Il blues si è concretizzato nella sua forma definitiva nei due decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Alcuni musicologi hanno sottolineato come nel blues fossero presenti elementi – lo stile di canto, il ritmo – assenti nella musica rurale bianca degli Stati schiavisti e hanno tentato di risalire a possibili radici africane. L’obiezione più immediata è il quasi mezzo secolo che separa la nascita del blues dal momento in cui si interruppero i contatti diretti con l’Africa con gli ultimi arrivi di schiavi – peraltro illegali e non documentati – nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. I musicisti afroamericani di fine Ottocento erano nati o in stato di schiavitù oppure dopo l’emancipazione: perché avrebbero dovuto lasciare inespresso questo retaggio culturale e arrivare a usarlo solo alcuni decenni dopo?
Tutti coloro che hanno tentato di ricostruire l’evoluzione del blues risalendo alle sue radici hanno rischiato di giungere a conclusioni più suggestive che scientificamente valide dal punto di vista etnomusicologico. È evidente che, in mancanza di documentazioni, qualsiasi ipotesi rischia di risultare precostituita o pura speculazione intellettuale. Ma la storia degli afroamericani, le loro radici culturali, l’area geografica dalla quale proveniva la maggior parte degli schiavi, consentono di azzardare ipotesi che possono trovare riscontri storicamente e culturalmente giustificabili. Volendo cercare di mettere insieme tutti gli elementi che hanno portato alla nascita del blues si deve partire necessariamente dagli street singers, i musicisti itineranti che cominciarono a circolare per le strade delle cittadine del Sud dopo la Guerra civile.
La fine della schiavitù significò una massa di quattro milioni e mezzo circa di persone, improvvisamente libere, con immediati problemi di sopravvivenza e di lavoro, prima ancora che di inserimento nella società statunitense. Quelli che erano in grado di suonare uno strumento credettero di poter sbarcare il lunario esibendosi sulle strade. Le dimensioni del fenomeno non sono quantificabili ma gli etnomusicologi si sono posti un problema diverso: lo street singer potrebbe essere una figura ricollegabile alla tradizione africana del cantastorie ambulante, una tradizione tenuta in vita segretamente durante la schiavitù?
La mancanza di riscontri completi e dettagliati sulle attività degli schiavi nel tempo libero impedisce di dare una risposta certa. In ogni piantagione, la domenica, era permesso agli schiavi – pur con tutte le restrizioni imposte dai padroni – di impegnare più o meno liberamente il proprio tempo. Si può escludere che in tal modo possa essere stata tenuta in vita la tradizione africana del cantastorie? Una delle ipotesi è infatti quella che associa il bluesman al griot: un termine la cui origine non è chiara e che cominciò a essere usato in Africa nell’epoca coloniale per indicare colui che in lingua mandinka (1) è il jali (o jeli).
Personaggio caratteristico delle culture del Senegal e del Gambia, il griot è l’equivalente africano del bardo celtico-bretone. In un’area che non possedeva una tradizione di cultura scritta, il griot era un cantore, appartenente a una vera e propria casta, che tramandava oralmente le storie del proprio popolo e cantava gli elogi dei propri mecenati. Quindi un musicista itinerante, un cantante che si accompagnava con strumenti a corde, un improvvisatore di versi sui temi più vari, un autore-interprete di serenate. Un archetipo del bluesman?
«Facevo la corte a una ragazza di sani principi […] ero solito suonare di notte il mio banger (2) sotto la sua finestra, e cantare una canzone d’amore della Guinea che mia madre mi aveva insegnato» (3).
La figura e il repertorio tradizionale del griot sono tornati in auge nel corso degli anni Settanta del Novecento. La vera e propria rivoluzione culturale che aveva attraversato l’Africa Occidentale alla metà degli anni Sessanta, con un ritorno alla musica e alle tradizioni locali, ricevette un nuovo impulso con l’affermarsi, negli Stati Uniti, del Black Power (4). Nell’atmosfera di quegli anni, numerosi leader di quel movimento si recarono in Gambia, in Senegal o in Ghana, alla ricerca di legami con il proprio passato africano. Le conseguenze di questi contatti tra afroamericani e africani non si fecero attendere: i musicisti locali cominciarono ad abbandonare i repertori occidentali per andare alla riscoperta della propria musica, dei ritmi, degli strumenti, anche della lingua, che andò a sostituire il francese, lo spagnolo, il portoghese o l’inglese dei colonizzatori. Anche alcuni strumenti musicali caduti in disuso tornarono a nuova vita: tra di essi la kora – il liuto-arpa caratteristico dei griot – e lo xalam, il probabile antenato del banjo americano. La kora è uno strumento a corde originario della regione del Senegambia, ideato probabilmente dai mandingo e la cui diffusione è rimasta confinata a questa regione fino agli inizi del Novecento. La cassa è costituita da un grande calabash al quale è stata tagliata la parte superiore, sostituendola con una pelle di capra ben tesa, avente la funzione di piano armonico. Le ventuno corde sono divise in due sezioni disposte quasi parallelamente: dieci corde passano alla destra del ponte – che è posizionato sulla pelle – e undici sul lato sinistro.
Samuel Charters (5), nei primi anni Settanta, fece un viaggio in Africa Occidentale con l’intenzione di trovare documentazioni sulle radici del blues e, più in particolare, per effettuare ricerche e registrazioni sul campo dei griots dell’Africa Occidentale; ma la sua esperienza lo portò a descrivere con efficacia e maggiore respiro la cultura e la musica africane. È di rilievo una sua testimonianza su un possibile legame tra gli street singer/bluesmen afroamericani e i griots del Senegal e del Gambia: fin dal suo primo incontro con questi ultimi lo colpì una suggestione che individuerebbe nella figura del griot del Senegal e del Gambia un archetipo del bluesman: «All’inizio fui sorpreso per quanto poco la musica ricordasse il blues. L’accompagnamento con la kora non presentava accenti evidenti […] ma allo stesso tempo molta dell’atmosfera e dello stile aveva sfumature di qualcosa che avevo ascoltato in precedenza. Ebbi la strana sensazione di ascoltare uno dei primi bluesmen, solo che stava cantando un differente tipo di canzone. Il timbro della voce, l’andamento della melodia, la libertà del ritmo del canto, tutto sembrava direttamente collegato al blues […] sentii di avere fatto il primo passo verso una migliore comprensione del retroterra musicale che ero venuto a cercare in Africa» (6). Le documentazioni sugli street singers neri sono scarse, mentre sono accessibili dati sull’attività di coloro che riuscirono ad alternare la precarietà del musicista da strada con situazioni professionali, come il minstrel show, il medicine show o il black vaudeville.
Il minstrel show era uno spettacolo di improvvisazione teatrale su canovacci tradizionali, specie di varietà con caricature, imitazioni, satire, musica, danze, consistente nella rappresentazione dell’afroamericano e del suo ambiente visti dai bianchi. I minstrels, bianchi con il volto annerito con sughero bruciato, nelle loro esibizioni indirizzavano ai neri epiteti offensivi – nigger, buck, coon (7) – e li descrivevano come chiacchieroni, presuntuosi, disonesti, pigri, bugiardi. L’idioma musicale dei minstrels era più vicino alla ballata inglese, alla marcia e all’inno, piuttosto che alla musica nera. Il medicine show era uno spettacolo di strada itinerante che mescolava la reclamizzazione dei prodotti più vari – medicine per tutti i tipi di dolori e malattie, saponi speciali per curare affezioni della pelle ed eliminare la forfora, balsami per dolori ai piedi, ecc. – con il divertimento, la recitazione e la musica. La formazione minima comprendeva il Doc – un improbabile «dottore» –, un attore e almeno un musicista-cantante, ma poteva estendersi a band di quattro o cinque elementi. Quanto al black vaudeville, si trattava di uno spettacolo di varietà per il pubblico nero, evoluzione del minstrel show.
Dopo diversi decenni durante i quali, complice il minstrel show, per gli statunitensi era immediato associare gli afroamericani al banjo, fu la chitarra a diventare lo strumento degli street singers. La chitarra è stata accompagnata negli Stati Uniti, nel corso dell’Ottocento, da un crescendo di popolarità. Risale al 1820, con le richieste in costante aumento, la pubblicazione del primo manuale di istruzioni per lo strumento. Diversi liutai europei, in particolare tedeschi, scelsero di emigrare negli Stati Uniti, dove contribuirono in modo determinante alla nascita e allo sviluppo di una vera e propria industria. Gli ambiti musicali e le situazioni in cui la chitarra si impose furono i più diversi: la si poteva ascoltare nel back porch (8) di una casa di campagna; poteva essere inserita in una string band che forniva la musica di accompagnamento delle danze collettive; poteva essere suonata in strada da qualche street singer o anche in qualche bottega di barbiere: «Nei quartieri residenziali (uptown) di New Orleans molti chitarristi rurali avevano l’abitudine di venire in città e sedersi accanto o dentro le botteghe dei barbieri e suonare. Si sedevano e suonavano» (9).
I neri avevano più d’un motivo per abbandonare il banjo. Finché furono costretti in schiavitù nelle piantagioni dovettero fare i conti con la scarsità di strumenti musicali ma riuscirono comunque a realizzarne con materiale di fortuna. Pur con il limitato tempo libero a disposizione dopo il massacrante lavoro quotidiano, suonare il banjo rimaneva un legame con le proprie tradizioni musicali. Dopo la fine della schiavitù intervennero considerazioni di carattere pratico, come la scarsa reperibilità di banjo economici, perché nella seconda metà dell’Ottocento tali strumenti erano realizzati da liutai e indirizzati a un mercato di musicisti-concertisti bianchi. Il banjo si stava affrancando dall’eredità africana, tanto da essere considerato dagli statunitensi uno strumento nazionale e una delle loro più caratteristiche invenzioni musicali. Una posizione che, nonostante le ricerche portino in tutt’altra direzione, trova ancor oggi qualche sostenitore. Ma c’è un’altra ipotesi, di carattere psicologico, che motiva l’abbandono del banjo da parte dei neri: il rifiuto di identificarsi con l’immagine parodistica, caricaturale e offensiva, che il padrone bianco diffondeva attraverso il minstrel show.
Sta di fatto che verso la fine dell’Ottocento i musicisti afroamericani abbandonarono il banjo; il ragtime si strutturò sulle tastiere dei pianoforti; il jazz prese la voce degli strumenti a fiato delle brass bands di New Orleans; il blues vide nella chitarra il naturale accostamento alla voce umana. La sopravvivenza del fiddle e del banjo nelle mani degli afroamericani rimase legata all’attività dei pochi black minstrels e a quella amatoriale di gruppi locali, alle jug bands, ovvero a quelle black string bands che sono ancora materia di ricerca.
Con un coltello o un bottleneck si possono ottenere sulla chitarra glissati ed effetti che riproducono le modulazioni della voce. Le caratteristiche dello strumento, coniugate con le tecniche ideate dai bluesmen – bending, tapping, hammering – lo rendono particolarmente adatto ad accompagnare il canto, interagendo con la voce del cantante e dandole risalto. Uno strumento con il quale la voce umana si può fondere ovvero alternarsi come in un call and response, un prolungamento della voce, adatta per timbro e versatilità a sottolineare l’espressività del bluesman. La chitarra era diventata uno strumento molto diffuso ed economico; nell’ultima parte del secolo essa era disponibile a prezzi contenuti, grazie alle compagnie di vendita per corrispondenza – Sears & Roebuck su tutte – e abbastanza semplice da trovare di seconda mano. Uno strumento flessibile, dotato di sustain (10) e note basse, dal timbro decisamente più caldo del banjo. I bluesmen svilupparono uno stile chitarristico chiamato fingerpicking (divenuto poi uno standard ed eseguito ancor oggi), contrapposto al plectrum che imperversava nei decenni a cavallo del 1900 e prevedeva l’uso di un plettro impugnato con la mano destra. È probabile la derivazione del fingerpicking dallo stile pianistico ragtime: per riprodurne il caratteristico andamento ritmico, il pollice della mano destra esegue il cosiddetto «basso alternato», pizzicando alternativamente le tre corde più basse e fornendo un ritmo continuo e regolare sul quale si sovrappongono le note eseguite dalle altre dita della mano destra, che realizzano un complesso lavoro melodico-improvvisativo.
La tecnica esecutiva prevede generalmente l’uso di tre dita della mano destra – pollice, indice e medio – anche se c’erano molti chitarristi afroamericani che riuscivano a eseguire parti complesse usando soltanto pollice e indice, con risultati sorprendenti. Non è da escludere che fonti d’ispirazione possano essere state le tecniche dei musicisti del black minstrel show ovvero quelle sviluppate sul banjo a cinque corde da musicisti bianchi e neri che nell’ultimo decennio dell’Ottocento, usando parzialmente le tecniche della chitarra classica, definirono una vera scuola di banjo ragtime. Purtroppo le uniche registrazioni di questo repertorio a noi pervenute sono di due bianchi, Vess Osman e Fred Van Eps.
Una caratteristica dello stile di chitarra sviluppato dai bluesmen era quella di non limitarsi a usare lo strumento con la funzione di sostegno o accompagnamento della voce ma di interagire con essa, eseguendo spesso sia la linea melodica del brano sia il contrappunto alla voce. In pratica tra un verso e l’altro di ogni strofa la chitarra rispondeva al canto con fraseggi melodici cercando di riprodurre gli stessi abbellimenti della voce. Con la tecnica del bending – consistente nel «tirare» lateralmente una corda con un dito della mano sinistra, dopo averla pizzicata, alterandone in modo continuo l’altezza del suono – era possibile realizzare un glissato ascendente o discendente. Per realizzare glissati più estesi, tra note più lontane, con un effetto che meglio rendeva alcune caratteristiche della voce umana, gli afroamericani usavano la tecnica del bottleneck impugnando nella mano sinistra la lama di un coltello o infilando al dito anulare o mignolo della mano sinistra un collo di bottiglia, lasciando liberi indice e medio per realizzare note singole. Facendo scorrere uno di questi due oggetti sulle corde si possono ottenere glissati che sembrano gemiti o lamenti di una voce. Una tecnica che erroneamente W.C. Handy attribuì ai chitarristi hawaiiani. In realtà ci sono diverse testimonianze di una tecnica esecutiva degli schiavi consistente nel far scivolare oggetti di metallo o di legno, o piccole ossa di animali, sulle corde dei rozzi strumenti che riuscivano a costruirsi nelle piantagioni. Questo porterebbe alla conclusione di un’origine africana del bottleneck.
Nell’area del Delta era diffuso il diddley bow (11), a volte indicato anche come jitterbug. Si tratta di un cordofono primordiale, probabile derivazione dell’arco da caccia ancora in uso presso i boscimani dell’Africa nera, con una struttura simile alla cetra a una corda del Congo. Lo strumento può essere poggiato per terra o su qualsiasi oggetto possa avere la funzione di cassa di risonanza. Spesso viene suonato in due: uno percuote la corda con due bacchette, l’altro fa scorrere un oggetto di metallo o di altro materiale lungo la corda realizzando glissati. Questo strumento artigianale (ma con il quale era possibile riprodurre la complessità poliritmica della musica degli afroamericani) era alla portata anche dei bambini neri che su di esso potevano soddisfare la loro fame di musica.
In conclusione furono le tecniche sviluppate sulla chitarra, coniugate con la creatività dei bluesmen, a esaltare le possibilità di interazione con il canto, rispondendo alla voce e dandole risalto, sottolineando l’espressività dell’interprete.
Il successo della chitarra tra i bluesmen è sicuramente legato a tutte le considerazioni fatte, nonché alla sua maneggevolezza e trasportabilità; ma c’è anche una teoria freudiana che mette in evidenza come la forma dello strumento ricordi le forme di un corpo femminile, unitamente alla presenza di un manico «fallico». Tra il musicista e lo strumento si creerebbe un rapporto di simbiosi, con la chitarra che fa corpo con l’esecutore, il quale percepisce con immediatezza la risposta alle sue sollecitazioni. Lo stesso modo di imbracciarla e di maneggiarla ha suggerito conclusioni che confermerebbero tale teoria: «Il modo in cui oggi i chitarristi blues tengono la chitarra ha reso questo simbolismo ancora più esplicito. La chitarra viene poggiata sui fianchi, con il manico puntato in avanti, e maneggiata in modo masturbatorio; le corde vengono toccate, sfiorate e pizzicate in prossimità della buca come fossero le zone erogene di una donna, mentre lo strumento sprigiona suoni orgiastici […] i moderni chitarristi rock hanno reso manifesto il simbolismo erotico, un tempo sottinteso nei concerti di blues» (12).
In un catalogo del 1908 della Sears & Roebuck era inserito un modello che costava solo un dollaro e ottantanove centesimi contro i ventotto dollari e venticinque centesimi di quello più costoso. Nonostante tutto, c’era chi era costretto ad arrangiarsi su strumenti assolutamente artigianali, usando materiale di scarto: «Costruii la mia prima chitarra. La feci con una scatola da sigari e una bella tavola lunga di legno, e aveva cinque corde di metallo. Mi ci rovinavo le dita su quella chitarra. Questo successe quando ero solo un ragazzo di campagna» (13). Nell’area del Delta si diffuse l’abitudine di accordare la chitarra su un’altezza più bassa dello standard; è ipotizzabile che derivasse dalla consuetudine, rimasta in vigore fino a tutti gli anni Ottanta dell’Ottocento, di accordare il banjo un tono e mezzo sotto l’altezza attuale, quindi in La invece che in Do.
Paradossalmente molti bluesmen appresero le prime nozioni di musica suonando la chitarra per accompagnare i cori delle chiese. Son House, uno dei grandi bluesmen delle origini, dichiarò: «Allora non suonavo la chitarra. Ero soprattutto un uomo di chiesa. Ero stato educato in chiesa e non credevo in altro che nella chiesa, e mi straniva vedere un uomo suonare la chitarra e cantare quei blues. Non ero stato tirato su per quelle cose ma per cantare nei cori. Questo era quello che allora credevo» (14). Esisteva infatti un filone, una forma musicale nota come holy blues, il blues sacro, che ebbe il suo momento più alto con un altro grande chitarrista, Reverend Gary Davis. Nato in South Carolina, neanche dopo essere diventato un uomo di chiesa rinunciò alla carriera di chitarrista e cantante ma il suo interesse era per la musica sacra; quindi rifiutava di incidere blues dai contenuti profani. Elaborò una tecnica chitarristica che prevedeva l’uso dei soli pollice e indice della mano destra contribuendo alla nascita della grande scuola di fingerpicking statunitense. Gli stili chitarristici elaborati dagli afroamericani circolavano tra gli street singers e si diffondevano attraverso scambi casuali o per imitazione.
«Suono la chitarra da circa quarantacinque anni e cominciai da solo, ascoltando gli altri e imparando a orecchio. Ascoltavo la musica. Nessuno mi ha insegnato niente. Ho imparato da solo; non conoscevo le note, semplicemente suonavo a orecchio […] tutto il mio popolo è in grado di suonare qualche tipo di musica» (15).
«Arrivai in una cittadina chiamata Matson, poco più a sud di Clarksdale. Era un sabato sera e quei ragazzi erano seduti in piazza e suonavano. Bene, mi fermai, c’era una grande folla tutto attorno. Quel ragazzo, Winnie Wilson, aveva un affare sul dito che sembrava una di quelle boccette di medicine e lo faceva schizzare su e giù. Dissi: “Cristo! Che accidenti è quello con cui sta suonando?”. […] Così rimediai una vecchia bottiglia. Mi tagliai le dita un paio di volte cercando di mettere a punto qualcosa di simile a quello che avevo visto ma finalmente anch’io cominciai a imitare quel modo di suonare» (16).
Il blues era nato soprattutto come un modo per trasmettere esperienze ed emozioni condivise attraverso il canto ma la chitarra divenne un sostegno e un compendio fondamentale della voce. La scuola chitarristica del Delta del Mississippi si è espressa, a partire dagli anni Venti del Novecento, con musicisti che ancor oggi sono un riferimento per chiunque voglia avvicinarsi allo stile country blues: basti citare Charley Patton, Willie Brown, Eddie «Son» House, Robert Johnson, Skip James.
Mariano De Simone
note:
- Una delle tre lingue del Senegambia, parlata dall’etnia mandingo; le altre due etnie sono i wollof e i fula.
- Uno dei tanti nomi usati per individuare lo strumento a corde più usato dagli schiavi, l’antenato del banjo.
- Den J. Epstein, «African Music In British And French America», in The Musical Quarterly, n. 1, pp. 61-91 (cit. in Gerhard Kubik, Africa And The Blues, University Press of Mississippi, Jackson, 1999, p. 9). L’episodio descritto precede la Guerra d’indipendenza.
- «Potere nero», il movimento per la rivendicazione dei diritti degli afroamericani che raggiunse il culmine verso la fine degli anni Sessanta. Il nome fu coniato da Stokely Carmichael, presidente dello Student Non Violent Coordinating Committee (Sncc), durante la marcia dei neri statunitensi attraverso lo stato del Mississippi, nel 1966.
- Musicologo, autore di alcuni importanti saggi sulla musica afroamericana.
- Samuel Charters, The Roots Of The Blues – An African Search, Da Capo Press, Boston, 1981, p. 16.
- Nigger, «negro»; buck, che letteralmente indica il maschio di alcuni animali (caprone, cervo, daino, camoscio, ecc.), è un termine spregiativo per indicare un giovane nero; coon è un termine offensivo derivato forse da raccoon, il procione od orsetto lavatore.
- Il porticato-veranda posizionato sul retro delle case rurali.
- Paul Oliver, Conversation With The Blues (cit. in Tom & Mary Anne Evans, Guitars, From The Renaissance To The Rock, Paddington Press Ltd, New York & London, 1977, p. 287).
- Si ha quando la vibrazione di una corda pizzicata viene mantenuta a lungo.
- Strumento primordiale africano.
- Alan Lomax, The Land Where The Blues Began, The New Press, New York, 1993, p. 361; Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano, 1980, pp. 444-45.
- Robert Pete Williams (citato in Bruce Cook, Listen To The Blues, Londra, 1969, p. 299).
- Da un’intervista a Eddie «Son» House (cit. in Evans, op. cit., p. 293).
- Mance Lipscomb, nato nel 1896 a Navasota, Texas (cit. in Evans, op. cit., p. 291).
- Da un’intervista a Eddie «Son» House (cit. in Evans, op. cit., p. 293).