Brad Mehldau plays the blues

Il pianista della Florida torna a pubblicare un album in solitudine per lo strumento acustico e si getta a capofitto nell’esplorazione del repertorio (spesso quello meno noto), dei Fab Four

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L’8 agosto del 1969, acclarato che il meteo garantiva buona luminosità e temperature calde di 85 Fahrenheit, Iain McMillan, d’accordo con l’amico John Lennon che lo aveva ingaggiato, saliva su una scala alta tre metri con l’idea di fotografare i Beatles per la copertina del loro nuovo album, davanti agli studi della EMI, destinati poi a diventare Abbey Road Studios. Avrebbero dovuto attraversare le strisce intorno alle 11.30 (orario che nessun fan avrebbe sospettato) avanti e indietro per tre volte. Ne nacquero sei scatti, uno dei quali sarebbe divenuto una delle icone figurative delle generazioni a venire, oltre che una delle copertine più indiscutibilmente storiche della musica del Novecento.

Nell’agosto dell’anno successivo, a Jacksonville in Florida, Annette e Craig Mehldau annunciano la nascita di Brad, che il destino avrebbe voluto musicista e pianista innovativo su scala mondiale e che, per cronologia, dei Beatles sarebbe stato edotto unicamente attraverso la radio e i dischi. E se, a cinquantaquattro anni di distanza dall’ultima registrazione dei FabFour, Brad è arrivato oggi a pubblicare «Your Mother Should Know» (Nonesuch) è perché fin da ragazzino quella musica l’ha ascoltata, evocata, studiata, assimilata in un frullatore dove faceva entrare con pari legittimità Bowie, Beethoven, Coltrane, i System Of A Down e il minimalismo contemporaneo. Ciò che resta, pur trasfigurato, in questo omaggio alla musica dei Beatles sono proprio le strisce in copertina, porzionate, scomposte e ricomposte perché il riferimento di partenza diventi evocazione correlativa: pianoforte, linee e labirinti in una specie di gioco ottico alla Escher.
Che l’album rechi l’impronta inequivocabile di Mehldau lo racconta la scelta dei pezzi, non esattamente tra i più noti della loro discografia, che il musicista studia nelle loro possibilità narrative non lasciando soluzioni definitive, disegnando piuttosto futuribili scenari esecutivi, accentuando gli elementi onirici della fase psichedelica e di avanguardia dei Beatles con suggestioni improvvisative che non mollano per un attimo la verità «nuda» di quei pezzi. L’album riconsegna così un nuovo colore ai semplici e complicati tasselli di un puzzle ancora da scrivere: un atto d’amore a quella musica, ma anche la definizione di un metodo d’approccio ai nuovi standard (considerato il fatto che dei brani dei Beatles sono stati fatti migliaia di arrangiamenti, più o meno sensati, per ogni classe di strumento). «Your Mother Should Know» diventa il campo di studio per valorizzare i movimenti armonici più eretici, gli accenni all’interpretazione swing dell’esecuzione melodica, gli spazi lasciati liberi all’estemporaneità dell’improvvisazione.

Niente di sorprendente per un pianista vulcanico e sfacciatamente eclettico, che in trent’anni d’attività ha al suo attivo oltre quaranta album come leader e un centinaio come sideman (si fa per dire), e che solo lo scorso anno ha pubblicato due lavori tanto notevoli quando diversi come «Jacob’s Ladder» (con incursioni nel prog e musica astratta contemporanea) e «Long Gone» (con lo scoppiettante quartetto storico di Redman, McBride e Blade, in lizza per i Grammy).

Brad Mehldau non è tipo che ami straordinariamente le interviste, che rilascia con una certa parsimonia, ma ama scrivere il poco che può esser detto oltre alla musica, redigendo personalmente le note di copertina. Non fa eccezione «Your Mother Should Know», dove illustra la sua storia sentimentale per i quattro di Liverpool, seminali – peraltro – per la definizione di quel pop-rock romantico che avrebbe trovato nei Queen e in David Bowie due vascelli d’elezione, tanto da chiudere l’album con Life On Mars, proprio per render fosforescenti connessioni ed eredità espressive (sincero tributo a Rick Wakeman incluso).

Brad Mehldau plays the Beatles

Brad, inevitabile partire con qualche domanda relativa a quest’ultimo lavoro sui Beatles, che sembrano davvero essere un serbatoio infinito di buone idee rivolte al futuro. Chissà se ne erano pienamente consapevoli … tu che li hai studiati in profondità, dove credi risieda la forza e la stranezza della loro musica?

Già, questa è una domanda senza fine, potrei farti una moltitudine di esempi. Credo che qualche volta abbia a che fare con il tipo di struttura armonica, come in I Am The Walrus, altre volte risieda nella lunghezza del fraseggio musicale, come in She Said, She Said. Altre volte ancora, anzi spesso, nel tipo di produzione e orchestrazione delle canzoni. La questione relativa a tutta questa «stranezza», come dici, è che nella loro musica c’è qualcosa che direi «universale», in particolare in quella scia di album dal 1965 al 1970, a partire da «Rubber Soul» fino ad «Abbey Road».

I Beatles hanno avuto l’opportunità di fare musica, ricorrendo alle più avanzate tecnologie del tempo. Quanto l’innovazione è in grado di influenzare la creatività?

Penso che questo costituisca gran parte del loro lascito musicale, e certamente ha condizionato anche gran parte della musica pop-rock negli anni successivi fino a oggi. Di questo possiamo anche ringraziare il «quinto Beatle», il produttore George Martin. Dischi come «Sgt. Pepper’s» o il «White Album» hanno spinto la musica dentro un nuovo territorio espressivo; può essere considerato come un ambito più epico, più cinematico, in generale più drammaturgico, come la lunga narrativa a flusso. Questo approccio ha influenzato un gran numero di artisti, molto diversi tra di loro, come David Bowie, i Supertramp o Billy Joel. Sono loro i primi artisti che ho ascoltato sulle radio pop quando ero un ragazzino, e si sono incardinati nella mia identità musicale. Non sapevo bene che tutto ciò provenisse dai Beatles: soltanto in seguito ho unito i puntini, ascoltando con maggior attenzione quella prima fonte. Lo stesso processo è avvenuto anni dopo con il jazz: prima ho ascoltato i gruppi fusion come i Weather Report, poi sono tornato indietro ad ascoltare i gruppi di Miles Davis che avevano portato a quella evoluzione.

I quattro di Liverpool hanno catturato ogni tipo di influenza culturale, non solo musicale, degli anni Sessanta e primi Settanta, che hanno frullato insieme in un modo impensabile: avanguardia, rock, pop, R&B e anche jazz («swingano in qualche modo», hai scritto, «interpretando in alcuni casi gli ottavi come puntati»). S’è trattato d’un miracolo, un’isola felice, o un artista ha il dovere di restare «sveglio» e provare a catturare gli echi della sua attualità, spingendoli dentro il futuro?

È molto interessante interrogarsi su ciò che i Beatles avrebbero fatto se fossero restati insieme, nonché cercare di immaginarselo. Tuttavia, possiamo intuire qualcosa considerando le direzioni intraprese nei loro album solisti: John è diventato più John, Paul è diventato più Paul e George (magnificamente) è diventato molto più George con «All Things Must Pass». Sulla questione che sollevi a proposito dello spingersi nel futuro, ecco, non so se qualche artista sia riuscito a sostenere tutto ciò per un lungo periodo, anche se parliamo di Beethoven o di Coltrane. È pur vero che i grandi di solito trovano un’identità che risuona nuova al mondo e poi filtra nel resto della loro opera.

Tre brani di «Your Mother Should Know» appartengono a «Revolver», due a «Magical Mystery Tour», due ad «Abbey Road». Questi album, lo hai già detto, contengono soluzioni musicali mai sentite, nelle quali le sperimentazioni psichedeliche hanno un ruolo chiave. Cosa ti piace in termini di suono e arrangiamento di quei lavori?

Mettici dentro anche «Sgt. Pepper’s»! Questi album hanno qualcosa dentro di onirico, vicino ad un sogno. Gli esempi più evidenti di questa propensione emotiva al «sogno» sono creazioni come A Day In The Life o, in modo ancora più strano, Revolution 9 dal «White Album». Questa tendenza al «sogno» è strana ma universale, perché credo che tutti abbiamo in qualche modo provato quella condizione, già quando eravamo bambini: la sospensione tra uno stato vigile e uno trasognato. Me ne sono accorto ascoltando quegli album insieme a tutta la mia famiglia, quando i miei figli erano piccoli. Sono stati catturati da quelle canzoni e anche un po’ spaventati allo stesso tempo, forse c’è dentro qualcosa che può ricordare un incubo. I miei figli erano sempre terrorizzati da Being For The Benefit Of Mr. Kite,che sembra davvero evocare le paure. Questa è la prova di quanto potente e strana sia la loro musica.

A questo proposito, tu hai scritto la bella Elegy For William Burroughs And Allen Ginsberg. Entrambi si complimentarono con i Beatles per «Revolver» (dichiararono che Eleanor Rigby era un buon esempio di poesia); erano parte entrambi di una generazione che utilizzava la droga come metodo di conoscenza delle pieghe profonde dell’anima. Era una necessità di trovare nuove forme espressive, nuovi paesaggi per arrivare a creare. Credi possa ancora essere un metodo compositivo valido per gli artisti?

Attualmente assistiamo a nuovo impulso nella ricerca sui farmaci allucinogeni come la psillocibina e valutare se essa possa contribuire ad aiutare malattie mentali come la depressione maggiore. Mi verrebbe da dire, basandomi sulla mia esperienza personale: sono certamente un modo per cercare parti più profonde dell’anima (e portare ad una più ampia coscienza di ciò che l’»anima» è, probabilmente), ma ho anche capito che non esiste una scorciatoia, un «tasto magico». Non esiste sostanza, pratica spirituale o altro capace di portarmi pace di per sé, una volta per tutte. Credo fermamente che abbiano dato valore a quell’esperienza e sono lieto di constatare che piano piano vengano meno stigmatizzati per questo.

Una volta hai detto: «I conservatori e i liberali nelle nostre democrazie passano un sacco di tempo a giudicarsi gli uni con gli altri, non c’è modo di saltar fuori da questo gioco perverso, se vuoi affermare il tuo punto di vista». Esiste qualcosa di simile nell’ambiente musicale o in esso trovi un modo per essere libero, conciliare le contraddizioni?

È divertente questo paragone che hai tirato fuori, in effetti è un qualcosa che vedo ovunque. La tradizione filosofica occidentale chiama tutto ciò «dialettica» o semplicemente «ironia», il modo in cui gli opposti dipendono gli uni dagli altri. Mi piace pensare a questo come a una non-differenziazione, seguendo una prospettiva più buddista. Come disse un grande maestro: «Il fiore di loto viene fuori dal fango»; non possiamo sfilarci dal gioco, ma abbiamo bisogno di trascendere da una prospettiva a senso unico. La stessa cosa si applica al discorso musicale. La consonanza dipende dalla dissonanza, la noia dipende dal silenzio, la melodia diventa armonia e l’armonia diventa melodia, la bellezza ha bisogno della bruttezza per affermarsi. Se mi ricordo di tutto ciò come musicista, ma anche come parte di un soggetto politico, come chiunque altro, allora non resto imprigionato in un punto di vista dogmatico e posso continuare a crescere e a imparare, nonostante certe cose possano venir fuori da qualcosa o qualcuno che trovo repellente.

Restiamo ancora per un attimo su temi affini, se non ti dispiace. La musica ha a che fare con la politica? In fondo, il tuo album «Finding Gabriel», uscito nel 2019, era una riflessione su questo, se non sbaglio.

Per come la vedo io, la musica è sempre un fatto politico, perché è condivisa dentro la «polis». Puoi indirizzare la politica dentro la tua musica in modo intenzionale, per esempio attraverso la protesta, ma più sottilmente, forse, è il modo in cui la musica viene creata che la fa di fatto passare dentro un contesto politico. Non avremmo l’eredità musicale che abbiamo se non ci fossero l’impostazione capitalistica e una struttura politica che facilita il processo. La musica è materia di scambio commerciale. Su «Finding Gabriel», hai ragione, è stato l’album più consapevolmente politico che io abbia mai fatto ed è abbastanza semplice capire, ascoltandolo, cosa io intenda per politica. Non sono ancora sicuro del fatto che il risultato possa suonare monodirezionale, nel senso che dicevo prima, facendo affidamento soprattutto su uno dei due poli di un dialogo. Forse però ha fatto quest’effetto su alcuni e non su altri.

Spostandoci di nuovo sul terreno più strettamente musicale, Wayne Shorter ha detto che la parola «jazz» si riferisce alla possibilità di non appartenere a nessuna categoria. Concordi? Sei un musicista che ha registrato album molto diversi tra loro, ma forse la matrice comune è proprio il jazz.

Ancora una volta, sono vere entrambe le posizioni. Ho registrato molti album (come gli ultimi «Jacob’s Ladder», «Finding Gabriel» e «Taming The Dragon») dove lascio all’ascoltatore la scelta: se lo vuole chiamare jazz, fantastico! Nessun problema. Se non lo vuole chiamare così, va benissimo lo stesso. Per me il jazz ha molto a che fare con la percezione dello swing e come declinazione del blues. È questa l’identità propria della tradizione afro- americana ed è con essa che io sono in debito. Ma certamente non tutto è jazz.

D’altronde l’improvvisazione è un’arte antica che appartiene anche alla musica classica occidentale (penso a Bach, Mozart, Beethoven, che pare fossero tutti eccellenti improvvisatori). Cos’è per te? Immagino ci sia dentro anche la sfida di saper raccontare una storia.

Se potessi tornare indietro nel tempo, mi piacerebbe moltissimo ascoltare le improvvisazioni dei compositori che hai citato. Certamente, per me, riguarda molto la capacità di costruire una narrazione. Tutti i più grandi improvvisatori del jazz vanno in questa direzione, Miles Davis ne è un esempio forte. Il rischio dell’operazione sta proprio nel diventare consapevole della storia che stai cercando di raccontare. È qui che nasce una specie di paradosso: da un lato ti trovi dentro un tipo di ispirazione momentanea, ma allo stesso tempo stai creando qualcosa che ha una continuità formale. La forma si dissolve nel contenuto e il contenuto si dissolve nella forma.

Ascoltando i tuoi lavori, mi sembra che una parte sia più dedicata a comprendere i diversi linguaggi nella storia della musica (i trii jazz, After Bach, Patrick Zimmerli e ora i Beatles) e in parte a crearne uno tuo proprio, che comprenda anche la storia (come «Elegiac Cycle», «Places» o «Finding Gabriel»). È importante per te tenere aperti questi due cantieri?

Intanto grazie! Penso che uno dei miei punti di forza come musicista stia nella capacità di assimilare diverse discipline e trovare la mia voce all’interno di esse. È una specie di sincretismo musicale, se vuoi. Una ragione che potrei addurre è che semplicemente amo moltissimo la musica: classica, pop, rock’n’roll, brasiliana, quella francese degli chansonniers e chiaramente il jazz. Tutto diventa una possibilità espressiva, in questo campo sono ancora come un adolescente. Mi mescolo con gli «snob del jazz» (qualcuno c’è, tra noi), ma mi piace anche confondermi tra i metallari o i Deadheads, i fan dei Grateful Dead.

Fino a un paio di decenni fa, tra jazz e classica c’era una specie di muro. Oggi ci sono molti musicisti, tu sei maestro in questo, che mostrano come Brahms, Chopin o Liszt fluiscano dentro il linguaggio jazz e viceversa. Come si è arrivati a questo risultato?

Faccio questo mestiere da trent’anni o qualcosa del genere, e ho notato che si è andata sviluppando una conversazione crescente e più fitta tra musicisti jazz e classici. Di fondo, entrambe le tribù stanno aprendo di più le orecchie reciprocamente e il risultato, di conseguenza, sta divenendo meno «tribale», il che è solo e soltanto una buona cosa! C’è maggior curiosità, merito soprattutto delle generazioni più giovani di musicisti.

Tu vivi tra Amsterdam e New York. Vedi differenze significative tra l’approccio alla produzione e all’esecuzione musicale tra Europa e Stati Uniti?

In realtà non trovo molto utile parlare in termini di confini di cultura europea. A cosa ci si dovrebbe riferire? L’Olanda è ben diversa dalla Francia, che è a sua volta diversa dall’Italia e dalla Spagna e così via. Ugualmente avviene in America: essere un musicista a New York è abbastanza diverso dall’esserlo a Los Angeles, e ancora di più se fai il mio mestiere in qualche città agricola del centro.

È difficile mescolare la ricerca di musica nuova con la scrittura di musica bella? Lo dico provocatoriamente, ma talvolta il senso melodico si perde a favore della sperimentazione per sé. Certo i Beatles, tanto per stare al tuo presente, hanno saputo trovare l’equilibrio giusto. Cosa non deve mancare a un insieme di note per poterle definire musica?

Può benissimo esistere una bellezza priva di significato, anzi di questi tempi ce n’è molta in giro. Per me, però, qualcosa diventa arte quando è in grado di esprimere bellezza e avere un suo «significato». Per significato, mi riferisco a quel tipo di narrazione di cui stavamo parlando poco fa. È qualcosa che possiamo tirar fuori da un «regno» astratto nel momento in cui si riflette in qualche modo nelle nostre vite. Per me esiste una terza componente nella grande musica e nella grande arte, una parola dal sapore antico: «sublime». Il sublime non si rapporta in sé con la bellezza, è qualcosa che dà voce alla nostra paura e al senso di riverenza, perché è più grande di noi. Ci fa percepire il nostro essere mortali. Lo posso sentire distintamente in Beethoven e Coltrane, ma puoi benissimo farne esperienza anche in una canzone come A Day In The Life dei Beatles.

Tu ti percepisci di più come pianista o musicista? Nel senso che il piano è uno strumento, un mezzo per creare?
Buona domanda. Però non ne sono sicuro. Da ragazzino mi innamorai di Sergej Rachmaninov, fantasticavo che mi sarebbe piaciuto diventare un pianista-compositore come lui, un vero virtuoso che avrebbe suonato in uno stato di grazia le sue belle e diabolicamente difficili composizioni. O qualcosa del genere.

Da poco mi è capitato di rivedere un film su Jaco Pastorius, nel quale usciva fuori il discorso – che riguarda tanti altri a partire da Charlie Parker – sul genio musicale e su come esso possa condurre alla solitudine e al disagio. Hai mai percepito su di te questo rischio?
Ma no, credo sia un luogo comune al quale non mi sento proprio di aderire. Tutti quanti soffriamo, e qualcuno soffre più di altri. Io ho fatto uso di droghe per un certo periodo della mia vita. C’è sempre una ragione che spinge qualcuno a decidere di infilarsi un ago nel braccio, e di sicuro non è perché costui sia un genio. È perché si porta addosso il peso di un trauma o di un dolore o di entrambi. Camionisti, farmacisti, avvocati… anche loro possono cadere nella dipendenza.

Cos’è il successo, nella tua esperienza? Una specie di gabbia o la chance di potersi prendere qualche rischio in più?
L’ultima che hai detto. La gabbia cui fai riferimento è quando qualcuno ha successo, ne diventa una specie di appendice e consente agli altri di stabilire che tipo di musicista sei. Io sto sempre molto attento a non cascarci.

Dovrei ringraziarti due volte, perché so che non ami molto le interviste. Conoscerai sicuramente la celebre battuta di Frank Zappa, per il quale «parlare di musica è come ballare di architettura». Secondo te, esiste un modo corretto di raccontare storie e biografie musicali?
Assolutamente sì! Credo che sia importante per la musica, innanzitutto. I giornalisti e i saggisti hanno bisogno di avere un bagaglio di immaginazione proprio come i musicisti. Quando accade qualcosa, hanno bisogno di trovare un modo nuovo per poterne scrivere, una specie di nuovo linguaggio. O, perlomeno, quelli bravi riescono a farlo. Richiede molta più immaginazione il saper spiegare perché una certa cosa è grande e nuova, piuttosto che scrivere perché una certa cosa è vecchia e stantia.

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