Ricordo di Steve Grossman

di Redazione

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Steve Grossman (Siena 1997) foto di Carlo Verri

Il 13 agosto, a 69 anni, è scomparso Steve Grossman, sassofonista newyorkese che nel 1970, ancora giovanissimo, fu scelto da Miles Davis per prendere il posto di Wayne Shorter e che, in seguito, fu un caposaldo del gruppo di Elvin Jones, spesso associato al collega Dave Liebman.
Grossman – che ha vissuto a lungo anche in Italia – ha all’attivo una rilevante quantità di album da leader (su Horo, PM, Atlantic, DIW, Red Records, Dreyfus) ai quali hanno contribuito, tra gli altri, anche pianisti come McCoy Tyner, Barry Harris, Cedar Walton e Michel Petrucciani.
Lo ricordiamo con alcuni passi di un’intervista rilasciata a Maurizio Franco per Musica Jazz nell’aprile 1992.

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La mia prima influenza musicale è stata Charlie Parker e prima di passare al tenore suonavo il contralto. Poi, quando ho ascoltato la musica registrata da Coltrane intorno alla metà degli anni ‘60 sono passato al sax soprano, ritornando successivamente al tenore e imparando molti pezzi di Coltrane, addirittura ricopiando alcuni suoi assoli. Ma anche se, forse, utilizzavo il sound di Coltrane e traevo ispirazione dallo spirito della sua musica, credo di aver sempre messo qualcosa di mio in quello che suonavo. Prima di Coltrane e dopo Parker, rimasi colpito anche da Jackie McLean, che ha avuto un notevole peso su di me, e mi piacevano moltissimo Gene Ammons, Wardell Gray, Sonny Stitt, Lester Young…

Non hai ancora citato Sonny Rollins, al quale hai dedicato due dischi in trio per la Red Records «Way Out East», parafrasi appunto del rollinsiano «Way Out West».
Sì, sotto certi aspetti erano dedicati a lui. Del resto, per evadere da Coltrane a un certo punto mi sono trovato a utilizzare il sistema di Rollins: ho capito allora che se mi ispiravo al suo stile riuscivo a dare più compattezza e più swing in breve tempo alla ritmica, così da poter suonare con spontaneità. Comunque ho sempre immaginato che la sonorità di Parker applicata al sax tenore fosse quella che mi sarebbe piaciuto ottenere, per cui ho utilizzato i miei modelli in maniera circolare, passando da Coltrane a Rollins per poi ritornare a Parker. Adesso credo di avere un suono riconoscibile, e credo che la gente capisca che sono io, qualsiasi cosa stia eseguendo. Questo è molto importante perché nel jazz bisogna avere un sound personale.

Perché hai smesso di utilizzare il sax soprano?
In realtà mi piacerebbe ancora usarlo in alcune composizioni ma sto concentrandomi molto sul tenore, e poi penso che non vada bene con ciò che vorrei fare oggi. Del resto è uno strumento completamente diverso dal sax tenore.

Però molti tenoristi lo suonano abitualmente, un po’ come avviene per i trombettisti con il flicorno.
Perché hanno preso tutti spunto da Coltrane, che ha fatto rinascere lo strumento, ma in molti casi l’approccio non è così innovativo da farlo apparire differente. Invece Coltrane lo considerava uno strumento diverso e ricordo che in una intervista disse che era come portare un cappello nuovo. E questo concetto lo ha aiutato a suonare in un altro modo.

Come costruisci un assolo?
Molto spontaneamente. Cerco infatti di concentrarmi il più possibile sull’aspetto melodico, non mi baso più su serie di accordi ma suono solo per istinto cercando di costruire qualcosa di nuovo. Penso che si debbano conoscere determinate regole e, una volta assimilate, si possa infrangerle. Insomma, bisogna conoscere le basi, altrimenti è come se si costruisse una casa senza le fondamenta: non resterebbe in piedi. Tra i principi basilari della musica che occorre imparare, ce ne sono molti legati all’armonia, nonché altri quali il concetto di voce conduttrice e cose simili.

La mia impressione è che tu, a seconda dei casi, rimani legato a strutture armoniche oppure utilizzi il sistema tematico di stampo rollinsiano.
Non ho mai capito bene il significato del termine «tematico» per quanto riguarda certe improvvisazioni. Quando sviluppo un assolo, ma lo faccio in modo inconscio, bada, mi posso basare su una determinata linea melodica, e in questo caso credo di usare il modo di lavorare di Rollins, quel tipo di improvvisazione che chiamano tematica. Ma per me armonico, tematico sono solo etichette utilizzate da non musicisti per orientarsi sul tipo di musica che ascoltano. E come quando si insegna teoria musicale ai non professionisti per far capire la musica classica; o quando si fa l’analisi. Penso che i compositori, come i jazzisti, non si siano mai posti problemi di questo genere.

Quando suoni in trio senza pianoforte ti senti più libero dal punto di vista armonico?
Dipende. Generalmente ti senti più aperto. Però, se mi capita di suonare con un particolare pianista che reputo adatto per il mio gruppo, allora mi sento ugualmente libero perché saprà lui quando smettere di suonare o come seguirmi. Mi è difficile rispondere a questa domanda, per cui posso solo dirti che in generale mi sento più libero in trio, in quanto il pianoforte interferisce meno e posso concentrarmi maggiormente sull’aspetto creativo.

Steve Grossman (by Eric Perrone)

Cosa ricordi del periodo passato con Miles Davis?
È stata un’esperienza importante, ho imparato molte cose e Miles fu disponibile verso di me. Musicalmente parlando, trovai degli ostacoli perché c’erano influenze all’interno che contrastavano con il mio modo di lavorare. Dave Holland voleva suonare secondo uno stile molto free, influenzando Chick Corea. E c’era una grande apertura da parte di Jack DeJohnette, che poteva usare qualsiasi stile. Comunque, quando lavoravano con Miles facevano quello che lui voleva: fissavano un tempo musicale ben determinato e non appena lui iniziava a suonare cercavano di rendere la musica più libera. Io non mi sono trovato bene in quel contesto perché volevo suonare con un certo tipo di swing e per fare questo dovevo muovermi in duo con DeJohnette. Sfortunatamente nessuno di questi duetti è finito su disco».

Quale incisione al fianco di Miles ti è rimasta più impressa?
«Live At The Fillmore». A quel tempo Miles era in gran forma, aveva la mente lucida, sapeva ciò che voleva realizzare. Però, per dirla in termini chimici, non c’era coesione tra me e alcuni musicisti del suo gruppo.

Miles prendeva dei grandi rischi musicali, suonava in modo spericolato …
Sì, era molto creativo e spontaneo e ha sempre cercato musicisti disponibili a competere con lui; non voleva dei ruffiani all’interno dei suoi gruppi. E nemmeno fuori dal contesto musicale. Lui era il leader indiscusso ma noi potevamo suonare quello che volevamo.

Generalmente utilizzavate situazioni modali?
Eseguivamo molti pezzi diversi tra loro, a seconda del contesto, in parte composti da Miles, e diciamo modali in quanto costruiti su due accordi, ma anche di Wayne Shorter, realizzati quando era ancora nel gruppo. Naturalmente suonavamo brani tratti dal disco del momento di Davis, cioè «Bitches Brew». Eravamo una delle formazioni più richieste nei jazz club ma con il passare del tempo incominciammo a suonare insieme a gruppi rock. Penso, anche se non ne sono sicuro, che Miles abbia cambiato stile per motivi commerciali.

Dopo Miles sei passato al gruppo di Elvin Jones. Che differenze hai avvertito tra i due gruppi?
Nelle due formazioni il mio sound, la mia maniera di improvvisare, acquistavano una sfumatura diversa. Comunque con Elvin, suonando per anni e in vari organici, ho avuto realmente la possibilità di crescere. Fare tre set ogni sera, con o senza pianista, insieme a un altro sassofonista o come unico fiato, con un pianista ospite che non conoscevo, con la chitarra, è stata l’esperienza più positiva che abbia mai avuto. E poi, ciò che facevamo era jazz.

Cos’è il jazz per Steve Grossman? Uno stile, un modo di suonare più spontaneo di altri…
Jazz è una definizione data al tipo di musica che mi piace suonare. È un termine che molti non gradiscono, viene associato al periodo della segregazione e dei bordelli, e alcuni preferiscono chiamarlo musica afroamericana. Io sono ormai a contatto con questa musica da così tanto tempo che mi viene naturale parlare di jazz. Non lo considero uno stile e non faccio caso alle definizioni che la gente usa, in particolare i critici. È la mia vita, il mio modo di comunicare agli altri ciò che sento e mi basta pensare che attraverso quello che faccio trasmetto le mie emozioni a tutti coloro che mi ascoltano».