Nel 1957, a Parigi, Boris Vian è ancora vivo, anche se per poco. Tempo due anni e poi, per un infarto, sarebbe morto al Marbeuf. Il cinema dove s’era seduto per guardarsi, in anteprima, Il colore della pelle. Il film che Michel Gast aveva tratto da Sputerò sulle vostre tombe. Il suo romanzo del 1946. Un miscuglio esplosivo di sesso, hard-boiled e razzismo che Vian aveva scritto con lo pseudonimo di Vernon Sullivan. Nome preso da Joe Sullivan, il pianista jazz di Chicago, e dal sassofonista Vernon Story (che, in quei giorni, girava l’Europa nel gruppo di Rex Stewart) oppure ancora, chissà, da Paul Vernon (sassofonista nell’orchestra di Claude Abadie). Resta il fatto che Vian è ancora vivo e stargli dietro non è facile. Visto che non sta mai fermo e scrive di tutto: romanzi, poesie, commedie, canzoni e articoli sul jazz. Incide e produce dischi, recita in qualche film, traduce i romanzi di alcuni suoi colleghi americani e, quasi ogni sera, suona la tromba al Club Saint Germain. Da un paio d’anni, per la Philips, va in cerca di nuovi album da pubblicare, Vian segue il jazz che si suona in Francia e non solo dai francesi e, in quei giorni, è pure il nostro agente a Parigi per tutti quei jazzisti americani che, appena arrivati in città, hanno dei problemi o non sanno dove suonare. È lui che li toglie dai pasticci o li indirizza ai posti giusti. Una volta, ha aiutato pure Duke Ellington ed è stato quando, per qualche bega burocratica, il Duca era arrivato a Parigi senza l’orchestra. Vian s’era dato da fare e l’aveva fatto suonare lo stesso. E adesso che lavora per la Philips, s’è rivisto con Miles Davis, che è appena arrivato in Europa su invito del produttore Marcel Romano per un tour di qualche settimana. I due si conoscono dal 1949. Prima Vian l’aveva recensito sulle pagine di Jazz News, e quell’anno era riuscito a incontrarlo a Parigi in occasione del festival del jazz. L’uno aveva appena pubblicato Le formiche e l’altro aveva ancora addosso la musica che a New York, qualche mese prima, aveva suonato e inciso con la tuba band. Musica che, anni dopo, sarebbe finita in «Birth of the Cool». Album uscito nel febbraio del 1957 e seguito, da lì a poco, da «Round About Midnight» e da altri cinque dischi pubblicati nel giro di qualche mese. Così, quando Miles arriva a Parigi, scopre che tutti lo stanno già aspettando. Ha pure firmato con la Columbia e per tre settimane la gente si metterà in coda per ascoltarlo dal vivo. Compreso il giovane Louis Malle, che dopo aver filmato per qualche anno le esplorazioni in mare di Jacques Cousteau sta finendo di montare Ascensore per il patibolo, il suo primo film da regista dopo un paio di corti e un documentario. La pellicola è ormai pronta. Quella che manca ancora è la colonna sonora, ma visto che Davis è in città, a Malle e Romano viene in mente di chiederla a lui. Così, grazie a Vian, che conosce da tempo, un giorno Malle riesce a far vedere il film a Davis e a convincerlo a dargli una mano. Altre voci, come quella del pianista René Urtreger, dicono che l’idea sia stata tutta di Romano e che Vian non si sia mai fatto vedere in sala d’incisione. Comunque sia andata, quando s’incontrano una seconda volta, Malle e Davis lo fanno già per decidere dove inserire la musica nel film, e poi, una sera che Davis è libero da impegni, si chiudono in uno studio a registrare. Loro due, con un pugno di musicisti: Barney Wilen, René Urtreger, Pierre Michelot e Kenny Clarke che, da qualche tempo, s’è trasferito a Parigi. Il gruppo comincia a suonare alle 22 e finisce la mattina dopo, alle 8. Dieci ore di lavoro per poco meno di mezz’ora di musica che non verrà neanche usata tutta. Poco male, perché poi ne bastano solo 18 minuti per far entrare il film nella leggenda. Arrivato nei cinema francesi il 29 gennaio del 1958, Ascensore per il patibolo non ci mette molto ad entrare nel cuore dei jazzisti, dei cinéphiles e degli spettatori del fine settimana. Non solo per il bianco e nero di Henry Decaë, le inquadrature notturne di Parigi, la bravura di Jeanne Moreau e del giovane Malle, ma soprattutto per Davis e la sua tromba. Anni dopo sarà lo stesso regista a dirlo, ammettendo che forse, senza quella musica, il suo Ascensore non avrebbe avuto tutto quel successo.
All’inizio la colonna sonora del film viene pubblicata su un 10 pollici della Fontana. Poi, nel corso degli anni, viene ristampata più volte, cambiando o aggiungendoci sempre qualcosa, fino a dissotterrare ben sedici outtakes. Il disco vende bene fin da subito, dando così non solo una buona spinta a Davis ma anche a quelli che hanno suonato con lui. Barney Wilen, l’americano di Nizza (spinto al jazz, anni addietro, dallo scrittore Blaise Cendrars, vecchio amico di famiglia), è quello che rimane più a lungo nel mondo del cinema, collaborando con Édouard Molinaro (Appuntamento con il delitto) e Roger Vadim (Relazioni pericolose). René Urtreger, si ritrova a suonare con Lester Young, Chet Baker e Sonny Rollins. Pierre Michelot presta il suo contrabbasso a Stan Getz, Zoot Sims e mille altri, mentre Kenny Clarke suona la batteria nei Three Bosses, il trio che ha appena formato con Bud Powell e Oscar Pettiford. Ma, ovviamente, anche Davis e Malle non restano fermi. Al ritorno negli Stati Uniti, Miles entra in studio per registrare «Milestones» e Malle, a Parigi, comincia a pensare a Gli amanti, il nuovo film che vedrà ancora la sua compagna dell’epoca, Jeanne Moreau.
Ma quasi nessuno si accorge o parla di Noël Calef (Nissim Calef, nato nel 1907 a Filippopoli, in Bulgaria). Le luci dei riflettori sono tutti per gli altri, mentre lui rimane nell’ombra. Lontano dalla folla. Eppure, è sua la storia dell’Ascensore per il patibolo. L’ha scritta nel 1955 e, l’anno dopo, le edizioni Arthème Fayard gliela pubblicano già. Solo che, uscito il film di Malle, tutti sono presi da Davis. Da lui e dalla sua tromba e così, di Calef, se ne accorgono in pochi, anche se il suo romanzo è in libreria dal ’56 e vende pure bene. Tanto che viene ristampato più volte. Anche in Italia, dove Garzanti lo stampa la prima volta nel ’58, sull’onda lunga provocata da Malle. Questo di Calef, però, non è il primo libro che, qui da noi, viene pubblicato. Finita la guerra, infatti, di lui sono già usciti Incontri con la coscienza e Drancy, campo di rappresaglia: i suoi ricordi del tempo passato, come ebreo, nel campo di concentramento di Drancy, prima d’essere trasferito a quelli di Bardonecchia, Urbisaglia e Tolentino. Calef, in tutto, scrive una ventina di libri, ma il suo grande amore resta il cinema. Passione che condivide col fratello Henry, fin da quando i due arrivano a Parigi giovanissimi, dalla Bulgaria. Henry comincia la sua carriera come aiuto regista nel 1933, ma un paio d’anni dopo scopre di saper scrivere bene e si ricicla sceneggiatore. Nel 1945, poi, dirige il suo primo film. Anche Noel comincia a lavorare nel cinema ma come uomo tuttofare, nella produzione. Scrive già qualcuno dei suoi libri, ma per il grande schermo comincia a farlo solo nel 1947, per Edi Wieser e il suo Les amours de Blanche Neige. Da allora, (come produttore, aiuto regista, sceneggiatore e attore), Calef collabora ad altri sei film. Tratti, quasi sempre, dalle sue storie. Come Ascensore per il patibolo, al quale partecipa con una prima sceneggiatura prima di passare il testimone a Malle e a Roger Nimier, che si occuperà dei dialoghi del film. Come spesso accade, anche il romanzo di Calef, passando dalla carta allo schermo, subisce dei cambiamenti. Senza, comunque, tradire la storia. Però, con Malle e Nimier, si perde qualcosa dello scrittore. Girando, infatti, la sua versione dell’Ascensore, il regista gioca molto sul bianco e nero di Decaë e meno sul nero (come la pece) di Calef. Malle, nel suo film, mette dentro un po’ di Robert Bresson (Un condannato a morte è fuggito), un po’ di Alfred Hitchcock (i numerosi colpi di scena) e qualcosa anche dei blousons noirs. I ragazzi col giubbotto di pelle nera che in America s’erano già visti e non solo nel Selvaggio di Lázsló Benedek. Anche Calef, nel suo romanzo, parla di questi giovani, gli ultimi arrivati, ma senza alcuna simpatia. Come quando prende in giro il suo Fred facendogli dire: «La vecchia generazione non ha che da andare a quel paese. Sono stanco. Noi siamo giovani. Siamo nel Ventesimo secolo. Dentro di noi, abbiamo troppa roba da buttare fuori. Troppa per aspettare, come hanno fatto quegli imbecilli dei nostri padri. Noi siamo giovani e non abbiamo tempo da perdere. Vogliamo tutto e subito». Frasi già dette e ripetute da ogni nuova generazione su questa Terra e che, in bocca a Fred, suonano vuote e banali, mentre cerca di salvare la sua relazione con Thérésa che, invece, finirà tragicamente per mano della stessa donna.
Calef non ha alcuna simpatia per Fred e nemmeno per tutti gli altri uomini che troviamo nel suo romanzo. A partire da Julien che, pensando al delitto perfetto, uccide uno strozzino col quale s’è indebitato per colpa delle donne e che poi si ritrova, in fuga, bloccato per un weekend in un ascensore. Allo scrittore non va giù neanche il fidanzato della segretaria di Julien, così come suo cognato Georges, vittima della sorella e della moglie; il giovane Fred; Charles, l’albergatore; e Pedro, lo sfortunato turista brasiliano. Sono tutti e sei degli squallidi falliti, dei bugiardi cronici, che nel libro si toccano o si sfiorano soltanto, cercando disperatamente d’ottenere una seconda possibilità. Per tornare, così, ancora una volta in sella, per essere di nuovo liberi o riconquistare l’amore delle loro donne. Che invece, ormai, hanno già perso per sempre. Neppure il poliziotto, che è un uomo solo, si salva dalla penna dello scrittore. Anche se poi, alla fine, arresta Julien, il colpevole motore di tutta la storia. Nell’Ascensore di Calef anche le donne non fanno una gran bella figura. Si salva forse solo Thérésa, la donna di Fred, che però alla fine si uccide col gas assieme al compagno, liberandosi dal peso della vita. Le altre, invece, non s’arrendono: insoddisfatte e deluse, continuano a fare del male ai loro uomini. Nessuna esclusa. La sera prima, sono andate a letto col Principe Azzurro ma, la mattina dopo, si sono svegliate accanto a un rospo e, adesso, se la prendono con gli altri. Questo è il mondo raccontato da Calef, nel suo Ascensore. Un mondo cieco e pieno di insulsi peccatori che un giorno, senza potersi ribellare, verranno puniti tutti quanti per le colpe che non hanno commesso. È solo il fato a governare le loro vite. Solo che non lo sanno e, nel mentre, tirano avanti come possono. A volte uccidendo e poi rubando, mentendo a sé stessi e agli altri, senza mai amare qualcuno. E tutto questo lo fanno nel silenzio più totale. Senza mai ascoltare un po’ di musica, accendere una radio o far girare un disco. Tanto per rendere meno triste e pesante la loro esistenza.
Quando, sessant’anni fa, Malle interviene, col suo film, lo fa aiutando i personaggi di Calef. Non solo concedendo loro un po’ d’amore (quello che, sullo schermo, lega Maurice Ronet e Jeanne Moreau), ma anche 18 minuti di musica che una notte, in stato di grazia, Davis ha composto per loro. Per rendere meno pesante la loro sconfitta.