VIII Open Music Festival

Movimenti sismici

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Forlì, Sala Sangiorgi-Fondazione Masini

Ravaldino in Monte, Area Sismica

2-3 novembre

Inserita nel quadro della feconda attività dell’associazione Area Sismica, l’ottava edizione di Open Music Festival ha confermato l’approccio trasversale di una programmazione sempre e comunque tesa ad indagare e documentare i vari percorsi della ricerca nell’ambito di una contemporaneità intesa in senso lato.

Preceduta, come d’abitudine, da attività didattiche e dall’interessante conferenza di Ashley Kahn The House That Trane Built – Storia dell’Impulse Records, l’esibizione pianistica di Fabrizio Ottaviucci – svoltasi nella Sala Sangiorgi della Fondazione Masini – ha richiamato l’attenzione sulla poetica di Morton Feldman. I 25 minuti di Palais de Mari costituiscono una probante dimostrazione della concezione spazio-temporale applicata dal compositore americano. Nel suo approccio prevalgono la durata e la dilatazione del suono con cui le singole cellule (come tessere di un mosaico) vengono dosate e distillate; gli intervalli e il rapporto con il silenzio, interlocutore prezioso. Una dimensione che altera e trasforma la percezione del tempo e della forma. Su questo processo influiscono ovviamente anche altezze e dinamiche, fondamentali per la concatenazione e l’assemblaggio dei singoli frammenti. Tutti fattori, questi, che richiedono all’esecutore il massimo grado di concentrazione e autodisciplina, caratteristiche evidenti nella magistrale prova di Ottaviucci.

Fabrizio Ottaviucci

Il nucleo della manifestazione si è sviluppato, come tradizione, nella sede di Area Sismica. Con Michele Rabbia la percussione individua un’estensione possibile nell’elettronica. Ciotole armoniche tibetane, un archetto sfregato sul bordo di un piatto, un tom percosso a mani nude – filtrati elettronicamente – assumono nuove sembianze in una sorta di mutazione genetica. Anche il respiro, sottoposto allo stesso trattamento, sembra espandersi in un soffio vitale. Percussionista creativo e immaginifico, capace di ricavare colori e musicalità anche da oggetti di uso comune, Rabbia sta esplorando (non senza rischi) un nuovo territorio che lo sta spingendo verso frontiere paragonabili, fatte le debite differenze, alla ricerca a suo tempo compiuta da Bruno Maderna e Luigi Nono.

Michele Rabbia

Genera è un trio composto da Luca Venitucci (piano), Dario Miranda (contrabbasso) ed Ermanno Baron (batteria), capaci di spingere il piano trio ben oltre le impostazioni, ormai codificate, che avevano caratterizzato questa formazione nella storia del jazz. Gli arpeggi stranianti del piano (che a tratti possono richiamare vagamente il Keith Jarrett di «Mourning of a Star» e «El Juicio»), le sue efficaci deviazioni e gli sconfinamenti in aree atonali, sostenuti da un’esplorazione timbrica cui contribuiscono la melodica e l’elettronica, sollecitano un’efficace interazione con gli intraprendenti colleghi, pronti a costruire possenti pedali e argute frammentazioni ritmiche. Ne scaturiscono potenti crescendo che, pur addentrandosi nei meandri della libera improvvisazione, mantengono unità e – tra le righe – anche un certo qual asciutto lirismo.

TellKujira è un anomalo quartetto formato da Stefano Calderano e Francesco Diodati (chitarre), Francesco Guerri (violoncello) e Ambra Chiara Michelangeli (viola), a cui si è aggiunto Marco Fiorini, specialista di elettronica proveniente dall’Ircam di Parigi. Con la loro varietà timbrica (Diodati impiega anche un arco), le chitarre creano insieme alla viola bordoni e tappeti sonori su cui fluttua il pizzicato del violoncello, in un accurato sviluppo provvisto di ampio respiro e di valenze melodiche. In altri frangenti la prevalenza dell’elettronica tende ad addensare e uniformare gli impasti sonori, dando luogo a lente sequenze e progressioni estenuanti, a tratti ossessive. Da un lato, questo ensemble conduce una ricerca sonora non priva di motivi di interesse; dall’altro, la proposta sembra necessitare di ulteriori messe a punto.

TellKujira

Allievo di Fernando Grillo, morto suicida nel 2013 a 68 anni, il contrabbassista Enrico Francioni si è cimentato in una solo performance suddivisa in tre atti, non solo per omaggiare, ma soprattutto per documentare l’eredità del proprio maestro e amico, apprezzato da Luciano Berio, Yannis Xenakis, Harrison Birtwistle e Salvatore Sciarrino, e definito da Karlheinz Stockhausen (dopo averlo ascoltato a Darmstadt) «Il Buddha del contrabbasso». Colpisce la ricchezza timbrica che Francioni ottiene operando in varie zone della tastiera con l’archetto, producendo potenti glissando o agendo anche al di sotto del ponticello. Nella sua Zauberspiegel Francioni utilizza il solo archetto per generare un flusso omogeneo denso di asciutti risvolti melodici. Infine, adagiato lo strumento sul pavimento nella preparazione del terzo episodio, Francioni imbraccia due archetti facendoli stridere in orizzontale e in verticale anche al di sotto delle corde, incrociandoli e caricando l’esecuzione di una drammatica gestualità.

Enrico Francioni

Seven Dances è il titolo del programma presentato da Eugenio Colombo (sax alto e soprano, flauto) in duo con Roberto Bartoli (contrabbasso), Le composizioni di Colombo attingono ad alcuni dei suoi principali riferimenti: il retroterra popolare, la musica rinascimentale, echi del patrimonio ebraico, le passate esperienze sulla scena free degli anni Settanta. Il duo interagisce con mirabile equilibrio e senso compiuto della forma. Indipendentemente dallo strumento impiegato, Colombo esibisce un controllo invidiabile del suono, un fraseggio limpido e un’esemplare applicazione di tecniche quali la respirazione circolare, i suoni stoppati nell’ancia (slap tongue) e suoni frullati, soprattutto al flauto. Bartoli lo coadiuva sviluppando una dialettica serrata con grande padronanza del suono e delle dinamiche, un pizzicato corposo e avvolgente, linee fluide e agili, un magistrale uso dell’arco. Nel finale affiora una versione struggente di Saint James Infirmary: qui il retroterra blues – attraverso un canto accorato – viene proiettato in una progressione nella quale Colombo utilizza contemporaneamente alto e soprano in un’affascinante combinazione timbrica.

Roberto Bartoli ed Eugenio Colombo

Il Chris Pitsiokos Ensemble allinea il leader al sax alto e all’armonica, Tizia Zimmermann alla fisarmonica, Quentin Tolimieri al sintetizzatore, Antti Virtaranta al contrabbasso e Luca Marini alla batteria. A una fase iniziale contraddistinta dalle frasi segmentate del sax alto fa seguito un clima sospeso alimentato dalle fasce sonore fisse e ricorrenti prodotte dal sintetizzatore, dalla fisarmonica e dal basso con arco, sulle quali via via si innestano altre frasi secche e prolungate di Pitsiokos. Qui il ruolo della batteria è essenziale, a tratti fin troppo, limitato com’è a punteggiature scarne. Dalla ripetizione di questo procedimento e in particolare dall’azione congiunta di Tolimieri, Zimmermann e Virtaranta, scaturisce una materia ipnotica, statica, fredda, che si replica all’infinito, attraversata solo da brevi inserti dell’armonica. A quel punto è lecito interrogarsi sui reali obiettivi del leader: poetica della sottrazione o intenzione di adagiarsi sui lidi sicuri dell’elettronica?

Per sua stessa definizione, Area Sismica è sinonimo di movimenti e sommovimenti che animano e, in qualche misura, destabilizzano la scena contemporanea. Questa ottava edizione di Open Music lo ha pienamente e opportunamente confermato.

 

Enzo Boddi                                           Foto di Luciano Rossetti

 

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