Darius Brubeck: il jazz contro le ingiustizie sociali

Parliamo con uno dei figli del celebre pianista e compositore, a sua volta vigorosamente impegnato nel mondo del jazz e attivo in diverse parti del mondo, dalla Turchia al Sudafrica

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Darius Brubeck, la sua missione era far capire al mondo l’importanza del jazz nel cambiare l’atteggiamento delle società. Tenendo conto dell’attuale situazione mondiale, pensa di esserci riuscito?

Non avevo un’ambizione mondiale così grande. La musica jazz era già identificata con la lotta politica in Sudafrica e i nostri gruppi musicali hanno continuato con questa intenzione. Quando sono stato in tournée in Polonia nel 2018 (60 anni dopo il famoso tour del classico Dave Brubeck Quartet dietro la cortina di ferro), ho appreso quanto fossero importanti quei concerti jazz per il popolo polacco politicamente oppresso. Un programma di Dave Brubeck del 1958 è esposto nella prima teca del Museo della Solidarietà di Stettino. Nel 1988, mia moglie Catherine e io portammo con noi la prima band studentesca multi-etnica al di fuori del Sudafrica; questa band, The Jazzanians, fece notizia sulle reti nazionali americane. Ci siamo impegnati a far seguire a questa iniziativa altre band studentesche che dimostrassero come poteva essere la società sudafricana.

Pensa che il jazz possa essere il linguaggio migliore per evitare l’apartheid e i comportamenti razzisti?

La libertà di espressione della musica jazz trasmette un messaggio di cooperazione, collaborazione e libertà. La sua natura improvvisativa incoraggia questo aspetto. Il jazz ha avuto un impatto profondo nelle società basate sull’ingiustizia sociale, a partire dall’America, e mi vengono in mente la Polonia e il Sudafrica. 

Nel 1983 lei ha fondato la prima università africana di jazz. Come è nata questa idea e come si è sviluppata?

Non ho fondato la prima università del jazz, ma ho avviato il primo corso di laurea in studi jazzistici presso l’allora Università del Natal a Durban, in Sudafrica. Il direttore del dipartimento di musica nel 1983, il professor Christopher Ballantine, conosceva mia moglie Catherine e mi incoraggiò a fare domanda per il posto disponibile di insegnante di teoria musicale, con l’intenzione di trasformarlo in un posto da jazzista. Molti dei più giovani jazzisti sudafricani si sono diplomati in questo programma e nel 1989 abbiamo creato il Centro per il jazz e la musica popolare, oggi noto a livello internazionale. 

Quali insegnamenti ha tratto dall’aver vissuto questa meravigliosa esperienza in Sudafrica?

A causa della politica sudafricana dell’apartheid (la spietata separazione dei diversi gruppi etnici), sono diventato molto più consapevole dal punto di vista politico e ho scoperto che le nostre band multi-etniche avevano più di un ruolo musicale. Ho imparato che le persone che resistono alle ingiustizie sono tra le più straordinarie del pianeta.

Come è nata l’idea di «Playing the Changes»?

Iola Brubeck, mia madre, ha conservato tutte le lettere, i programmi, le foto, i ritagli di giornale e i volantini che abbiamo inviato dal Sudafrica a Dave e Iola. Ogni volta che li vedevamo ci esortavano a scrivere un libro. Lei e mio padre trovavano le nostre storie avvincenti e si divertivano a conoscere i molti studenti che ospitavano. Divennero anche amici di Victor Ntoni, Barney Rachabane, Zim Ngqawana e molti altri, compresi i membri dei Jazzanians. L’ideazione ha preceduto di molto la stesura vera e propria, che è iniziata seriamente nel 2017, grazie a una generosa borsa di soggiorno dello STIAS (Stellenbosch Institute for Advanced Study). Entrambi abbiamo ricevuto questo premio due volte, il che significa che abbiamo dovuto giustificare il loro sostegno e dedicare tempo alla stesura di questo libro di ricordi. 

Posso immaginare che il nome e il lascito di suo padre siano particolarmente impegnativi. Lei ha sempre cercato di liberarsi da questa eredità. Può dirmi se ritiene di aver avuto successo?

Certo, non riuscirò mai a raggiungere quello che ha fatto mio padre, ma credo di aver avuto successo nel campo della formazione jazzistica, e ho anche un quartetto (The Darius Brubeck Quartet) che è insieme da 17 anni e suona in tutto il mondo. Attualmente è in corso un documentario intitolato Playing the Changes: Tracking Darius Brubeck in programmazione in numerosi festival cinematografici.

Che cosa ha tratto da suo padre? 

Entrambi i miei genitori erano intellettualmente impegnati in tutte le arti e credevano che essere un artista significasse anche riflettere e influenzare le questioni contemporanee. A livello puramente musicale, mio padre è la mia influenza numero uno ma ne ho molte altre, quindi la miscela di epoche e generi emerge in modo diverso nel mio modo di suonare e comporre. 

Per la sua famiglia la musica, e il jazz in particolare, è davvero una faccenda personale. Come il jazz ha formato lei in quanto persona e la sua famiglia come unità?

Credo che questo abbia tenuto unita la famiglia. Siamo tutti rivolti nella stessa direzione e non dobbiamo dare spiegazioni l’uno all’altro. A luglio 2024 ho suonato di nuovo con i miei fratelli e il nostro primo disco insieme è stato fatto cinquant’anni fa. Abbiamo tutti vite diverse, viviamo in tre Paesi diversi e abbiamo carriere esterne, ma il «business» di famiglia è un punto focale, quasi come una casa fisica cui torniamo sempre.

In che modo ritiene che la sua identità influenzi concretamente la sua creatività?

Intende il mio nome, il mio patrimonio artistico? Direi che stabilisce uno standard. Voglio sempre che il mio lavoro sia visto come coerente con l’integrità del nome Brubeck.  

Darius, il jazz si è evoluto. Oggi utilizza l’elettronica, si è fuso con altri linguaggi musicali. Pensa che questa evoluzione sia positiva oppure no?

Ogni volta che mi sento un po’ sospettoso nei confronti del cambiamento, mi ricordo che decenni fa suonavo i sintetizzatori, sperimentavo il free jazz e combinavo elementi di musica classica indiana nel mio jazz. Ogni generazione cerca di rinnovarsi in vari modi. Non importa se mi piace o no quel che ascolto, e non è mio compito cercare di raggiungere e copiare le ultime tendenze. Il jazz è sempre stato un glorioso ibrido di stili musicali; fa parte della cultura globale e per questo non morirà mai. 

Lei ha vissuto in Turchia. Cosa ha imparato dal periodo trascorso in Turchia e dalle tournée con suo padre?

Ho ottenuto un incarico di insegnamento Fulbright in Turchia presso la Yildiz Technical University e ho trovato gli studenti molto sensibili al jazz. Mi è piaciuto anche immergermi nella musica tradizionale turca. La celebre composizione di mio padre, Blue Rondo à la Turk, dimostra una fusione tra jazz occidentale e ritmi orientali, ed è stata scritta dopo il tour del Dave Brubeck Quartet nel 1958. Questo accadeva molto prima che la «World Music» fosse una categoria definita.

Quali sono le sue aspirazioni come musicista ed educatore di jazz?

Suonare sempre meglio. Vorrei avere il tempo di comporre più musica. Anche se non sono più un insegnante all’interno di un’istituzione, partecipo a conferenze sul jazz e vorrei scrivere più articoli sulla musica e sulla sua storia.

Da dove nasce per lei l’impulso a creare qualcosa? Derek Bailey ha definito l’improvvisazione come la ricerca di materiali trasformabili all’infinito. Nel 2024, quali materiali sono particolarmente trasformabili e stimolanti per lei?

Mi piace la tua citazione di Derek Bailey, ma direi quasi il contrario: La ricerca inizia con un «materiale trasformabile all’infinito» come il blues, per esempio. L’improvvisazione fornisce una trasformazione infinita nel corso di infinite versioni. Non c’è nulla di particolare in 2024 che abbia influenzato la mia musica. L’impulso viene dall’amore di farlo, dall’essere stimolato da un’idea, un’immagine, un’emozione, persino da un lick, e da lì partire. 

Quali sono, secondo lei, le idee chiave del suo approccio alla musica?

Raccontare storie, evocare significati e sentimenti al di là della musica stessa è sempre stata una parte del mio approccio. Niente di ciò che faccio è puro in senso musicale, si tratta sempre di qualcosa di contaminato. Alcuni musicisti non parlano del significato della loro musica, e lo capisco, ma io voglio che la mia significhi qualcosa e devo essere chiaro su questo quando suono e compongo. 

Cosa c’è all’orizzonte per il Brubeck Institute e per la sua carriera che la maggior parte delle persone non conosce?

Il Brubeck Institute è diventato la Brubeck Living Legacy, un’organizzazione no-profit che sponsorizza ogni anno il Brubeck Jazz Summit al lago Tahoe in Nevada, ha assegnato borse di studio a studenti meritevoli attraverso il JEN (Jazz Education Network) e a breve assegnerà un premio a uno studente della Royal Academy of Music di Londra. Questo premio consentirà al vincitore di incidere un disco di debutto co l’etichetta Ubuntu Music. La Legacy ha anche aiutato i musicisti sudafricani a recarsi a New York per esibirsi al Jazz at Lincoln Center e altrove.

 

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