Un ambasciatore della libertà: in ricordo di Fred Van Hove

Il pianista di Anversa (ma anche organista di chiesa, fisarmonicista e compositore di pregio) è scomparso nel gennaio 2022. Ricordiamo qui alcune delle sue tante avventure

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Fred Van Hove era uno della prima ondata, quella sana, s’intende, virale ma sana: la prima ondata di improvvisatori europei. Van Hove se ne è andato lo scorso tredici gennaio. Aveva ottantacinque anni e non pochi guai di salute, in ultimo quello che va sotto il nome terribile di demenza. Non ne soffriva affatto, però, quando si sedeva al piano, anche quando era giunto oramai quasi al termine del suo viaggio. Lo dice chiaro e tondo una registrazione del ventiquattro agosto 2019, quando ad Anversa, città che gli diede i natali nel 1937, si ritrovò a suonare con Peter Brötzmann, suo vecchio compagno d’armi. Il disco pubblicato l’anno successivo dall’etichetta Dropa è intitolato programmaticamente «Front To Front» e gronda di vitalità, non solo per la consueta prova torrenziale del tedesco ma anche per la freschezza e la lucidità di Van Hove, ancora padrone della tastiera come lo era stato in altri tempi. Ultimo atto di una lunga carriera che lo ha visto protagonista del post-free europeo, strumentista versatile, pianista ma in più occasioni alle prese con i grandi organi di chiesa, nonché fisarmonicista e fine compositore, performer che non disgiungeva il gesto musicale dall’espressività della corporeità intera, esprimendo umori, stati d’animo, borbottando, gemendo, esprimendo gioia o anche pianto.

In altra occasione, a proposito di dischi da salvare, qui si è già accennato a Van Hove ((MJ luglio 2020) per la sua comparsata nella raccolta «Alternate Cake», che Jean Rochard confezionò per festeggiare i primi cinque anni della sua etichetta, la nato. Lo si ascolta assieme ad Annick Nozati in Complaisance, una prova estemporanea trasformatasi presto in lunga e proficua collaborazione. Nel catalogo lussureggiante dell’etichetta francese, il belga compare a più riprese, in particolare nell’album assieme a Nozati, «UIT» (1986), come membro della fantomatica Hot Love Band capitanata da Lol Coxhill (l’album è «Cou$cou$» del 1984) e soprattutto per un disco intestato soltanto a lui: «KKWTT» per quintetto d’ottoni e pianoforte. È uno dei molti dischi (la maggioranza) a suo nome o cointestati finiti fuori catalogo, comprese le molte uscite relative soprattutto agli anni Duemila. Album assolutamente da salvare, come altre perle della sua discografia, che per fortuna vede di nuovo disponibile almeno su una piattaforma di streaming on demand l’inizio delle sue azioni e opere in musica: «Requiem For Che Guevara, Martin Luther King, John F. And Robert Kennedy, Malcolm X / Psalmus Spei». Soltanto la prima composizione è di Van Hove, che condivise l’album (MPS, 1968) con il pianista tedesco Wolfgang Dauner. L’anno spiega le dediche del requiem, il comandante cubano in copertina e la musica combattiva e senza remore del settetto, composto da alcuni dei principali improvvisatori europei (Willem Breuker, Peter Kowald, Han Bennink, soprattutto), impegnato nell’ardimentoso omaggio. L’esordio lo vedeva all’organo, tanto per confondere subito le carte: una composizione forte di corali ayleriani e assoli ignei, compreso il proprio nella parte conclusiva che rimanda alle improvvisazioni elettriche di Sun Ra. Il brano venne eseguito dal vivo al Berlin Jazz Festival il dieci novembre di quel fatidico anno. Fin da subito, le situazioni incendiarie, i fuochi d’artificio, il sovvertimento delle regole, insomma l’approccio rivoluzionario a tutto tondo attrassero Van Hove, che presto si ritrovò assieme a un bel po’ di disturbatori della quiete pubblica in un altro disco sessantottino divenuto, nel tempo, pietra angolare della musica libera europea: «Machine Gun» intestato al Peter Brötzmann Octet. Inizierà qui la lunga relazione con il tellurico sassofonista tedesco, sviluppata assieme ad altri sobillatori di quella risma. La formazione più stabile e celebre è il trio con Bennink, talora rinforzato dallo stratosferico contributo di un autentico virtuoso del trombone qual è stato senza dubbio alcuno Albert Mangelsdorff.

È difficile indicare questo o quel disco imperdibile o separare i non essenziali nell’omogeneità delle registrazioni di quegli anni (grossomodo un lustro) con Van Hove che ora asseconda i momenti più parossistici ora quelli parodici, forte delle influenze indubbie esercitate su di lui tanto da Cecil Taylor, da un pianismo assai percussivo, tanto dalle sonorità d’antan di pianole e carillon. Ne è un buon compendio, per esempio, il concentrato di comicità, romanticismo e furore iconoclasta intitolato Der Spaziegang una miniatura incisa nell’album «Outspan No.1» (1975) accreditato al quartetto. Tra i cimenti in trio un buon vademecum è di certo «Outspan No.2», registrato un mese dopo l’album con Mangelsdorff (entrambi gli album ospitano registrazioni di concerti) e che si fa preferire in virtù di un tasso ridotto di ruvidezze e asperità e basterebbe il carezzevole avvio di Schöner geht’s nimmer a sedurre chiunque.

Sono anni documentati soprattutto dalla FMP (perlopiù dalla costola SAJ) di cui Brötzmann era stato uno dei fondatori e per la quale Van Hove registrerà anche in seguito diversi album in solitudine, al piano (anche preparato), in particolare l’imperdibile «Verloren Maandag» (FMP/SAJ, 1977), e all’organo con l’avvincente «Church Organ» (FMP/SAJ, 1981); qui l’impetuoso Finale 79 da solo fornisce la misura della visionarietà dell’operazione. Una scelta in anticipo sui tempi, perché l’organo a canne si è ritrovato a essere oggetto di un singolare revival molto dopo, negli anni Duemila. Basti pensare alla serie «Hermetic Organ» di John Zorn, ad altri musicisti di area sperimentale come Aine O’Dwyer e Anne von Hausswolff, o Kit Downes per tornare a un jazzista. Van Hove però maneggiava tastiere e pedaliere in chiesa quarant’anni prima e questo va doverosamente ricordato.

Quando nel 2019 l’etichetta belga Dropa Disc produsse un box con tre dischi di materiale inedito intitolato «Fred Van Hove At 80», in pratica un regalo di compleanno fuori orario, uno dei tre dischi rivedeva Van Hove improvvisare con un maestoso organo a canne, quello del Centre for Fine Arts di Brussels, meglio noto come BOZAR. Era il tredici dicembre del 2017. Il delizioso cofanetto regalo, malauguratamente già fuori catalogo, offriva anche un solo piano (sempre registrato nel 2017), mentre il terzo disco presentava un insolito trio di Van Hove assieme a Evan Parker e Hamid Drake dal sorprendente affiatamento, considerata l’assenza di precedenti della formazione: Van Hove e Parker si erano frequentati ai tempi di «Machine Gun» e successivamente nei primi anni Settanta, in tempi recenti Drake ha suonato un po’ con Parker e nient’altro.

In parallelo al sodalizio con Brötzmann e Bennink, un’altra solida relazione musicale la avviò con suo cognato, il sassofonista (tenore) Cel Overberghe con il quale firmò un intero album e diede un mucchio di concerti che portavano in scena tutto l’amore di Van Hove per il cabaret, la gag, il teatrino surreale; insomma, i due parevano una versione di Vladimiro ed Estragone che nell’attesa di Godot incontrano Ornette Coleman. Siamo nella prima metà degli anni Settanta e Van Hove incide per un’etichetta locale, la Vogel, registrando anche due dischi in solitudine. L’intero pacchetto ha rivisto la luce grazie alla Atavistic nel 2002 in un doppio intitolato senza fronzoli «Complete Vogel Recordings», che include anche un rarissimo quarantacinque giri del duo alle prese con due canzoni popolari. La cosa più interessante però la coppia la produrrà prima di chiudere i battenti registrando «With Strings» (1977) assieme allo Scherzo String Quartet e uscito per un›altra etichetta effimera: Kamikaze. Disco che azzarda un free jazz da camera lievemente crepuscolare. Overberghe si dedicherà in seguito alla pittura mentre sua moglie, la sorella di Van Hove, verrà colpita da demenza, precedendo tristemente il fratello.

Ai tempi del furente trio/quartetto, Van Hove si organizzò come già facevano i colleghi olandesi e tedeschi (e poi gli inglesi) creando il WIM, ovvero Werkgroep Improviserende Musici, associazione finalizzata a supportare l’attività dei musicisti belgi. Le sigle hanno sempre incontrato il favore di Van Hove, quasi lo incantassero, tant’è che da lì iniziò anche a creare una serie di collettivi musicali, poco documentati su disco, come la MLA (Musica Libera Antverpiae) e la MLB (Musica Libera Belgicae), tutti caratterizzati da assetti inusuali.
Nel 1979, per esempio, allestì il M.L.A. Blek, che comprendeva tre ottoni: March Charig (tromba) e i trombonisti Radu Malfatti e Paul Rutherford. Il quartetto andò in tour e da un concerto romano ne nacque un album omonimo (FMP/SAJ, 1980). Si ripeté con gli ML DD 4, ovvero ancora Charig, Philip Wachsmann e Günter «Baby» Sommer, anche loro titolari di un’altra pregevole decostruzione sonora: «Was macht ihr denn?» (FMP/SAJ, 1982). Tutti progetti al tempo stesso pienamente inseriti nell’edificazione della propria musica e al tempo stesso collaterali, talora quasi accidentali e incollocabili nell’ipotetico edificio sonoro in costruzione.

È questa la prospettiva per inquadrare al meglio l’album registrato per la nato, che ritornava sul suono prepotente degli ottoni schierando nell’occasione Arthur Van Der Hoeft (corno e tromba), Leo Verheyen, Wim Becu, Hubert Sleymer (tromboni, con Sleymer anche all’euphonium) e Jozef Matthessen alla tuba. Registrato il diciotto luglio del 1984, «KKWTT» spiazza sin dalle prime note e un certo smarrimento accompagna l’ascolto fino al termine del disco. Una prova ammirevole per scrittura ed esecuzione, poiché Van Hove qui disegna un’astrazione composita e avvincente. Non solo, sfoggia tecnica sopraffina, un fraseggio intenso, clusters sorprendenti, ma pur essendo l’unico solista in scena talora si presta a vertiginosi accompagnamenti ritmici, pizzica, percuote corde, va in slalom sulla tastiera; a sua volta il quintetto materializza blocchi di suono accennando marce, squillando, gorgogliando, punteggiando tutte le svolte operate al piano dal leader. È una sorta di disegno che va a comporsi unendo punti immaginari, questo paiono suggerire i titoli dei sei brani (A1 À 4, A5 À 8, fino a C5: Marche Finale), similmente a quanto avviene nei giochi enigmistici, oppure è un viaggio verso uno spazio escheriano, come sembra indicare il disegno di copertina. In ogni caso, la musica è in perfetto equilibrio tra composizione e improvvisazione, collocandosi in una dimensione che cattura e si tiene distante al tempo stesso.

In casa nato, si è detto, Van Hove avviò una proficua collaborazione con la cantante e attrice Nozati e un’altra feconda frequentazione fu quella con il trombonista Johannes Bauer, purtroppo poco documentata su disco; va meglio per il trio proprio con Nozati, che ha all’attivo una coppia di dischi oltre a uno sciame di concerti tenuti da metà anni Ottanta ai primi del Duemila. Gli album sono un buon riassunto della sana follia che animava il trio, che non si (e ci) risparmiava nulla, dalle escandescenze al canto, passando per ogni sorta di borborigmi. Si intitolano «Johannes Bauer Annick Nozati Fred Van Hove» (Amiga, 1989) e «Organo Pleno» (FMP, 1993). Qui si ricorderanno soltanto dal primo la spericolata altalena vocale di Nozati in Mouvement KC e la nenia mediorientale piuttosto borderline di Inari Konta 3, mentre dall’altro, Pars I illustra a dovere il passaggio dal caos a un ordine minimale. Filiazione sontuosa del trio sarà poi il nonetto di Van Hove, catturato anche su disco; una dimensione ampliata che privilegerà la dimensione compositiva su quello performativa. Siamo nel 1997 quando il Nonet registra «Suite For B… City», magnifica prova d’orchestra.

Un anno prima, Van Hove aveva ricevuto un riconoscimento ufficiale dal governo belga, quello di ambasciatore culturale delle Fiandre. Sul finire del millennio, il pianista inizia a dare alla luce un numero consistente di album, un po’ registrati in solitudine, altri che lo vedono in diversi trii; uscirà il succitato box degli ottant’anni e, nel superlativo box pubblicato dalla FMP nel 2011 per festeggiare i propri quarant’anni, («Im Rückblick – In Retrospect»), uno dei dodici compact disc che lo componevano era dedicato al pianismo solitario di Van Hove, accorpando due ellepì pubblicati originariamente dalla SAJ: «Prosper» (1982) e «Die Letze» (1986). Infine, l’album d’addio registrato in concerto assieme a Brötzmann. Ancora una volta la musica non mancava certo d’energia, di vitalità e invenzione, ma le foto di copertina e soprattutto quella del retro mostrano inequivocabilmente due vecchi eroi provati dal tempo e dal cercar la pugna in ogni dove.
Van Hove era quello più stanco.

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