The Vijay Iyer Trio «Uneasy»

Il trio di Vijay Iyer al Roma Jazz Festival 2021, con Linda May Han Oh e Tyshawn Sorey

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Roma, 16 Novembre 2021
Auditorium Parco della Musica
Sala Sinopoli

Concerto di grande richiamo (discretamente assecondato dal pubblico, malgrado una brutta giornata di pioggia), alla Sala Sinopoli: di scena il Trio di Vijay Iyer che nella scorsa primavera ha dato alle stampe «Uneasy» (naturalmente in casa Ecm), con Linda May Han Ho e Tyshawn Sorey.
Musica per tempi difficili, ha chiosato il pianista (ringraziando il pubblico alla fine di un concerto di straordinaria intensità), che si ispira ad un canone «civile» presente da sempre nella sua poetica (è stato gratificato dal New York Times  con la definizione di «historical thinker and multicultural gateway») e che infatti aveva già prodotto, insieme a Mike Ladd, la descrizione dello spaccato sociale dell’America del «dopo 11 Settembre» (con la trilogia meta-linguistica di «In What Language?», «Still Life With Commentator» e «Holding It Down: The Veterans’ Dreams Project», per certi versi ancora pregnante).
Questa cifra autoriale, mai sopita, riemerge a maggior ragione nel nuovo mondo post-pandemico, esplodendo in un power-trio che riporta Iyer non soltanto a un formato recentemente disusato (sin dai tempi di «Break Stuff», 2015, con un effetto comunque largamente diverso), ma a una chiara dimensione di impegno e di riflessione, rispetto agli accadimenti di questi anni e alle crescenti ingiustizie in termini di eguaglianza e accesso alle possibilità.

La lucida furia e la calcolata ferocia espressiva con la quale i tre affrontano il palco ne fanno stato e testimonianza, rendendo quasi un pallido ricordo la musica affidata al disco, che pure avevamo lodato per la vigoria elastica e sempre fiondata in avanti (insolita in quel catalogo). La Oh esprime una robustezza frenetica e a tratti estatica, mentre Sorey si impone come una sacra montagna tonante, attraverso una presenza ubiqua e strutturale, impressionante per possanza, varietà, moto e inventiva inesauribili che squassa la batteria come se fosse un giocattolo nelle mani di un gigante.
La musica è la stessa dell’album, fatto salvo quanto detto e l’ulteriore guadagno che ne deriva in termini emotivi e di coinvolgimento, verso un risultato finale di forza inusitata, legato in unico nastro che vive di sequenze micidiali, segnate da brani come Configurations, Uneasy, Combat Breathing, ma dove anche Night And Day diventa una questione di assalto e coraggio.
Iyer, a cui va riconosciuto il dono di una lucidità di pensiero che sinora gli ha consentito di pianificare una carriera perfetta, ostenta anche in questa occasione i propri marchi di fabbrica: la fedeltà all’idea come assoluto manifesto espressivo e la costante tendenza alla costruzione. In questo senso è comprensibile una certa dimensione di assimilazione dei propri partner, che non significa affatto indifferenza, né fungibilità, ma adesione a un progetto comune, nel quale peraltro proprio il pianista è il primo a cedere quote di sovranità. È evidente che egli pensi (e si pensi) piuttosto come compositore, artefice, architetto che non come pianista.

Dunque, in questo progetto, che muove costantemente in avanti, in un processo di intensificazione crescente (che Iyer ama definire «accretivo»), viene valorizzato sempre l’insieme e il pianista si disinteressa dello spunto solistico fine a se stesso, sospingendo piuttosto in avanti i propri compagni di viaggio, costantemente. Del resto ad inizio concerto li ha presentati come «due dei più grandi al mondo nei rispettivi ruoli e quando avremo finito di suonare vi renderete conto che non sto affatto scherzando».
Nella continua valorizzazione degli aspetti di insieme ha un indubbio peso anche il fatto di essere Iyer un «non-pianista» (o meglio: un pianista «non-virtuoso»), votatosi agli ottantotto tasti essenzialmente da autodidatta. L’evenienza si rispecchia nel modo in cui egli si rapporta in termini fisici allo strumento (quasi prendendone distacco, spesso leggermente discosto all’indietro) e ai propri partner, suonando sempre, in modo quasi compulsivo, affastellando la propria voce strumentale a quella dei compagni di viaggio, nella sua assoluta non-volontà di pensarsi come «solista» (più evidente nel trio, ma presente anche negli altri suoi gruppi), escogitando piuttosto – per sua stessa definizione – «un modo non-solistico di improvvisare insieme».
In definitiva, abbiamo qui uno dei protagonisti della musica dei nostri tempi, accompagnato da due suoi pari. Come si usava dire un tempo: «Arrivano gli americani e non ce n’è più per nessuno». Può essere ancora vero, a quanto pare. Salvo scoprire (ma bisogna averne il desiderio) che questi «americani» sono oggi assai spesso gli esponenti di un melting-pot che sta davvero esplodendo adesso, come ama ricordare Gianni Morelenbaum Gualberto, che non casualmente fu tra i primi ad offrire in Italia visibilità a un artista che, purtroppo, è ancora questione per pochi.
Sandro Cerini