoi cinquant’ anni di carriera.

La «carta bianca» si articola su tre concerti, una master class e un doppio album pubblicato dalla Parco della Musica Records, «Monk And The Time Machine», qui presentato e ufficialmente in uscita il 13 gennaio. Il ciclo di eventi si aprirà con la master class del 27 e 28 gennaio presso il conservatorio di Santa Cecilia (insieme a Luca Bragalini) dal titolo Le aree intervallari. Il negletto interesse del jazz per la serialità. I concerti, tutti presso l’auditorium Parco della Musica, vedranno dapprima alla ribalta il Franco D’Andrea Sextet (il 28 gennaio 2014 alla sala Petrassi), poi il trio D’Andrea-Dave Douglas-Han Bennink (24 marzo alla sala Sinopoli), per chiudere con un concerto in piano solo (23 maggio al teatro Studio). Dunque la parola d’ordine che regola l’intero progetto, come sottolineato dallo stesso D’Andrea, è «libertà di espressione per una pluralità di incontri».

Il pianista, apparso brillante, piacevolmente lucido e determinato, splendido anfitrione di un incontro stimolante, si è diffuso su molti argomenti: ha anzitutto voluto ricordare la propria «vita fortunata», che lo ha portato a fare la musica che voleva fare, raggiungendo «certi obiettivi». Proprio per questo vede nella master class un’occasione da non perdere, di quelle che permettono di «restituire qualcosa di ciò che si è ottenuto», anche in nome d’un certo valore del jazz come musica sociale, «rappresentato anche dalla gente che ti suona intorno». Riguardo ai tre concerti, ha sottolineato come il sestetto rappresenti attualmente il suo gruppo più ambizioso e complesso («di punta»), che è arrivato ad elaborare la musica di Monk dopo le numerose esplorazioni da lui condotte in solitudine e in avanscoperta, anche perché proprio il piano solo è il luogo ideale in cui si assume il massimo rischio, quello in cui all’artista capitano «cose particolari», che lo spingono ad andare in avanscoperta per vedere cosa c’è dietro l’angolo. A proposito del trio con Douglas e Bennink, che rappresenta per lui una formazione del tutto nuova, D’Andrea ha tuttavia ricordato i precedenti e importanti trascorsi con entrambi i musicisti come ospiti di lusso delle sue formazioni, perché la musica improvvisata deve maturare nel tempo, insieme alle situazioni personali e umane che coinvolge. Per questo non è mancata – non poteva mancare – un’appassionata descrizione delle qualità di ciascuno dei membri del sestetto.

Ma la lunga prolusione è stata anche l’occasione per abbandonarsi a ricordi personali e coinvolgenti: la folgorazione a tredici anni con Basin Street Blues – in un 78 giri delle All Stars di Louis Armstrong – e l’acquisto di una cornetta come primo strumento, per poi passare al clarinetto (a causa di problemi nei sopracuti) e successivamente al pianoforte, per la fatale fascinazione esercitata da Ecaroh dei Jazz Messengers; il ricordo dei lunghi periodi vissuti a Roma negli anni Sessanta e Settanta; la «scoperta» (meglio: l’esplorazione) di Monk, iniziata in solitudine negli anni Ottanta; le esperienze di ascoltatore appassionato, che può ricordare a braccio i minimi particolari della Well You Needn’t in «Monk’s Music» o della trasfigurata, lentissima, Round Midnight del «Complete Live At Plugged Nickel» di Miles Davis.

Sempre Monk, appunto, l’approdo più recente della ricerca, l’icona, l’uomo che viene reputato (testualmente) come «il più grande musicista mai esistito nel jazz», perché porta in sé le tracce di tutta la storia di questa musica ed è inesauribile, dato che ogni suo brano, anche il più semplice (anche quelli che D’Andrea chiama «aforismi»), contiene infiniti mondi. E ha offerto i materiali di partenza per quel «Monk And The Time Machine» che già si annuncia come uno dei dischi dell’anno, non soltanto in Italia.

Cerini