Brda Contemporary Music Festival, XIII edizione

La democrrazia in musica

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Zlatko Kaucic, foto di Igor Petaros

Medana, Cinema Teatro e Memoriale Gradnik Zorzut

14-16 settembre

Al tredicesimo anno di vita il Brda Contemporary Music Festival, sotto la direzione artistica del vulcanico Zlatko Kaučič, si è spostato dal borgo medievale di Šmartno – teatro delle precedenti edizioni – al paesino di Medana, anch’esso situato nel cuore di Goriška Brda, il Collio sloveno. Come sempre, il presupposto fondamentale dell’iniziativa è quello di concedere visibilità a varie forme di improvvisazione svincolata da categorie predefinite, da proporre senza schemi prestabiliti grazie anche alla composita presenza di musicisti europei. Tra questi, parecchi sloveni e friulani, quasi a sottolineare la natura di crocevia culturale dell’area. Altro tratto distintivo della manifestazione, lo spazio riservato alla didattica. In primo luogo, per il coinvolgimento di parecchi allievi – ex e non – di Kaučič, usciti dalla scuola Zvočni Izviri (sorgente sonora) da lui diretta a Nova Gorica. In secondo luogo, per il proverbiale svolgimento di un seminario-laboratorio, quest’anno affidato a Mats Gustafsson.
Tra gli eventi collaterali, da segnalare il rapporto tra poesia e musica, con i contributi di Nazim Comunale e Vida Mokrin Pauer: il primo affiancato da Flavio Zanuttini (tromba ed elettronica); la seconda sostenuta dal chitarrista Aleksander Arsov. Simpaticamente fuori tema la performance di Francis I., il trombettista Francesco Ivone improvvisatosi DJ e rapper. Per ultima, ma non ultima, la mostra fotografica di Igor Petaros, splendida rassegna di ritratti di musicisti, ospitata all’interno del Memoriale Gradnik Zorzut e seguita da tre brevi improvvisazioni del flautista Massimo De Mattia.
Vale la pena di spendere alcune parole per un musicista sottovalutato come De Mattia, flautista dalla tecnica sopraffina, che ha saputo sviluppare alcune influenze giovanili (Ian Anderson, Roland Kirk, Eric Dolphy) per dar vita a uno stile rigorosamente espressionista, fonte di improvvisazioni spartane nel disegno ma succose nella sostanza, e di una varietà timbrica arricchita da suoni frullati e stoppati nell’imboccatura.

Il duo Drasler – Marshall, foto di Igor Petaros

Quanto agli allievi di Kaučič, il percussionista Vid Drašler ha imbastito con la violoncellista inglese Hannah Marshall un dialogo fatto di dinamiche sottili, a tratti soffuse. L’esplorazione del suono avviene dunque quasi in punta di piedi. Mentre Drašler si sforza di produrre una gamma di colori senza però variare più di tanto le soluzioni (e denunciando così una certa qual influenza di Paul Lytton), Marshall opera su registri diversificati distorcendo il suono con l’arco, cambiando accordatura, alternando pizzicato e percussione su corde e cassa armonica.
Dal quartetto del bassista elettrico Timi Vremec si sprigiona energia pura. L’interazione con il chitarrista Aleš Valentinčič e il batterista Robi Erzetič produce passaggi su tempo libero, sussulti e singhiozzi ritmici che culminano nel fraseggio sanguigno, asciutto e denso al tempo stesso, del sax contralto di Clarissa Durizzotto, capace di librarsi, contorcersi e distendersi (senza peraltro offrire palesi riferimenti stilistici) al di sopra dell’infuocata materia predisposta dai tre giovanissimi colleghi. Altrettanto vigore e senso del blues scaturiscono dal suo approccio al clarinetto.

Timi Vremec Quartet, foto di Igor Petaros

Altro quartetto, ma del tutto desueto, quello presentato dal batterista Urban Kušar, che allinea infatti ben tre sassofonisti: l’esperto Cene Resnik (tenore) e i più giovani Jure Boršič e Tilen Lehar (alto). Un collettivo decisamente orientato verso una moderna interpretazione dell’estetica free, anche grazie alle figurazioni diversificate e al buon lavoro sulle dinamiche del batterista. Per parte loro, i sassofonisti si contrappongono in maniera dialettica, intrecciando, sovrapponendo e stratificando le rispettive voci. In quella di Resnik si colgono richiami al primo Shepp, a Sanders e, in minor misura, ad Ayler.

Urban Kusar Quartet, foto di Igor Petaros

La rassegna ha posto opportunamente l’accento sulla sperimentazione vocale. Le slovene Tea Vidmar e Irena Tomažin,  in un gioco incessante di rimandi e scambi di ruolo, generano una gamma impressionante di timbri: onomatopee, sibili, rantoli, soffi, cinguettii, sequenze ritmiche prodotte tramite labbra, denti e palato. Vi aggiungono rimandi al canto difonico e allusioni al folklore balcanico, sempre interagendo con lo spazio circostante.
Una simile ricerca sull’uso strumentale della voce viene condotta da Sofia Jernberg, svedese di origini etiopi, depositaria di un mirabolante potenziale di risorse espressive. Canti popolari riconducibili alle sue duplici radici, sequenze onomatopeiche, rantoli e richiami al canto difonico (influenza di Sainkho?), stridori e strutture ritmiche ottenute attraverso l’uso serrato del respiro compongono un universo arcano e affascinante, fornendo una varietà di soluzioni timbriche talvolta alternate anche nello sviluppo di uno stesso passaggio.
Nell’arduo cimento del solo la giovane sassofonista contralto Mette Rasmussen, danese ma da tempo residente in Norvegia, ha riversato con grande energia i tratti di una personalità ancora in divenire: una voce strumentale tersa e potente; un fraseggio riccamente articolato; schiocchi, colpi d’ancia e suoni stoppati; il respiro e la voce immessi nel corpo dello strumento privato del bocchino. Il trasporto e il furore espressivo non evitano il rischio del «già sentito», segnatamente riconducibile alla poetica del primo Braxton e degli improvvisatori europei degli anni Settanta.

Mette Rasmussen, foto do di Igor Petaros

Rasmussen ha espresso il meglio di sé nel trio allestito per l’occasione con Mats Gustafsson (sax baritono e flauto) e Zlatko Kaučič (batteria). Con timbro vibrante e sanguigno si contrappone alle possenti esplosioni, ai barriti e ai bordoni del baritono del collega svedese, costruendo anche figure geometriche che fanno da alveo agevole per dei crescendo articolati del collettivo. Per parte sua, Gustafsson esibisce una maggior varietà al flauto, con l’uso del soffiato e di inserti vocali, anche alterandone il suono con il bocchino del baritono. Quanto a Kaučič, opera sempre in funzione dialettica con grande gusto coloristico, catturando stimoli e segnali, e ritrasmettendoli prontamente.

Il trio Gustafsson-Rasmussen-Kaucic, foto di Igor Petaros

Protagonista nel recente passato di un duo proprio con Kaučič, la percussionista catalana Núria Andorrà si è prodotta in un solo, munita di un tamburo basso percosso ora a mani nude, ora con bacchettine usate come una sorta di Shanghai, sfregato con piatti e piattini, utilizzato per produrre giochi inusitati con ciotole e biglie. Un approccio che senz’altro rivela una radice classico-contemporanea e a tratti dà luogo ad effetti suggestivi, senza però sfuggire a una certa ripetitività.
Il duo composto dalla pianista austriaca Elisabeth Harnik e dal sassofonista (soprano e sopranino) finlandese Harri Sjöström ha confermato il notevole potenziale ancora insito nell’area dell’improvvisazione europea di matrice jazzistica. Pur restando in ambito atonale e ricorrendo di tanto in tanto all’alea pura, il loro dialogo prende gradualmente forma da frammenti spigolosi e da linee disarticolate, anche in virtù dell’efficace sostegno ritmico di Harnik. Il duo esplora un ampio spettro dinamico nel rispetto del rapporto con spazio e silenzio, osservando con rigore pause e intervalli, ricercando anche brandelli di una melodia spartana ma poetica al tempo stesso. L’analisi timbrica include interventi sulla cordiera del piano e l’applicazione da parte di Sjöström – sopranista sopraffino, dalla pronuncia sfaccettata – di una sordina mute alla campana dei propri strumenti.

Il duo Harnik-Sjostrom, fpto di Igor Petaros

A degna conclusione della rassegna, si è svolta come da tradizione l’esibizione dei partecipanti al workshop condotto da Mats Gustafsson. Sfruttando al meglio il contributo dei singoli, lo svedese ha effettuato una conduction dinamica e ricca di cambi di scenario, chiamando con una gestualità essenziale ed efficace gli interventi e le contrapposizioni delle sezioni, e sollecitando la costruzione di possenti crescendo e graduali diminuendo.

Mats Gustafsson, foto di Igor Petaros

Brda Contemporary Music Festival significa partecipazione e democrazia in musica, scambio di culture ed esperienze. Il curatore Kaučič dimostra come si possa realizzare un evento dedicato alla sperimentazione con pochi mezzi e molto coraggio. Caratteristiche ormai quasi del tutto assenti nella stragrande maggioranza dei festival italiani.
Enzo Boddi