Sergio Cossu: Falsopiano

Il debutto da leader del noto pianista, compositore e produttore discografico è un album molto originale, paradossalmente complesso nella sua apparente semplicità

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Sergio, un disco in pianoforte solo ma il titolo suona strano: «Falsopiano». Ti riferisci ai dislivelli del terreno o qui c’è qualcosa di falso che ci sfugge?
«Falsopiano» perché il mio pianismo è apparentemente semplice, lineare, così come le mie composizioni, comprese quelle pop del mio passato. Ma in effetti nella musica che ho sempre scritto –soprattutto armonicamente- ci sono delle improvvise variazioni che quasi non si avvertono ma che rendono il percorso più intrigante, più avventuroso, più imprevedibile. E spero anche più interessante.

Dodici brani, tutte tue composizioni. Sono tutte create per questo disco o ci sono dei brani che avevi nel cassetto?
Alcune composizioni non sono inedite, come Siviglia (registrata col titolo Sevilla da Miguel Bosé nel 1984 e forse il suo più grade successo nei paesi di lingua spagnola) o Pensamento, già pubblicata da Sandro Gibellini e Silvia Donati nel cd «Continuando» del 2012. Le altre sono frutto delle ore serali e notturne passate nello studio Urban Recording di Trieste col mio amato e paziente fonico Fulvio Zafret, lascando fluire liberamente la musica –con tanti errori e tanti dubbi- a volte creando una composizione dal nulla, a volte riprendendo temi che avevo nascosto in qualche angolo del cervello.

Sergio, possiamo dire che è il tuo primo album da solista?
E’ assolutamente così. Ho registrato (sono dovuto andare a controllare) otto album con i Matia Bazar tra il 1984 e il 1999 e ho prodotto sessantotto cd di jazz e neo-classica con la mia etichetta Blue Serge. Ma è il primo disco che pubblico a mio nome e per questo mi ritengo uno dei più anziani esordienti della storia.

Pensamento mette in chiaro la tua conoscenza del linguaggio euro-colto, quello forbito della musica classica. Qual è il tuo rapporto con la musica classica?
Purtroppo, e per fortuna, dopo spiego perché- non sono un musicista di estrazione classica. Nasco autodidatta e solo in seguito ho studiato, non tanto la tecnica dello strumento quanto l’armonia. Questo mio approccio un po’ selvatico credo mi abbia favorito molto nella composizione in quanto, non avendo ricevuto regole, ho potuto esprimermi da autore con una certa libertà e originalità. Dal punto di vista pianistico, non sono sicuramente un buon esempio di tecnica ortodossa, ma le non poche volte che mi sono confrontato con un insegnante, mi sono sempre sentito dire: «E’ vero, non sempre lo fai come andrebbe fatto, ma il risultato è efficace e quindi non c’è motivo di modificare il tuo approccio alla tastiera».
Per quanto riguarda la musica classica, la mia formazione giovanile è classica solo di riflesso, nel senso che ho imparato a suonare dai dischi di musicisti rock o jazz tutti di formazione classica (Jon Lord, Elton John, Rick Wakeman, Flavio Premoli, George Martin, Keith Jarrett, Nicky Hopkins, Keith Emerson, Joe Zawinul). Quando poi, in età più adulta, ho approfondito il rapporto con la musica classica, ho apprezzato in maniera particolare Rachmaninov, Chopin, Debussy, Scarlatti, Vivaldi. E più di tutti J.S. Bach, che per me rappresenta la musica tout court, nella sua forma più pura e trascendente. Da agnostico mi piace dire che in Bach si sente nettamente una natura divina, perfetta.

Sei stato capace di creare delle immagini, delle visioni che, ovviamente, sono soggettive. Mi piacerebbe, però, capire il tuo punto di vista. Che ne dici se, a parte i due brani di cui abbiamo già parlato, ci raccontassi qualcosa di ogni singola composizione. Iniziamo con Birdy…
Birdy è un’altra delle composizioni non scritte ex novo per «Falsopiano». Era stata già registrata da Maurizio Camardi con un quartetto d’archi. E’ il pezzo che apre Falsopiano e l’ho scelto proprio perché, pur avendo uno sviluppo molto tonale, si apre –e quindi apre il disco- con due dissonanze (una settima maggiore e un tritono).

Passiamo a La pazza di Dueville
E’ un tema molto cinematografico, da film francese, con un titolo un po’ alla Simenon. Quando scrivi non sai mai quale sarà la reazione degli ascoltatori. Questo pezzo era stato da me un po’ sottovalutato, invece è decisamente quello più apprezzato da chi ha ascoltato il mio cd.

Esperanto
Esperanto come linguaggio comune, unificante. E’ ispirato a certe armonizzazioni di Joe Zawinul ed era già stato registrato e suonato dal vivo con un bellissimo progetto multietnico di cui faccio parte, La Banda di Via Anelli.

La crudele necessità di amare
Forse la mia preferita. Dal vivo mi è capitata di eseguirla anche per piano e violino, ed è forse così che esprime tutta la sua natura crepuscolare che si intuisce già dal titolo.

Serendipity
Serendipity è quel fenomeno per cui si sta cercando una cosa e se ne trova –per caso- una completamente diversa. Nello specifico, stavo improvvisando (questa parola ricorre spesso) e ad un certo punto mi sono accorto che la musica stava diventando un po’ troppo ricercata, complessa, lontana dal mio linguaggio naturale. E immediatamante dopo questa constatazione è nato il tema –molto semplice, quasi scarno- di Serendipity.

 Sulle rive
E’ un piccolo acquerello che descrive una passeggiata al tramonto sulle rive di  Trieste, città che amo molto e dove è nato «Falsopiano».

San Patrizio
E’ il pezzo che ha dato il via al progetto Falsopiano. Da un paio d’anni ogni volta che mi trovavo seduto al pianoforte in pubblico e la suonavo, vedevo che l’atmosfera nella stanza cambiava, che le persone non parlavano più e seguivano la musica. E dicevo a me stesso: «Sergio, forse sai ancora scrivere…».

Careless
E’ fondamentalmente una serie di variazioni armoniche e ritmiche su un tema molto preciso, che ritorna ciclicamente. Dovessi suonarla mille volte, la suonerei mille volte diversa, mantenendo intatto solo il tema principale.

Garrincha, che immagino si riferisca al grande campione di calcio brasiliano degli anni Cinquanta-Sessanta. Cosa ti affascina di lui?
Garrincha, grande ala destra che ripeteva la sua finta micidiale migliaia di volte sempre ingannando il difensore, ebbe una vita sregolata e non felice, e sposò un’altra grande irregolare, la cantante Elza Soares. Garrincha era un soprannome preso a prestito da un piccolo uccellino sgraziato. Diciamo che sono molto affascinato dalla fragilità, che ritengo una componente irrinunciabile della bellezza.

Siviglia
Come ho già detto prima, è una canzone che ho scritto nel 1984 per Miguel Bosè e che è tuttora molto conosciuta nei paesi di lingua spagnola. Sicuramente la canzone che ha cambiato la mia vita, personale e professionale. Non sono mai stato a Siviglia, ma mi succede spesso di consigliare un bellissimo libro che ne parla: Andalusia di Franco Cardini.

Non credo ce ne sia bisogno, comunque: Falsopiano.
Nei concerti di presentazione di «Falsopiano» che ho fatto finora non ho mai suonato la title-track. Probabilmente perché è il brano più estemporaneo del disco: registrato in un’unica take e totalmente improvvisato.

Chi sono i tuoi pianisti preferiti, quelli che reputi i tuoi mentori spirituali?
Direi Bill Evans e Keith Jarrett sopra tutti, poi Ethan Iverson dei Bad Plus, Monk, Ahmad Jamal, Mehldau, Danilo Rea e, in ambito classico, Marta Argerich, Glenn Gould e Vladimir Horowitz.

Sergio, nel 1980 mollasti l’Italia per andare a Londra che, in quegli anni, era particolarmente attiva dal punto di vista musicale. Cosa facesti a Londra?
Con i soldi guadagnati scrivendo un jingle per Bata mollai il mio lavoro tra radio e agenzia pubblicitaria e me ne andai per un anno a Londra, nel quartiere di Brixton, dove respirai da vicino la new wave (ero innamorato di Costello e dei Clash) suonando anche in gruppi rock locali. Al ritorno, mi accorsi che componevo con nuova consapevolezza e in modo più asciutto ed efficace, come se avessi assorbito qualcosa di quel mondo musicale. Poco dopo, grazie all’incontro col produttore Roberto Colombo, pubblicai la mia prima canzone, scritta per Enzo Jannacci. Londra è comunque tuttora –dopo aver girato un bel po’ di mondo- la mia città del cuore, quella che più mi fa sentire libero e stimolato.

Poi, nel 1984 entrasti a far parte dei Matia Bazar, fino al 1999. Come è andata questa esperienza?
E’ stata un’esperienza molto importante e bellissima, musicalmente e umanamente. I miei “soci anziani” avevano esattamente dieci anni di carriera più di me, quindi da loro ho imparato moltissimo e qualcosa credo di aver dato in cambio, come certe scelte musicali un po’ oblique, come ad esempio una versione in italiano di ‘Round Midnight (Oggi è già domani).

Una marea di collaborazioni. Quali di queste ti sono rimaste nel cuore?
Indubbiamente quella con Paolo Fresu, col quale registrai nel 1990 – grazie a Luciano Linzi – una versione elettro-acustica di Le cose che pensano di Lucio Battisti e Pasquale Panella. Lì nacque un rapporto di grande rispetto e affetto con Fresu, musicista e persona che apprezzo davvero molto. Forse è la comune origine sarda che, insieme all’amore per Miles, ci unisce.

In tutto questo fermento, il jazz quando è entrato a far parte della tua vita di musicista?
Nel 2003, per una serie di strane coincidenze, mi trovai quasi “costretto” a fondare un’etichetta discografica, la mia Blue Serge (mia nel senso che ho sempre fatto tutto da solo), con la quale ho prodotto circa 70 cd di jazz e neo-classica distribuiti da Egea, venendo a contatto con musicisti di grande talento e con realtà assai diverse dal mio mondo professionale precedente, che mi hanno aiutato molto a crescere e ad arricchirmi (non economicamente!). Qualche nome tra i tantissimi presenti nei dischi Blue Serge: Pietro Tonolo, Sandro Gibellini, Franco Cerri, Manomanouche, Lelio Luttazzi, Paul Klee 4tet, Antonella Ruggiero, Claudio Fasoli, Marcella Carboni, Markus Stockhausen, Ares Tavolazzi, Ettore Martin, Danilo Gallo. Ma il rapporto più lungo e continuo è sicuramente quello con Maurizio Camardi, insieme al quale abbiamo trasformato in cd ben nove progetti assai diversi. L’artista che più vorrei avere in catalogo? Danilo Rea, senza alcun dubbio.

Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Nella vita sono un grande improvvisatore, non mi piace programmare. Mi piace avere la libertà di cambiare percorso anche all’ultimo secondo, a patto di non causare disagio o stress a nessuno. Mi piace mettermi al pianoforte e farmi avvolgere da una musica nuova, che un minuto prima non esisteva e che non si sa da dove provenga. Fondamentalmente mi ritengo soprattutto un autore, e la composizione in fondo non è altro che il fermare un’improvvisazione.

Visto il tuo background, ti senti più autore, compositore o interprete?
Mi sento assolutamente più autore; in seconda battuta, produttore perché credo di essere bravo in studio di registrazione a tirare fuori il meglio dai musicisti e dai cantanti. Come interprete, mi riconosco moltissimi difetti e vorrei migliorare. Ci provo ogni giorno, è il mio obiettivo in questo momento della mia vita.

Il brano che hai composto al quale ti senti più legato…
Il brano di maggior successo che ho scritto è Ti sento (Matia Bazar 1985). Ma, essendo affascinato dalla fragilità, il mio cuore è legato ad una canzone nella quale credevo molto e che non ha avuto successo, Quando non ci sei (1997).

Lo scrittore che ha cambiato la tua vita…
Uno solo? Se posso fare più nomi direi Bukowski, Ennio Flaiano, Dino Buzzati e Georges Simenon. Mi piace molto leggere, si è capito?

Qual è il tuo rapporto con le arti visive?
Ho un diploma di maturità come grafico, quindi mi piacciono molto le arti visive, comprendendo in queste anche il cinema, che nei suoi migliori esponenti (per me Kubrick e Fellini) è una serie di quadri in movimento. Mi è capitato di piangere davanti ad un quadro, ad esempio all’Hermitage di San Pietroburgo dove c’è una saletta dedicata a Matisse dalla quale mi è stato molto difficile allontanarmi. Come editore, ho sempre cercato di dare una veste grafica interessante ai cd della mia etchetta Blue Serge.

Cosa è scritto nel diario degli impegni di Sergio Cossu?
La mia etichetta Blue Serge mi ha tenuto parecchio impegnato in questi ultimi quindici anni, come produttore, editore, ufficio stampa, grafico, magazziniere e a volte anche fonico. Adesso mi è tornato il desiderio forte di tornare ad esprimermi attraverso la mia musica e «Falsopiano» è il primo passo, la prima parola. Chi vuole potrà sentire le mie nuove composizioni su Youtube o su Soundcloud, le pubblicherò man mano che saranno pronte. La musica è un linguaggio straordinario, forse il più universale che esista. E se penso a quanto mi ha dato, sento che il mio debito con Lei non si estinguerà mai. E mi piace pensare che ho ancora ampi margini di miglioramento.
Alceste Ayroldi