Di Ed Kirkeby
Nel ripensare agli anni in cui ho lavorato per e con l’adorabile e indimenticabile Thomas «Fats» Waller, mi sono spesso rammaricato che all’epoca non fosse disponibile un registratore con cui catturare le numerose e inestimabili esibizioni alle quali ho avuto la fortuna di assistere. Infatti, quella che il pubblico di Fats vedeva ogni volta come un’esibizione di rara maestria pianistica, per lui – personaggio debordante e incontenibile – equivaleva semplicemente a «spassarsela» alla tastiera.
Nella mente di Fats era accatastato un autentico magazzino di idee musicali, associate a una spontaneità e a un’ispirazione di livello incredibile. Waller possedeva uno spirito umoristico e ironico che rendeva impossibile, a chiunque lo ascoltasse, trattenere un sorriso o una risata. Parliamo di uno degli uomini più coinvolgenti e trascinanti mai esistiti, per il quale un luogo valeva l’altro: l’importante era divertirsi. Assieme a Fats mi sono ritrovato in bar fumosi, a bordo di autobus arrancanti, su polverosi palcoscenici, ospite di case modeste e di squallide camere d’albergo, ma lui si comportava sempre allo stesso modo di quando gli capitava di frequentare gli sfarzosi agi di Park Avenue o di Piccadilly. Questo perché Thomas Waller era un uomo felice e, di conseguenza, così era anche la sua musica.
Ebbi la prima esperienza con Fats negli studi della RCA Victor a Camden, New Jersey: non ero ancora il suo manager ma si trattava del mio primo incarico per l’etichetta come produttore. Fats era reduce da un bel po’ di serate occasionali, e all’appuntamento con la sua band giunse puntuale e di ottimo umore. Ebbi così modo di vedere in azione per la prima volta l’effervescente personalità del pianista. C’era molto lavoro da fare, dato che avevo sottoposto a Fats un sacco di brani tra cui scegliere, e così senza por tempo in mezzo – a parte il necessario e rapido conciliabolo per gli head arrangements – Fats e i suoi ragazzi schizzarono subito nella stratosfera, sfornando una matrice dopo l’altra con una stupefacente mancanza di sforzo. La facilità con cui Fats otteneva grandi risultati sembrava spingerlo, a ogni nuovo brano, verso livelli sempre più alti. Quando passai a Fats lo spartito di 12th Street Rag, avevano già registrato cinque pezzi. Fats lo scorse velocemente, scosse la testa e disse: «No, no! Non va bene, questa non è roba per me».
Ma sapevo che se mai fosse esistito un ponte tra il jazz e il ragtime sarebbe stato lui a gettarlo, e dopo qualche mia sollecitazione (e un nuovo consulto con i suoi complici) Fats tornò al pianoforte, si sedette comodo a gambe larghe e in breve tempo rivitalizzò quel brano con un tipico groove alla Waller, facendolo diventare uno dei più riusciti della seduta. La mente di Fats, dicevamo, era un magazzino di idee musicali e in quel pomeriggio non fece eccezione, perché da quella seduta del giugno 1935, poi diventata giustamente famosa, furono ricavati non meno di dieci splendidi brani. Come avrebbe detto lui: «Roba che spacca, questa!».
Ricordo che un critico scrisse: «Fats è un vulcano che erutta risate e musica», ed era proprio così. Le sue grandi abilità di pianista erano pari solo al suo carattere effervescente e amabile. Fats viveva per la musica e sarebbe rimasto sveglio ventiquattr’ore al giorno a patto di poter suonare, o semplicemente trovarsi in un luogo in cui qualcuno faceva musica. Nuove idee musicali gli frullavano sempre in testa, e dormiva sì come un sasso ma con la radio perennemente accesa sul comodino. Tom Waller amava la musica ma anche la gente, e fu ricompensato a sua volta da milioni di persone che amavano lui. Ecco perché credo che nella musica americana Thomas «Fats» Waller continuerà a vivere da una generazione all’altra: perché la sua errabonda vita terrena non è stata solo una costante ricerca di belle melodie e di fascinose armonie, ma anche una perenne dimostrazione di amore per il prossimo.
Nel corso di un lungo ingaggio newyorkese al Loew’s State Theatre, su Broadway, avevo fissato una seduta con la società Muzak per realizzare alcune transcriptions (brani destinati alla sola trasmissione radiofonica) con Fats e la sua band. Dato che in teatro avevamo tre spettacoli al giorno, dovevamo incastrare questa seduta di incisione tra uno show e l’altro. Lo studio di registrazione si trovava proprio di fronte all’ingresso del palcoscenico, quindi almeno il problema di farci arrivare rapidamente Fats non esisteva. In teatro avevamo avuto un bel po’ di problemi con il sindacato dei macchinisti, che insisteva per farci assumere un elettricista in più, ovviamente a spese di Fats. Cento dollari alla settimana solo per collegare il suo organo alla presa di corrente. «Piantatela di frugarmi in tasca!», aveva strillato Fats, al quale non pareva vero di allontanarsi da quei grassatori.
Una volta in studio, non perdemmo tempo. Il primo show in teatro aveva scaldato al punto giusto i ragazzi della band e, tra il bel pianoforte Steinway e l’eccellente acustica dello studio, Fats non vedeva l’ora di divertirsi un po’. Tutti erano carichi e nel giusto mood per spassarsela con la musica: e subito si aprirono le ostilità. I ragazzi suonavano come se non ci fosse un domani. Conoscevano a menadito tutti i brani, e le matrici si accumularono a un ritmo stupefacente. Visto che il secondo show sarebbe iniziato di lì a poco, Fats fu costretto a tenere un ritmo da paura, ma anche quand’era sotto pressione riusciva sempre a sembrare rilassato e divertito. Ridacchiava e sorrideva, alzava le sopracciglia in segno di allegria, e quando il sassofonista e clarinettista Gene Sedric doveva fare un assolo, la voce roboante di Fats lo esortava a impegnarsi di più: «Alzati, orsacchiotto [Bear era il soprannome di Sedric], e guadagnati la paga!». O al batterista Slick Jones, che masticava freneticamente una gomma, «Dacci dentro con quelle pelli, forza, dacci dentro!». E quando il ritmo era più torrido e lo studio si stava scaldando all’inverosimile, Fats urlava a John “Bugs” Hamilton: «Ah, fammi impazzire, fammi impazzire… FAMMI IMPAZZIRE…. YEAH!» E la tromba di Buggsy si alzava in volo verso le nuvole suonando a meraviglia, come ipnotizzata dalla spinta di Waller.
Per Fats e i suoi ragazzi la seduta si concluse con un totale di dodici brani registrati. Mancavano pochi minuti all’entrata in scena a teatro e i membri della band sparirono in fretta. Fats si limitò a un «Ci vediamo dopo», perché sarebbe tornato dopo il secondo spettacolo per incidere qualche assolo di pianoforte. E così fu, nel tardo pomeriggio. Altri quattro brani, questa volta in solitudine, vennero fuori come nulla fosse, con la potente mano sinistra di Waller che bastava e avanzava per fungere da sezione ritmica. Dopo quella seconda seduta, oltre ai tre spettacoli a teatro nello stesso giorno, non vi fu più alcun dubbio: l’enorme slancio e la vitalità che caratterizzavano il lavoro di Fats erano davvero senza eguali al mondo. Sì, Fats era davvero un vulcano: nessuno come lui. L’alternanza di forza e di delicatezza nel suo stile pianistico, il modo di cantare con ironia e l’allegria di canzoni come Ain’t Misbehavin’, Honeysuckle Rose e Keeping Out of Mischief Now fanno capire che, secondo Fats, la vita era tutta una barzelletta, da non prendere troppo sul serio. «Ah, saperlo! Non credete?» fu la sorniona battuta con cui Fats rubò la scena a tutti quanti nel film Stormy Weather.
Fats si concedeva al pubblico in tutto e per tutto. Come capitò a Chicago, dove la Panther Room dello Sherman Hotel faceva esaurito tutte le sere, una settimana dopo l’altra, mentre lui e la sua band davano l’anima a beneficio di chi voleva ballare. Fats si esibiva anche come solista di pianoforte, con la famigerata bombetta calcata sull’orecchio sinistro e il sorriso da folletto, naturale e confortante come quello di un bambino; e con lo stesso accenno di timidezza infantile sapeva conquistarsi gli applausi scroscianti della folla. Ain’t Misbehavin’, Honeysuckle Rose, I’ve Got a Feeling I’m Falling, Black and Blue, I’m Gonna Sit Right Down and Write Myself a Letter, Your Feet’s Too Big, Two Sleepy People, Handful of Keys: le richieste continuavano incessanti, e Fats continuava incessante a soddisfarle. A ogni pausa, i 130 chili della luce degli occhi di mamma Waller si piazzavano nel retropalco a fumare. Tra un autografo e l’altro, Fats si tergeva il sudore dal viso sorridente e si preparava per il collegamento radiofonico serale. Dalle centinaia che erano presenti alla Panther Room, a Fats bastava andare in onda per raggiungere letteralmente milioni di persone: quelle trasmissioni radio giravano sulla bocca di tutti proprio perché lui, che se la spassava sempre e comunque, se la godeva un mondo a lanciare battute sagaci e commenti ironici. Tempo qualche minuto e avrebbe infilato qualche allusione piccante nel testo del brano che stava cantando, o cambiato da capo a fondo il testo di, che so, Shortnin’ Bread.
Le modifiche e le alterazioni di Fats erano sempre umoristiche – nella maggior parte dei casi le inventava così, su due piedi – ma spesso erano ben più che allusive, quel tanto che bastava per farle diventare tipicamente «walleriane». Questa situazione avrebbe potuto andare avanti all’infinito: se non che al direttore dello Sherman stava venendo una crisi di nervi al pensiero che la FCC, la commissione di controllo sulla radiodiffusione, meditasse di vietare «per decenza» le trasmissioni dall’hotel. Pertanto, come suo manager, mi ritrovai un giorno sì e uno no ad affrontare la richiesta di «imbavagliare» Fats. Ma a farsi mettere la museruola Fats non ci pensava nemmeno, e non voleva sentir ragioni. Del resto, mai la Panther Room aveva goduto di un tale successo. E, quando un amico chiese a Fats come stesse andando quell’ingaggio, lui esclamò entusiasta: «Diamine! In questo posto ballano anche i muri!».
W.C. Handy, il cosiddetto «padre del blues», disse che Fats possedeva così tanta genialità che lo avrebbero potuto rinchiudere in una stanza, dandogli ogni tanto qualcosa da mangiare e fornendogli una bella donna a mo’ di ispirazione, per ottenere in cambio alcune delle musiche più belle mai scritte sulla faccia della terra. Andy Razaf, autore dei testi di molti grandi successi di Fats, tra cui Ain’t Misbehavin’ e Honeysuckle Rose, la pensava allo stesso modo e scrisse: «La cosa più importante è che Fats non si è mai macchiato di gelosia professionale o di piccineria. Era il primo a esaltare il talento di un collega, e il più delle volte preferiva suonare la musica degli altri e non la sua. Qui, per me, sta la vera grandezza. Ho scritto molte canzoni con molti autori, neri e bianchi, ma in vita mia non ne ho mai trovato uno così completo e versatile come Fats Waller. Era un’emozione e un piacere scrivere per lui. Quando gli mettevi un testo sotto il naso, si sedeva al pianoforte, leggeva attentamente ogni riga fino a quando non aveva assorbito il feeling e il significato delle parole, e solo allora iniziava a tesservi attorno una melodia. In un attimo, vedevi spuntare la musica giusta, che sembrava scorrergli dalle dita come l’acqua da una fonte».
La velocità e la facilità con cui Waller componeva i suoi capolavori erano stupefacenti. Ancora Razaf: «Durante la stesura di Hot Chocolates, una delle riviste del Connie’s Inn, e senza che io né lui avessimo la minima idea di cosa combinare, riuscimmo a scrivere My Fate Is in Your Hands, Zonky e Honeysuckle Rose in meno di due ore». Quando Fats e Andy furono incaricati di comporre le canzoni di Load of Coal, una nuova «Connie’s Inn Revue», Razaf pensò che per lavorare senza interruzioni e distrazioni sarebbe stato saggio trasferirsi fuori città. Quindi, per convincere il riluttante Fats, comprò un nuovo pianoforte che fece trasportare nella sua casa di Asbury Park e si mise a descrivere le deliziose focaccine calde e gli altri piatti casalinghi che sua madre serviva sempre agli ospiti davvero speciali. Fats capitolò, si trasferì a casa di Andy e in una sola notte, ispirata da quelle gustose focaccine appena tolte dal forno e condite con abbondanti libagioni di «uova e prosciutto in forma liquida» (ovvero gin che scorreva a fiumi) la famosa ditta «Waller & Razaf» sfornò tre grandi canzoni di successo.
L’estro di Fats per i commenti spiritosi ha dato vita a molti titoli delle sue canzoni. Le sue battute ironiche sparse sui dischi, lanciate su e giù dal palcoscenico e perfino nei discorsi di tutti i giorni, hanno provocato un’infinità di sorrisi, risatine e risate esilaranti nei loro fortunati ascoltatori. Ecco un esempio tra i tanti che mi sono capitati. Los Angeles era la tappa intermedia del nostro tour coast-to-coast fatto di singole serate, ma al Paramount Theater ci toccò aprire un giorno prima del previsto. Fats aveva fatto conto di impiegare il giorno libero per riposarsi; ma, da bravo soldatino qual era, sapeva che anche per lui the show must go on, pertanto riuscì a inventarsi qualcosa assieme a Rochester (la spalla di Jack Benny) ma non ebbe tempo, prima del levarsi del sipario, di provare il numero che doveva fare con Kitty Murray, l’attrice comica (e nera) dello spezzone di show destinato a Rochester. Così si misero d’accordo a voce, e lo spettacolo ebbe inizio.
Nello show, Fats fungeva anche da presentatore, e a un certo punto giunse il turno di Kitty. Così Fats la annunciò e lei salì sul palco. Ora, Kitty non era quel che si dice uno scricciolo. Provate a immaginare una donna di un quintale vestita da squaw indiana. Una piuma rossa che spuntava dritta tra i capelli corvini annodati in trecce; un vecchio abito da sera nero malamente tagliato sopra le ginocchia e che mostrava le massicce braccia, le larghe spalle e le gambe robuste di Kitty, e un paio di scarpe da scena di qualche numero più grandi. Kitty attraversa il palcoscenico mentre la grancassa batte il tempo, si ferma al colpo di piatti, si mette in posa e guarda fisso Fats continuando a darci dentro su una gomma da masticare. Fats, a bocca aperta, con la mano destra che si accarezza il mento per lo stupore, si gira verso il pubblico con le sopracciglia alzate e lo sguardo maligno e dice: «Tutta ‘sta ciccia, e neanche una patata!».
Il pubblico andò letteralmente a gambe all’aria dal ridere, e fu così che Fats scovò il titolo della sua ennesima canzone di successo.
Sì, Thomas Waller è stato un personaggio pittoresco e un adorabile genio, e le sue doti lo hanno giustamente collocato nell’empireo dei grandi. Lassù, nei verdi pascoli della sua musica, Fats sta sicuramente tenendo un poderoso quattro quarti con quell’enorme mano sinistra, mentre con la destra continua senza sosta a sciorinare numeri incredibili. Ehi, ma perché tutta quella gente? Ah, ma sono solo i rappresentanti del suo gigantesco fan club che lo ascoltano fare scintille in una jam session dietro le porte del Paradiso. Insomma, se la stanno spassando anche loro con Fats.
Trovate allegato al numero di ottobre di Musica Jazz il cd «This Is So nice It must Be Illegal» 1927-1943, Fats Waller.
Di Ed Kirkeby
Traduzione e adattamento di Luca Conti