Tullio De Piscopo: sono nato batterista

L’ultima intervista di Musica Jazz con il grande batterista napoletano risaliva addirittura al giugno 1982. Era arrivato il momento di colmare questo ritardo, ed ecco quindi l’estratto di una lunga conversazione.

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Tullio, in realtà mi spaventa intervistarti, perché con tutto quello che hai fatto non so da dove iniziare. Va bene, facciamo così: partiamo dall’inizio. Quando è iniziato il tuo rapporto con la musica? Hai iniziato subito con la batteria?
Appena nato, ho aperto gli occhi e ho visto bacchette, spazzole, percussioni varie, piatti, piattini, tamburi e subito ho capito che quei rumori mi appartenevano. Erano i rumori di mio padre Giuseppe e di mio fratello Romeo: anche loro erano batteristi. Di Romeo dicono che era grandioso, era il primo di tre fratelli, che però morì troppo presto, a ventuno anni quando io ne avevo solo undici. Sono nato in una famiglia di musicisti e subito ho deciso di fare il batterista. In caso, però, grazie anche a Romeo, vedevo dei volti incredibili. Ho vissuto con musicisti di colore, perché ero circondato da dischi di Miles Davis, Charlie Parker, Kenny Clarke, Max Roach, e di notte mi guardavo con attenzione il disco di Roach «Percussion Bitter Sweet»: lui era bellissimo e io lo guardavo e lo baciavo. Poi, guarda come è bella la vita, andai a suonare con Max Roach e il super gruppo di dodici percussionisti tra i più grandi al mondo, da lui creato: M’Boom. Pensa che sostituii un’altra leggenda: Art Blakey, che a Parigi aveva avuto un infarto e mi chiamarono per sostituirlo nella tappa del festival internazionale di Bologna, nel gennaio del 1989. Un’esperienza fantastica, un sogno. Lui era di una gentilezza incredibile, ti faceva stare a tuo agio, mentre gli altri erano un po’ scorbutici. Mi aveva soprannominato Mr. Stick. Dopo questa esperienza ci siamo frequentati, sono andato a trovarlo a New York, poi lui è tornato in Italia e siamo stati assieme. Era lui che decideva le scalette, anche quando era con altri gruppi di All Stars. Prima del concerto, convocava i musicisti e li faceva disporre in semicerchio e decideva la scaletta. Un carisma unico!

Leggo che hai fatto il militare nei bersaglieri. Poiché questa notizia fa parte della tua biografia, in qualche maniera questa esperienza ha esercitato un’influenza sul tuo percorso musicale?
Diciamo che la leva militare è arrivata in un periodo per me pazzesco: suonavo tantissimo e non avevo la testa a fare il servizio militare. Mi vennero a prendere i carabinieri in un locale dove stavo suonando a Mestre, perché ero – a tutti gli effetti di legge – un disertore. Mi misero su un treno e io fui costretto a lasciare tutto, bagagli e batteria. E furono i colleghi musicisti che li spedirono a Napoli. La cosa che mi colpì più di tutte, fu che quando arrivai in caserma c’era scritto: bersaglieri di corsa, automezzi al passo. Dissi tra me e me: alla faccia del… stiamo apposto! Però, posso dire che è anche questa è stata una bella esperienza, perché feci parte della fanfare, anche se non sono previste percussioni. Il problema più grosso era il freddo, perché non esisteva il riscaldamento, i vetri delle finestre erano rotti e stavamo sotto le montagne di Pordenone, d’inverno. Acqua calda non esisteva, quindi non mi lavavo e lo facevo con l’acqua di rose.

A un certo punto della tua vita/carriera, hai deciso di trasferirti a Milano. Un trauma per un napoletano… Cosa c’era che non andava a Napoli?
Per me non è mai stato un trauma, perché sin da bambino sono stato un avventuriero e curioso. Già da quando avevo quattordici anni ero in giro, perché suonavo nelle compagnie di avanspettacolo: Beniamino Maggio, Derio Pino e Cori. Giravamo in lungo e in largo per l’Italia e tieni conto che al tempo non c’era l’autostrada. Viaggiavamo con un pullman tutto scassato e, per riscaldarci nei tratti più freddi, come quelli dell’appennino tosco-emiliano, ci stringevamo tutti – musicisti, attori e ballerini -, uno accanto all’altro, per riscaldarci. Abbiamo fatto delle avventure incredibili, ma è stata una palestra incredibile. Dopo il servizio militare mi fermai a Bologna con una grandissima orchestra da ballo, quella di Paolo Zavallone, nella quale militava un grande sassofonista Giorgio Baiocco. Però, non mi accontentavo e lasciai Bologna, dove suonavo anche nelle balere, e me ne andai a Milano. Volevo diventare il numero uno, come quando guardavo e baciavo la foto di Max Roach. Milano, all’epoca città difficilissima, c’era un grande divario tra Nord e Sud, ma i musicisti mi aiutarono ed entrai subito nel giro importante, suonando nel gruppo di Franco Cerri e in quello di Enrico Intra. Poi, con Basso-Valdambrini, lì sostituii il big della batteria jazz in Italia: Gil Cuppini. E così ho suonato con i grandi del jazz, a livello mondiale.

Infatti, hai suonato anche con Gerry Mulligan.
In tour per cinque anni con Gerry Mulligan. Ho iniziato a uno delle prime edizioni di Umbria Jazz (1973 o 1974). Io facevo parte del gruppo di Gianni Basso con Dino Piana, che quella sera apriva la serata e dopo di noi doveva suonare la grande orchestra di Thad Jones e Mel Lewis. Però, l’organizzazione, ovvero Alberto Alberti e Carlo Pagnotta, decisero di mettere insieme al gruppo di Gianni Basso un grande ospite, Gerry Mulligan. E’ così che ci siamo conosciuti. Abbiamo inciso anche due splendidi dischi: «Gerry Mulligan meets Enrico Intra» e «Summit-Reunion Cumbre», ovvero Gerry Mulligan e Astor Piazzolla.

Quindi, in questa occasione hai conosciuto Astor Piazzolla.
Sì, a Umbria Jazz. In verità, il batterista non dovevo essere io. Lui aveva già suonato in Italia con altri batteristi, poi ha scelto me. E con lui ho inciso ben dieci dischi. Per noi decidevano i grandi chi era bravo e chi non lo era. Ho avuto il piacere, l’onore di suonare Libertango; mi emoziono al pensiero di aver potuto contribuire alla nascita del nuovo tango, di un nuovo linguaggio. Infatti, all’inizio, Piazzolla non era molto amato in Argentina, perché aveva inserito la batteria e il basso elettrico. A mio parere, Piazzolla è stato uno dei più grandi musicisti del Novecento. E grazie a lui che sono conosciuto nel mondo. Eravamo famosissimi anche in Argentina.

Alla fine degli anni Settanta hai inciso anche un disco con Kai Winding. Corre l’obbligo di farti una domanda. A parte il fatto che sei veramente bravo, come entravi in contatto con tutti questi grandi americani?
Con Kay è successa una cosa incredibile. Mi trovavo a Roma perché dovevo registrare la colonna sonora del film L’arma con la regia di Pasquale Squitieri. Squitieri voleva una colonna sonora particolare, perché non era per scene, ma per rulli e solo batteria. E io ero costretto a suonare come un pazzo, quindi alla sera era stanco morto. Una sera lessi che al Music Inn suonava Kai Winding con altri quattro trombonisti. Andai e finito un brano, il batterista mi vide e mi cedette le bacchette, senza che Winding ne fosse al corrente. Stacca il tempo e, si girò di scatto per vedere chi fosse il batterista che aveva attaccato in quel modo. Quando gli proposero di fare il disco «Duo Bones», con Dino Piana, disse: «Io vengo con piacere, ma voglio quel batterista lì!».

Jazz a parte, poi, hai iniziato anche a seguire il sentiero della musica c.d. leggera. Chi è stato il primo a battezzarti in questo ambito musicale?
Avevo fatto degli esperimenti con la batteria, musica leggera, ballabile. Erano cose attuali anche oggi. Ed è mia intenzione fare un antologia, anche per far conoscere queste cose ai più giovani. Da bambino, quando vivevo a Napoli, mi piaceva il rap: ma ti sto parlando degli anni Cinquanta.

Scusa Tullio, ma il rap negli anni Cinquanta non esisteva ancora…
Ti spiego. Io ero uno scugnizzo, stavo sempre per strada, anche perché a casa non c’era il riscaldamento. Mi chiamavano il pazzo, perché io stavo sempre con due legni in mano che percuotevo e quando parlavo lo facevo ritmicamente. In pratica, rappavo tutto ciò che i miei occhi vedevano nel mio quartiere, Porta Capuano: quello che faceva don Pasquale l’olivendolo, quello che faceva Filumena, che vendeva la ricotta fresca, quello che faceva don Salvatore il sarto, quello che faceva don Vincenzo il calzolaio. E io lì, a rapparci sopra. Tornando a quello che mi chiedevi, con il passare del tempo tutti mi dicevano che ero il più bravo, ma che non avevo una lira. Allora, mi è venuto in mente di dare la parola alla mia musica, ai miei tamburi. Prima con Divario, poi, sempre dal disco «Sotto e ‘ncoppa» edito dalla Carosello della Curci, A’cozzeca. La cozza che si discolpava davanti al tribunale dei giudici del mare che l’accusavano di aver portato il colera, e lei la cozza che dava la colpa agli uomini che gli avevano dato da mangiare schifezze, la merda. E poi, con il brano M’briachete tu, che già nel titolo aveva ritmo. Forse è per questo che tutti i deejay mi amano: per loro sono stato un punto di riferimento.

Nel 1981 incidi il tuo primo album live con Larry Nocella, “Lucky” Luciano Milanese e Riccardo Zegna. Contemporaneamente, nasce la band di Vaimò di Pino Daniele. Tu e Pino quando e come vi siete conosciuti?
Pino mi ha voluto conoscere, perché aveva sentito questi dischi. Mi aveva telefonato per farmi i complimenti e voleva che io ascoltassi il suo primo lavoro, «Terra mia». Lui non sapeva che io già lo conoscevo attraverso mio padre, perché mio padre suonava nell’orchestra della trasmissione televisiva Senza rete dove Pino era stato ospite nel 1977. Mio padre mi parlò di questo ragazzo incredibile, che aveva denunciato, nei suoi brani, – anche lui – delle cose che non andavano a Napoli. Gli dissi di non spedirmi il disco, perché nel fine settimana sarei andato a Napoli, visto che dovevo suonare a Roma, e così ci saremmo potuti incontrare. E ci vedemmo il venerdì a mezzogiorno dinanzi alla pizzeria Port’alba. E ci mangiammo anche una bella pizza che, all’epoca, scarseggiava a Milano. Da allora in poi, non ci siamo lasciati più!

Pino Daniele e Tullio De Piscopo

Avete cambiato il corso della musica italiana. Avete creato un nuovo linguaggio e sdoganato il blues e il jazz anche a chi non ne voleva sapere di entrambi. Quali erano le alchimie di quella band?
Il mio apporto è stato quello di portarli più verso il jazz. Il loro sound fino ad allora è più soul. Comunque, era Pino Daniele la forza, perché lui era un poeta, ma anche la musica era bellissima e la si poteva fare anche solo strumentale. Lo portai verso la fusion. Noi eravamo i re della fusion, senza perdere, però, il codice napoletano, mediterraneo. Rispetto agli altri gruppi fusion, noi avevamo gli occhi di tigre maturati nei vicoli di Napoli. Pino era un trascinatore, ma lasciava anche fare. Aveva capito che tutti noi stavamo in un altro pianeta. Molti brani che sul disco duravano quattro minuti, dal vivo si moltiplicavano in dieci-dodici minuti.

Hai fatto, tra le altre, una cosa fantastica: hai portato la batteria nell’orchestra Scarlatti. Come ci sei riuscito?
Dunque, al direttore artistico piacque la mia composizione «Piccola suite di un percussionista schizofrenico» e volle eseguirla con l’orchestra Scarlatti. Con me portai anche Rino Zurzolo, che è stato – ed è – il mio compagno di tante avventure. Tra l’altro, insieme, portammo per la prima volta il jazz al teatro San Carlo di Napoli con Claude Blouin.

Stop Bajon, Andamento lento. Due tuoi successi che potremmo definire tranquillamente planetari e transgenerazionali. Il primo è composto da Pino Daniele, mentre il secondo porta la tua firma. In entrambi i casi possiamo parlare di rap ante litteram. Ci racconteresti la genesi di questi due capolavori?
E’ una grande soddisfazione, credimi, in un ambiente dove fioccano le raccomandazioni poter essere riconosciuto indipendentemente dall’età ed essere chiamato a esibirmi senza dovermi proporre. Ciò nonostante il break dovuto alle mie malattie, che ho superato grazie alla famiglia. Non faccio più dischi perché se io rappresento una parte della storia, perché fare un disco per andare a fare una serata? E’ una gran bella soddisfazione vedere i ragazzi di quattordici e quindici anni che cantano le mie canzoni ai concerti e di prendere parte a delle rassegne trasversali, molto interessanti, come Jazz: Re: Found, accanto a nomi che attirano folle di giovani e giovanissimi. Stop bajon è stata la regina della disco music non solo in Italia, ma anche all’estero. Nel 1984 mi esibii al teatro tenda Bussoladomani per una trasmissione tv. Ero in camerino e sento bussare alla porta: erano i Frankie Goes to Hollywood che volevano complimentarsi con me. Il 20 dicembre a Rovereto, per la rassegna Jazz’About, c’erano persone di tutte le età: mamme e figlie, nipoti e nonni. Ecco, anche grazie a questi due brani, oggi non devo chiedere niente a nessuno. I diritti d’autore di Andamento lento ancora oggi mi gratificano non poco.

In Andamento lento, se non sbaglio, c’è anche Don Cherry…
Don Cherry, insieme a Pino, Rino e Joe ha fatto parte dei miei successi. La cosa bella è che dal vivo suonavamo Ornette e la gente ci fischiava. Lo avevo conosciuto negli anni Settanta a Milano e, poi, lo avevo presentato a Pino Daniele, al quale era piaciuto. In Stop bajon suona la sua chitarra africana e facemmo un concerto spettacolare a Pistoia blues. Tra gli altri, a Pino ho presentato anche Bob Berg, che ha suonato con lui; nel disco live «Sciò».

Parliamo di «Zzacotturtaic», titolo a parte, qui metti insieme jazz, jazzisti e la musica classica. Quali obiettivi ti eri dato?
Volevo fare qualcosa di particolare, di diverso. Tra l’altro, quel disco contiene anche la sigla di Domenica Sprint (Tutto lo stadio). E’ un disco in cui guardo le cose per come stanno, parlando anche delle guerre nel mondo.

Ho parlato di te e di Pino Daniele con Trilok Gurtu. Che ne pensi di lui?
Lo sai che ha iniziato a Milano la sua carriera di musicista? E’ qui che l’ho conosciuto e ci siamo piaciuti subito. Pensa che io abitavo proprio lì, dove faceva le prove con il suo gruppo. E’ una persona dolcissima e un musicista straordinario.

E’ vero che il tuo disco «Suonando la batteria moderna» è uno dei più campionati nella storia della musica?
Sì, anche da James Brown. E ancora è tra i più campionati, penso nella storia della musica. Pensa che la ristampa costava cinquantacinque euro, ma allorché era terminata, il suo prezzo giunse a cinquecento euro. Io, che ne avevo comprato delle copie e le vendevo a cinquanta euro, non sapevo di questo nuovo andamento del mercato. Fu un tizio che mi disse: «Ma tu sei pazzo o scemo, questo costa un capitale e tu lo vendi a quattro lire?».

Quale strumento utilizzi per comporre?
Nessuno, la voce. Una volta non c’era l’elettronica e io mi mettevo in una zona posta tra le stanze delle mie figlie dove c’era un pianoforte. Di certo non utilizzo il computer. Scrivo con la penna! Sto finendo un metodo per batteria tutto scritto a mano, che lascerò così: non voglio che sia battuto a macchina, voglio che la gente possa sentire di più il rapporto umano, che è dato dalla grafia, dal fatto di aver usato una penna, cosa che oggi non si fa più.

Se non avessi fatto il musicista, che mestiere avresti fatto?
Il batterista!

Da qualche tempo svolgi anche l’attività accademica.
Insegno a Milano presso la Nam. L’insegnamento, la frequentazione da oltre trentacinque anni della didattica, mi ha fatto tenere i piedi per terra, perché sono rimasto con i giovani e sono rimasto quello che ero, senza montarmi la testa.

Cosa è scritto nell’agenda di Tullio De Piscopo?
Accetto proposte, che vaglio e se mi piacciono le accetto.
Alceste Ayroldi