Un’intervista a Anthony Braxton

Dopo moltissimi anni torniamo a dare la copertina di Musica Jazz al multiforme artista di Chicago, che ha sempre moltissime cose da dire e lo dimostra anche in questa lunga intervista

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Tra le figure di importanza cruciale nel jazz, da più di cinquant’anni a questa parte, quella di Anthony Braxton occupa un posto tutto suo: una zona speciale nella quale si entra a tentoni, a volte intimiditi e con la precisa sensazione di essere seguiti da un consistente manipolo di devoti, molti errabondi, perplessi ma rispettosi, e una schiera tumultuosa di penitenti, spesso animati da conflitti e giudizi perentori. L’unica verità di cui siamo sicuri, a costo di essere sommariamente processati, e che di Braxton non si può fare a meno. Non ne può fare a meno la storia del jazz contemporaneo né la storia della musica cosiddetta – e qui davvero mi si perdoni il termine – d’avanguardia. Volendo a tutti i costi raffigurare questo vocabolo tanto abusato, potremmo rappresentarlo come un dedalo intricato, ma con vie d’uscita spettacolari e vicoli ciechi improvvisi. In quel maze di suoni – come direbbero gli americani – troviamo altri personaggi importanti, che della loro singolarità hanno fatto stile di vita, arte affascinante: Ornette Coleman, Thelonious Monk, Herbie Nichols, Cecil Taylor, Roscoe Mitchell, Henry Threadgill e pochi altri. È vero che questi signori hanno avuto tanti proseliti, ma nessuno è mai riuscito ad avvicinarne l’unicità, la tenebrosa originalità. Copiarla sì, certo, divulgarla a iosa, sicuro, però identificarsi totalmente con essa quasi mai. Perché? Per il semplice fatto che le forme d’arte musicale espresse da quei geni rappresentano non solo una lacerante ricerca interiore ma anche uno stile di vita, e con esso tutte le conseguenti esperienze raccolte strada facendo. Uniche, dunque, perché vissute in modo del tutto speciale. Tant’è vero che a suo tempo alcuni dicevano che Ornette Coleman starnazzava e produceva caos, Thelonious Monk poteva fare sì bella musica, ma non sapeva suonare il pianoforte, e via di seguito. Giudizi che visti con lo sguardo di oggi appaiono quantomeno imbarazzanti. Di quel gruppo di esploratori fa parte dunque Anthony Braxton, nel bene e nel male. Così si porta dietro i suoi acerrimi detrattori, quelli che dicono che non fa jazz e non ha swing, e anche gli ammiratori altrettanto indefessi, che vogliono a tutti i costi chiudere occhi e orecchie di fronte ad alcune sue cadute di tono artistico. Nessuno è esente da periodi vuoti e da scommesse sbagliate, e in questo Braxton non fa eccezione, ma nei grandi artisti, come diceva un grande improviser come Totò, è la somma che fa il totale. E nel caso del nostro sassofonista e compositore, per fare il totale ci vuole e ci vorrà una somma lunghissima. Non credo che ci sia oggi un esempio simile di musicista altrettanto prolifico come compositore e strumentista: da «3 Compositions of New Jazz» del 1968 (con dei bravi «compagni di avventura» quali Muhal Richard Abrams, Leroy Jenkins e Leo Smith – non ancora Wadada) ai più recenti «Quartet (standards) 2020» (un box monstre di 13 cd ormai solo in digitale, con i British boys Alexander Hawkins, Neil Charles e Stephen Davis) e il Blu-ray «12 Comp (Zim) 2017» (che contiene in un solo disco ben 11 ore di musica divise in 12 composizioni in sestetto, settetto e nonetto) siamo a più di 200 album da leader, senza considerare le varie collaborazioni. Ma il conto è senza dubbio calcolato per difetto, e del resto siamo ancora in pieno periodo creativo: Braxton compirà settantasette anni a maggio e non ha la minima intenzione di fermarsi. Il numero delle sue composizioni, per sua stessa ammissione, arriva oggi a 470. Da qualche anno vive in ritiro nel Connecticut, in un luogo nei sobborghi di New Haven, ma non rinuncia a comporre, incidere e girare per il mondo per i suoi concerti. Avendo avuto la fortuna di poterlo ascoltare dal vivo in varie occasioni e fasi della sua lunga carriera, dai concerti in solitudine dei primi anni Settanta al gruppo Circle con Chick Corea, o al suo quartetto con Kenny Wheeler e Dave Holland, fino alle esibizioni per largo organico a New York di pochi anni fa, la sua musica, per complessa che sia, figlia dei tempi esaltanti dell’AACM di Chicago, e poi maturata con Stockhausen, Dave Brubeck e Paul Desmond, infine rievocante il sempiterno Charlie Parker e persino Paul Beaver, l’amato John Philip Sousa o – perché no? – Dimitri Tiomkin e Paul Simon, mi è sempre apparsa necessaria, anche quando si sentiva in quei complessi intrecci sonori l’indulgenza, la retorica, l’eccesso, perché il tutto era comunque ricondotto a una logica ferrea, a volte spietata, sempre lucida. I percorsi creativi di Braxton sono pieni di contraddizioni, di deviazioni, a volte ripensamenti, detour che lo rendono ancora più affascinante come autore. Il suo modo d’essere è in costante movimento, non si placa mai e spesso lascia segni incontrovertibili del genio. Seguendo quelle stesse strade labirintiche, allora, si arriva persino a interrogare sé stessi sul significato medesimo della musica, su cosa può produrre nel nostro cervello e nel nostro animo, sul fatto che le barriere fra i generi sono solo precostituite, sulla memoria e sulle possibilità future. E senza esitazione possiamo ammettere che questi stessi interrogativi sono quelli di Anthony Braxton, che ormai vede la sua arte come l’unico modo di dare una sistemazione al caos, assieme agli amati studi sulla filosofia antica. Un obiettivo esagerato? Ne riparleremo tra duecento anni: intanto sentiamo dalla sua viva voce ciò che ha avuto in animo di dirci a proposito, con solo una nota aggiuntiva: nelle sue spiegazioni di metodi compositivi e teorie filosofiche Braxton fa spesso uso di una terminologia esoterica, ricorrendo a immagini simboliche difficili da capire per chi non è addentro a quel tipo di studi. Perciò invito chiunque avesse voglia di informarsi in modo approfondito a fare semplici ricerche su internet, che in molti casi possono fornire chiare delucidazioni. A chi è già dentro quegli argomenti o ai musicisti che volessero capire di più i suoi metodi consiglio di leggere – per quanto assai complessi – i testi scritti dallo stesso Braxton, che possono essere trovati nel sito web della fondazione da lui creata, la Tri-centric (tricentricfoundation.org) .

Vogliamo andare indietro e in avanti con gli anni nel parlare del suo percorso d’artista? Ci può raccontare dell’AACM di Chicago, quel crogiolo importante di musicisti di cui faceva parte fin dagli anni Sessanta?
Ho sempre amato Chicago, la città dove sono nato, per varie ragioni: prima di tutto sono cresciuto in una famiglia che era bella ma anche molto complessa, però fin da ragazzo ho capito che c’era molto di più da scoprire nella vita di quanto ce ne fosse nella mia famiglia e nella città stessa. Quindi già a diciassette anni sono entrato a far parte dell’esercito, dove sono rimasto per tre anni, e così ho avuto la possibilità di viaggiare, di vedere altre nazioni, per esempio la Corea del Sud: lì ho avuto delle esperienze molto importanti. Dopo quegli anni dell’esercito sono tornato a Chicago, giusto in tempo per entrare nell’AACM, che in quel periodo si stava formando. Questo passaggio è stato cruciale nella mia vita perché mi ha fatto comprendere che non mi trovavo in solitudine dentro quella musica che mi attraeva così tanto. Di colpo ho capito che avevo una nuova famiglia, composta da uomini e donne che erano interessati alle stesse cose che piacevano a me. Quindi per due o tre anni sono rimasto nell’AACM: la cosa avvenne praticamente subito dopo il mio ritorno a Chicago. Fu mio cugino a dirmi che c’era un gruppo di musicisti che si era formato da poco e che questi praticavano la stessa musica che io amavo. Così scoprii che un altro giovane amico che avevo conosciuto ancora prima di entrare nell’esercito, al Wilson Junior College, faceva già parte dell’AACM: si chiamava Roscoe Mitchell. Devo aggiungere che io mi sono sempre sentito al di fuori della comunità cosiddetta «normale»: fin da ragazzo non sono mai stato uno a cui piacevano le riunioni, i party fra amici. Ero un introverso, totalmente immerso nella musica e nelle scienze, ma allo stesso tempo cercavo qualcosa fuori che mi corrispondesse, che facesse parte di me, oltre che rimanere sempre isolato. La comunità dell’AACM era, dunque, il luogo adatto non solo per farmi evolvere come musicista, ma anche come persona, dal punto di vista psicologico: finalmente avevo trovato dei colleghi che mi erano simili, che non pensavano che fossi matto! Per esempio eravamo tutti esaltati dalla musica di John Coltrane, di Cecil Taylor o Bill Dixon.

Prima della svolta importante dell’AACM, riusciva a esibirsi dal vivo, fare concerti?
Sì, mentre stavo imparando a suonare il bebop. Ho cominciato a studiare il sax a tredici anni, il mio maestro si chiamava Jack Gell e già a quell’età ero in contatto con un altro ragazzo alle prime armi: Henry Threadgill. Devo dire che ero e sono tuttora un entusiasta del bebop. La mia musica non ha mai rappresentato un rifiuto della tradizione. Comunque man mano che andavo avanti nelle frequentazioni con gli altri musicisti che condividevano le mie idee, sentivo che i nostri interessi erano focalizzati su quella che noi chiamavamo «musica creativa», all’inizio definita complessivamente «free jazz». Più tardi capii che non ero affatto interessato al free jazz, così com’era considerato negli anni Sessanta. Sì, mi piaceva molto Albert Ayler, del quale avevo tutti i dischi, ma anche Karlheinz Stockhausen e John Cage, musicisti fondamentali per la mia formazione. In pratica cercavo di raccogliere tutto ciò dentro di me, in un’unica consapevolezza, e restituirlo senza etichette: non mi interessava essere considerato un jazzista o un compositore di classica, oppure se vuoi come un musicista d’avanguardia in opposizione a un tradizionalista, ma volevo radunare tutte queste esperienze assieme. Il passo successivo fu quello di costruire un modello compositivo utile per sviluppare la mia musica, e se vogliamo anche me stesso come uomo. Questo modello l’ho poi chiamato «Tri-Centric Thought Unit Construct», come un modo di vedere assieme passato, presente e futuro, oppure i vari concetti logici di spazio nella Casa del Cerchio, oppure ancora il rettangolo come Casa dell’Identità. Un modo, infine, per creare blocchi unitari necessari per formare i modelli. La Casa del Triangolo, ad esempio, che è narrativa, logica, di sintesi. Sono modelli, questi, che si evolvono in forme musicali.

Il triangolo è notoriamente un simbolo mistico, spirituale, fin dai tempi antichi.
Esatto. La trasposizione della Casa del Triangolo dà inizio alla narrazione per evolversi infine verso una migliore comprensione dello spiritualismo. Ciò era strettamente legato alle esperienze che avevo da giovane: allora ero cristiano, chiesa battista, più in là cattolico, ateo, buddista zen, studioso di scientology, ma non ero ancora riuscito a trovare ciò che cercavo. Più tardi ancora sono arrivato allo studio del Sistema Misterico Egiziano, dove ho trovato risposte importanti in relazione agli archeologi e agli antropologi che hanno saputo definire modelli antichi nelle loro ricerche. Questi modelli egiziani comprendevano anche quelli europei, ma nell’Ottocento in Europa i modelli si svilupparono nei cosiddetti «modelli ariani» che respinsero quelli antichi. Io ho rispetto verso ciò che si evolve e si muove in avanti, ma per quel che riguarda il mio lavoro di musicista si basa sui modelli antichi, perché racchiudono tutto e tutti.

Ciò mi fa venire in mente Platone, in particolare il suo Timeo, che è un dialogo fondamentale in quel senso. Lo ha letto?
Ho studiato il Timeo! Platone è per me molto importante. Ma vorrei dire anche questo: non ho altro che amore verso certi geni che sono stati capaci di mettere insieme i concetti ellenistici che in seguito hanno costituito le fondamenta di ciò che chiamiamo Civiltà Occidentale. Aggiungo che fu Alessandro il Grande a volere la costruzione della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, immaginata da Aristotele, il quale ovviamente era il suo mentore: da ciò ho dedotto, nei miei studi di filosofia antica greca, che molto di quella sapienza deriva dal Sistema Misterico Egiziano e persino dal Sistema Persiano. Il punto centrale è questo: quando penso all’evoluzione che si è avuta fino al tempo presente, la vedo come lo sviluppo di filosofie composte di diverse culture umanitarie, siano esse relative ai Misteri di origine asiatica, africana o europea. Ogni aspetto di queste culture ha contribuito a definire le cause e le esperienze dell’umanità nel suo assieme.

È anche vero che parte della mitologia egiziana si riflette in quella greca.
Sono completamente d’accordo! È parte di ciò che sto studiando in questo periodo: le storie e le mitologie antiche, da quelle greche alle cinesi. Il famoso detto «Conosci te stesso» indica la strada per la realizzazione personale. Da ragazzo pensavo che quella frase avesse origine greca, invece ho scoperto che è egiziana, di qualche migliaio di anni anteriore. Una delle sfide dei nostri tempi è quella di riuscire a mantenere la propria identità nel continuo input di informazioni che riceviamo. In questo ventunesimo secolo dovremmo trovare il modo di unificare tutte le conoscenze che abbiamo assimilato dalla storia, e quando dico «storia» includo il presente, non solo il passato, in quanto tutto cambia continuamente, quindi anche la nostra comprensione del possibile futuro è in continua modificazione.

Anthony Braxton

Non crede che oggi abbiamo un po’ perso per strada questo rispetto per ciò che la storia e la filosofia ci hanno insegnato?
Sì, certo. Assolutamente! Anzi, stiamo andando verso un nuovo Medio Evo. Il Medio Evo 2.0. È una specie di ritorno indietro ai tempi bui dell’umanità. Posso aggiungere questo: quando le cose procedono bene e la cultura è in salute, allora la creatività fiorisce, ma quando si entra dentro il caos e tutto va in confusione, allora la creatività davvero fiorisce! Dunque questo Medio Evo 2.0 cui stiamo andando incontro ci dà anche la possibilità di ricostruire una prospettiva olistica delle conoscenze. Il problema basilare, soprattutto qui in America, è che ai ragazzi non si fornisce un’educazione adeguata. Perché succede questo? Perché gli stessi insegnanti non sanno nulla! Allora dovremmo accelerare la costruzione della conoscenza unificata, per fare in modo che i ragazzi comincino a capire che solo l’essere vivi è un fatto miracoloso, e che merita rispetto. È l’opportunità che il Creatore dell’Universo ha dato all’umanità per crescere. Per ora i giovani brancolano nel caos, senza una direzione, e non è colpa loro perché non hanno ricevuto i corretti insegnamenti.

Come può agire, da artista, con la sua musica per contribuire a cambiare questa situazione?
Bella domanda! Io sto cercando, più di tanti altri, di documentare la mia musica e anche di scriverne a proposito. Per me questo è oltremodo importante: la musica è un miracolo, una scienza. È anche sacra, così come la consideravano gli egiziani. Quindi cerco di creare delle forme che riflettano ciò che penso. A questo punto della mia vita, a settantasei anni, ho trovato un modello fondamentale, un DNA del linguaggio musicale in dodici fasi. Numero 1, fase costante; numero 2, fase polarizzata; numero 3, fase ornamentale; numero 4, fase di logiche sequenziali; numero 5, fase di logiche intervallate; numero 6, fase di logiche ammassate, e così via fino alla fase 12. Uso queste dodici fasi come blocchi per costruzioni con l’intento di creare nuove forme musicali. Queste forme tengono conto anche delle esperienze da me vissute, delle letture pubbliche che faccio, dei sogni che faccio, dei viaggi che faccio. In questo senso mi sento molto fortunato avendo girato in lungo e in largo il pianeta in qualità di «studente di professione», o se vuoi «studente di musica», perché certamente non ho le risposte per tutto quanto!

Anthony Braxton & Andrew Cyrille

Di conseguenza lei ha inventato una nuova notazione musicale, formata da simboli e diagrammi. I suoi musicisti hanno difficoltà nell’interpretare questi spartiti, che a molti sembrano indecifrabili?
Ho creato questo sistema «a blocchi» dopo aver scoperto che l’idea di libertà non era esattamente ciò che stavo cercando. La libertà, nel senso comune del termine, sarebbe il fare ciò che si ha voglia di fare senza costrizioni. Io invece ho imparato che quel tipo di libertà non esiste. Per me la libertà è trovare le «forme corrette», nel senso di giuste. Gli antichi mistici egiziani dicevano che c’era un «anello da non oltrepassare» (il «ring-pass-not», che è in realtà un simbolo esoterico derivante dalle dottrine teosofiche, ndr.). Se si supera quell’anello ci si ritrova in un altro spazio, e quest’idea ha per me molto più senso della libertà esistenziale, cioè fare ciò che si ha desiderio di fare. Ad esempio, qualche giorno fa ho letto che una famosa cantante di hip-hop durante un concerto ha chiamato un fan sul palco, lo ha fatto sdraiare e poi gli ha urinato addosso. Incredibile! A questo punto non c’è più differenza fra giusto o sbagliato, tra bene e male? Se manca una vera coscienza spirituale ti senti in grado di fare qualsiasi cosa ti passa per la testa. O almeno ciò è quanto la gente pensa. Siamo in un periodo di confusione, dove c’è gente che crede si possa abusare deliberatamente del corpo di un altro, oltre che dell’anima. Ecco perché da lungo tempo ho iniziato a lavorare con le forme, i modelli di cui abbiamo parlato: volevo capire meglio, diciamo codificare meglio, ciò che stavo facendo. Il sistema che infine ho creato è basato sul divenire, non sulla rivalità del contrasto. Non sono interessato a trovare una soluzione, una fine: sono interessato a continuare a studiare. Arriverò per via naturale alla fine, quando finirà il mio tempo su questo pianeta. Nel frattempo continuerò a muovermi in avanti per scoprire nuove verità sul miracolo della coscienza, sui sentimenti, sulla gente che incontrerò, sulle stelle che osserverò trovando ancora meraviglioso e magico l’ambiente di vita che ci è stato concesso di conoscere. Questo è il modo in cui svilupperò la mia musica. Poi, venendo ancora alla sua domanda, i miei musicisti non hanno alcun problema nel capire le mie notazioni perché a loro ho spiegato a fondo tutto quanto, e devo dire che non tutti vogliono conoscere ogni livello della mia musica. Ciò è comprensibile e umano: non tutti vogliono comprendere i segreti reconditi. I sacerdoti egiziani e in seguito i grandi filosofi greci avevano creato dei luoghi specifici, delle accademie per studiare e divulgare i loro insegnamenti. Un tempo c’erano giovani che venivano qui per studiare nelle università americane. Ora quelle università stanno affondando miseramente. Perché? Per via dell’arroganza, del razzismo, del sessismo dominanti.

Purtroppo c’è un forte ritorno del razzismo anche in Europa, di questi tempi.
Sento un profondo legame con l’Europa, quindi ne seguo gli eventi. E ovviamente sono preoccupato. Viviamo in un periodo che a un certo livello è rivoluzionario, in quanto si dovrà poi ritornare alle basi formative della civiltà. Dobbiamo fare opera di nuovo «resetting», di riavvio, che non è certo vicina, quindi il processo è lungo. Ci vorranno circa duecento anni, forse più, per ritrovare chiarezza e stabilità. E poi la civiltà che rinascerà non sarà come quella che conosciamo: ci sarà qualcosa di nuovo, la cui natura certo non posso neanche ipotizzare.

Tornando direttamente alla sua musica, quanto spazio dà all’improvvisazione rispetto alla scrittura formale? Qual è il bilanciamento fra le due parti?
Diciamo che c’è l’improvvisazione aperta, che è un’entità a sé stante; ci sono poi composizioni che sono parzialmente annotate, dunque scritte, ma con degli spazi per improvvisare; quindi ci sono composizioni dove gli elementi fissi, i blocchi di scrittura, vagano galleggiando attraverso gli spazi improvvisati; poi ci sono composizioni totalmente scritte in termini di notazione musicale occidentale; inoltre ho anche composizioni che sono «rituali», nel senso che si fa uso di gesti rituali, movimenti del corpo. Il bilanciamento fra le parti differenti dipende dai prototipi. Ci sono prototipi che conducono informazioni motivate che si basano sull’improvvisazione e ci sono prototipi che stabilizzano uno spazio fisso per il quale, una volta allontanaticisi per improvvisare, vi si può ritornare. Faccio l’esempio di un obelisco egiziano: può essere costruito per indicare un punto preciso nello spazio, una direzione, oppure per nessuna ragione geofisica. Ci sono dunque vari tipi di improvvisazione nel mio sistema, così come strutture ben annotate o brani che comprendono gesti simbolici. Queste ultime sono azioni rituali tipiche della Casa del Triangolo. Per concludere, il mio sistema è costruito sulle sinergie interne alla Casa del Cerchio. Nella Casa del Rettangolo ho creato una situazione stabilizzata che può essere utilizzata in modi differenti. Nella Casa del Triangolo ho provato a creare componenti trascendenti che possono essere utilizzati in modi altrettanto diversi. C’è però un quarto livello che non ho menzionato prima: il mio sistema può essere usato in maniera ancora più articolata. Mi spiego: se per esempio prendo la composizione AA e la metto dentro la numero 100, poi posso ancora inserirle dentro un’altra. In altre parole, se consideriamo la composizione finale, chiamiamola numero 96, la puoi suonare in modo totalmente tradizionale oppure usarla come «decostruzione» di strutture già esistenti in altri contesti. Un esempio ancora differente: prendo piccole parti di una composizione, diciamo una o due misure, quindi ne aggiungo un’altra da un brano diverso per ottenere una struttura generativa nuova.

Si può accostare questo metodo alla costruzione di un mosaico?
Sì, e in questo modo ogni composizione sarà come nuova, fresca. Una volta che tu suoni la struttura originale posso suggerirti un’esperienza simpatica: apri completamente la composizione, prendine dei pezzi e fanne qualcos’altro. Li puoi riassemblare diversamente o inserire in altri brani. Così la mantieni sempre viva!

Un’altra parte importante del suo lavoro è quella di andare indietro nel tempo. Suonare o rielaborare i cosiddetti standard. Per quale ragione si dedica a questa operazione? Per dare un volto nuovo ai brani? Nel nuovo box in quartetto ci sono le musiche di Dave Brubeck, la colonna sonora di High Noon o alcuni pezzi di Paul Simon accanto ad altri classici.
Semplicemente perché sono cresciuto con quelle musiche, con Frank Sinatra, Johnny Mathis, Billie Holiday, anche con John Philip Sousa che ha composto delle marce stupende! Per cui ogni tanto, diciamo ogni decade, desidero tornare indietro verso la tradizione e cerco allo stesso tempo di trattarla nel modo che secondo me è corretto. La tradizione in musica, così come quella della mitologia egiziana o la filosofia greca antica, è sempre viva se ti si accosti ad essa in maniera giusta. Puoi imparare molto nel procedere, se ti avvicini senza egotismi di sorta e con umiltà cerchi di conoscere ancora meglio, di apprendere da ciò che esiste già.
In qualche modo lei serve quelle musiche. Nell’interpretarle alla sua maniera mantiene i loro significati originali.
Proprio così! Mi fa piacere che qualcuno capisca a fondo i miei intenti.
E Paul Simon? Una sorpresa sentire Braxton che lo reinterpreta.
Ho sempre apprezzato Simon & Garfunkel, così come il grande Paul Desmond, che di loro ha interpretato Bridge Over Troubled Water. Ho un’adorazione per Paul Desmond, di cui ho tutti i dischi e devo dire che lui rappresenta la ragione per la quale suono il sax contralto. Era un genio. E prima ancora volevo imparare a suonare la tromba per essere come Miles Davis. Una volta, da ragazzo, a casa di un amico vedo che sul giradischi c’è un disco di un certo Dave Brubeck. Lo faccio mettere su e il primo pezzo è All The Things You Are: in quel momento tutta la mia vita è cambiata! Ed è bastato un solo brano! Dopo quattro o cinque battute di Paul Desmond ero completamente in estasi. Avrò avuto dodici o tredici anni. Da allora Desmond è stato un’ispirazione costante per me.

Le farà piacere sapere che abito nello stesso palazzo dove abitava lui, un piano sotto. Invece fra le incisioni d qualche anno fa c’è un box set di dodici cd per sole voci umane, che s’intitola «GTM (Syntax) 2017», e appare come un lavoro un po’ a sé stante nella sua produzione, a parte la serie «operistica» di Trillium. Come ha avuto questa idea?
Incredibile! Che coincidenza! Comunque la serie per sole voci è la Ghost Trance Music: ci sono dodici diverse composizioni, ognuna identificata con un numero, e differiscono l’una dall’altra per il sound. Ho cercato di creare un modello che potesse contenere un codice mistico e che avesse in sé qualcosa di aereo, in uno spazio aperto ma non grande. Potrei definirlo come un «piccolo parco» dove ci sono dodici diversi tragitti. Oppure, se immaginiamo un pianeta, ecco dodici satelliti che gli girano attorno. Le loro orbite hanno fuochi diversi, se le consideriamo in termini astronomici. Quei lavori per voci mi ricordano un periodo non piacevole, non di depressione, anzi sarebbe ridicolo che lo considerassi tale visto che credo di essere un uomo fortunato, quindi non posso lamentarmi. Sarebbe un insulto al Creatore se io lo facessi. Diciamo che, considerati i limiti che la vita ci pone, occorre lavorare al meglio con ciò che abbiamo a disposizione. Quindi il GTM Syntax è come un paradigma: sei in una foresta e ci sono dodici sentieri diversi che puoi percorrere, oppure sei in città con dodici diversi sistemi di trasporto a disposizione. Quale scegliere per andare avanti e non perderti? Non c’è una risposta univoca, perché ogni strada rappresenta un’opera a sé stante.

Il sistema è alquanto complesso. La sua musica è stata eseguita da altri, anche se appare sempre difficile immaginarla senza di lei. Come considera queste altre interpretazioni?
Giusto un mese fa c’è stato un concerto a Praga, diretto da Roland Dahinden, della mia composizione numero 174. Un’esecuzione splendida. Dahinden è stato un mio allievo alla Wesleyan University, qui in Connecticut, dove ha conseguito il master. Voleva anche laurearsi ma è rimasto così deluso dall’arroganza della gente del dipartimento che infine è tornato in Svizzera, dopo aver ottenuto il suo dottorato a Birmingham in Inghilterra. Dahinden ha inciso molte mie composizioni e sua moglie, la pianista Hildegard Kleeb, ha addirittura registrato la mia opera completa per pianoforte. Li ho citati ad esempio, ma tanti altri miei studenti hanno prodotto vari dischi con le mie composizioni o le hanno eseguite in concerto. James Fei è un altro allievo che ha creato un esperimento interessante: un’orchestra da camera al Roulette di Brooklyn e una a Reykjavik, in Islanda, collegate assieme via internet e in video, ambedue dirette da lui, che eseguivano alcune mie composizioni. È successo nell’aprile del 2021. Credo che questo sia uno dei modi per dimostrare cosa ci può riservare il futuro se siamo capaci di non distruggerci l’un l’altro. La mia musica può essere eseguita da chiunque ami il sistema con cui è stata creata.

Anthony Braxton Score Anthony Braxton score Anthony Braxton score

In passato ha collaborato a dischi di altri autori, cito Wadada Leo Smith, ma sembra avere abbandonato questa consuetudine da molti anni. Come mai?
A questo punto della mia vita ho deciso di concentrarmi solo sulla mia musica. Ho settantasei anni, ho collaborato ai progetti di tanti altri musicisti ma ora vorrei riuscire a realizzare tutti quelli che ho in mente. Sette anni fa mi sono ritirato anche dall’insegnamento accademico e allo stesso tempo ho avuto un divorzio devastante. In seguito ho dato inizio a ciò che ho definito come «esilio», per il quale ho lasciato da parte ogni cosa, concentrandomi su me stesso. Volevo capire una buona volta chi ero, dove mi trovavo e come avrei dovuto andare avanti nella vita e con la mia musica. Ho comprato ogni tipo di libro di storia per leggere e studiare, ma ho anche dovuto fare più esercizio fisico e smettere di fumare marijuana. Ho dunque usato quel periodo di solitudine per sfruttare al meglio tutte le mie capacità fisiche e mentali. I risultati sono stati utilissimi per migliorare me stesso e la mia musica.

Un «reset» di Anthony Braxton!
Proprio così! In qualità di «studente professionista» di musica non potevo fare altro che «riavviare» me stesso. Ho dato avvio a un nuovo capitolo della mia vita. Per esempio ho interrotto i contatti con l’AACM. Wadada Leo Smith abita a quattro o cinque chilometri da casa mia ma non ci frequentiamo più, allo stesso modo in cui Stravinsky e Schoenberg, che abitavano entrambi a Los Angeles, non parlavano e non andavano mai a cena assieme: non lo capivo quando ero giovane ma lo capisco adesso.

All’orizzonte cosa c’è nella sua musica?
Sono appena tornato a casa dopo una serie di sei concerti del «Lorraine Music System»: è un sistema che si sviluppa dai fenomeni del vento e del respiro. Lorraine è un nome che mi è apparso in sogno. Si tratta di un nuovo sistema al quale sto lavorando in questo periodo. Ma altri ne svilupperò, come il «Ground Floor», che è costituito da dodici componenti. Diciamo dodici prototipi di composizioni, che insieme formano le fondamenta del sistema. Il «pianterreno» (ground floor) appunto. Il Lorraine lo possiamo visualizzare come delle nuvole che attraversano il piano terra. Oppure vederlo come un insieme di elementi naturali: il vento, la pioggia, i tornado, anche il suono della pioggia che scroscia sul piano terra. Un altro sistema di prototipi si chiama «Under the Ground Floor» («sotto il piano terra»), ma di questo non sono in grado di parlare perché ancora non ho iniziato a lavorarci, anche se forse so cosa potrebbe essere.

Insomma si può dire che sta lavorando sui suoni prodotti dalla natura?
Esatto!

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