Brussels Jazz Festival 2025

Decima edizione per il festival che si tiene al Flagey, con la direzione artistica di Maarten Van Rousselt. Il report dei concerti dal 15 al 18.

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Un programma travolgente, così come ogni anno, quello che si tiene nel freddo (ma non troppo, almeno quest’anno) gennaio mitteleuropeo. Concerti di quelli che sarà difficile vedere in Italia, perché non ci sono i soliti noti, quelli venduti dai management che contano e abbagliano alcuni miopi direttori artistici italiani.

Chi scrive ha assistito a tutti i concerti dal 15 al 18 inclusi. Però, vale la pena dare un cenno, seppur come mera elencazione, a ciò che è avvenuto prima in questo decennale del festival jazz della capitale belga.

Amy Gadiaga foto di Johan Jacobs

Dal quartetto di David Murray al Simon Comté quartet, dalle armonie soulful di Amy Gadiaga al quartetto «europamericano» formato da Bram de Looze, Thomas Morgan, Joey Baron e Hank Roberts al violoncello. Da Jake Long ai Flock, passando per i KVR; da The Rising Moon al duo Bram De Looze e Doyeon Kim (al gayageum), fino a giungere al Toots Thielemans Award.

Camilla George – © – Patrick Van Vlerken

L’esordio, per chi racconta, è del 15 gennaio con il primo set affidato alla sassofonista nigeriana, ma residente a Londra da tempo, Camilla George, accompagnata da Renato Paris al pianoforte, tastiere e voce; Jihad Darwish al contrabbasso e Rod Youngs alla batteria. Grande energia, vibranti assolo che schiumano di  bop, Camilla George declina i suoi album «The People Could Fly» (del 2018) e «Ibio Ibio» con pacata scioltezza e gli interventi vocali (à la Pedro Aznar nel Pat Metheny Group, ma solo come lontano ricordo) di Renato Paris, dei quali non sentiremo la mancanza.

Immanuel Wilkins – © – Patrick Van Vlerken

Il secondo set è appannaggio del fresco vincitore del Top Jazz nella categoria «Migliore nuovo talento internazionale»: Immanuel Wilkins, che si schiera in un quartetto roccioso e ben affiatato: Michael Thomas (pianoforte), Rick Rosato (basso), Kweku Sumbry (batteria). Wilkins suona con uno sguardo attento al passato, quello più boppeggiante, ebbro di muscolarità: gli accordi e i disegni armonici che si susseguono sono una breve parentesi per i suoi torrenziali assolo. Bisogna attendere Fugitive Ritual, Selah per ascoltare come il sassofonista di Filadelfia sappia scolpire le note e abbia una più che apprezzabile visione personale del jazz. Sviluppa ghirlande di note che ruotano, incessantemente, intorno alle armonie, che si fondono in un flusso continuo.

Chiude la serata il quartetto belga-olandese Bodies con tanta energia e una fusione tra jazz, rock e tracce di soul. Una vera e propria fuoriclasse la sassofonista Alejandra Borzyk: tra soffiati, note distillate in purezza e graffiati ancien regime.

ViceVersa
Foto di Olivier Lestoquoit

La tripletta di concerti del 16 si apre con i Vice Versa: un piano trio belga intenso, vigoroso, capace di coniugare – con sapiente creatività – la tradizione jazzistica e le sonorità più accese, e colorate, del jazz europeo. In testa a tutti Bram De Looze, che disegna armonie e crea melodie sotto l’impulso ritmico di Felix Henkelhausen (al basso) – che sfodera dal cilindro un assolo da applausi – ed Eric McPherson (alla batteria).

Craig Taborn_foto di Olivier Lestoquoit

A seguire una produzione originale, di quelle che fanno bene alla coclea e allo spirito: Craig Taborn Quartet & Brussels Philarmonic, nell’ambito del progetto Jazz meets Symphonic. Il cinquantaquattrenne pianista americano è accompagnato da Peter Evans alla tromba, Thomas Morgan al contrabbasso e Ches Smith alla batteria. Taborn è in grande spolvero, sia come pianista e sia come compositore. Sfoggia un invidiabile aplomb nel far convogliare le sonorità contemporanee costruite per l’ensemble della Brussels Philarmonic, ben diretta da Ilan Volkov, verso gli accenti jazzistici puri che il quartetto accarezza costantemente. Una conversazione splendidamente architettata, sempre coerente, mai rigida o imbolsita.

La serata si chiude con il terzo set (tutti i concerti conclusivi erano a ingresso gratuito, mentre gli altri a pagamento) ad opera della giovane band Dishwasher. Il combo made in Belgio (di Gand) squaderna un jazz proiettato verso il futuro: tra elettronica, improvvisazione e ritmi forsennati.

Alina Bzhezhinska e Tony Kofi
Foto di Alceste Ayroldi

Il 17 si incomincia al mattino, con il consueto concerto delle 12.30 (annoverato come PikNik) con la musica avvolgente, affascinante e cinematografica del suo formato da Alina Bzhezhinska e Tony Kofi. Arpa e sassofono, con una piccola dose di elettronica e il cicalare di piccoli strumenti percussivi.

Un concerto indimenticabile, perché l’arpista ucraina ha un tocco magistrale: tra il classico e la (piccola) storia dell’arpa jazz. Sa tenere il ritmo come poche e non ha bisogno di alcun supporto per far valere il suo senso della musicalità: nessun pomposo arpeggio, ma onde sonore sempre in linea con quanto tratteggiato da Kofi, sempre disinvolto, preciso e attento a ogni soluzione melodica. Presentano l’album «Altra Vita», dedicato ad Alice Coltrane. Alina è la “portavoce” del duo e spetta a lei aprire una bella parentesi discorsiva sulla situazione del mondo, sulla vita, sul futuro. Album e concerto che vale la pena ascoltare più volte, per concedere alla mente una pausa arricchente.

De Beren Gieren – © – Patrick Van Vlerken

Alle 19.30 lo Studio 1 ospita De Beren Gieren, piano trio belga-olandese che rimarca quanto di buono c’è in giro in Europa e, soprattutto, quanto di nuovo c’è in circolazione. Jazz corrosivo, torrido, con tracce di psichedelia, grandi cambi ritmici dominati dal batterista Simons Segers, che scandisce tempo e giochi in combine con il bassista Lieven Van Pee. Al piano e agli effetti elettronici si accomoda Fulco Ottervanger, eccellente maestro di cerimonie, capace di disegnare melodie e improvvisazioni al fulmicotone.

Il concerto clou della serata è quello degli Irreversible Entaglements, che presentano il loro ultimo album «Protect Your Light» (pubblicato dalla Impulse! nel 2023). Più che irreversibile, qui ci troviamo di fronte a un gruppo irresistibile. Dallo spoken poetry di Camae Ayewa, alias Moor Mother, che ha fatto da fil rouge alla performance, alla tromba sordinata e irriverente di Aquiles Navarro, che si è preso cura anche dei marchingegni elettronici, ai dirompenti sassofoni di Keir Neuringer, letteralmente instancabile nell’architettare armonie sui ritmi tribali e incessanti disegnati da Tcheser Holmes alla batteria e Luke Stewart al contrabbasso. La band non fatica molto a far ballare il pubblico che, prontamente, risponde all’invito, salutando allegramente i ritmi disegnati dal collettivo che fanno da eco alla samba de roda disegnata e allargata dall’ensemble. La potenza espressiva degli Irreversible Entaglements ha pochi pari nella musica.

Khalab – © – Patrick Van Vlerken

Chiude la serata Khalab, combo italo-britannico che coniuga ritmi africani con il jazz e l’elettronica. Giusto completamento con quanto iniziato dalla band che l’ha preceduto.

A tal proposito non è possibile esimersi dal commentare come la direzione artistica di questo festival, così come negli anni precedenti, abbia sempre tenuto a mente il progetto musicale: una direzione vera e propria, fatta di scelte congrue e coerenti: il sassofono, il ritmo, la musica jazz belga, i giovani. Una rarità dalle nostre parti.

Il 18 è giorno di chiusura e, tanto per dirne una nuova, la serata è dedicata (curata) dall’etichetta discografica Jazz Re: Freshed. Casa discografica nata a Londra nel 2017, nel quale alveo si sono formati Nubya Garcia, Shabaka Hutchings, SEED Ensemble, Rosie Turton.

Ashley Henry – © – Patrick Van Vlerken

A Bruxelles sono arrivati con le nuove truppe cammellate del jazz britannico. Il vulcanico pianista Ashley Henry con il suo combo, che ha fatto da eco alla performance della Family, che ha «jammato» e fatto ballare tutti.

Un doppio concerto da far girare la testa per il turbinio di sonorità che si sono susseguite. La declinazione di diversi linguaggi jazz (e non solo) che vanno a incontrare la tradizione. Sfumature eleganti, effetti inebrianti, che hanno trovato completamento nel dj set nella lobby, sempre a cura della Jazz Re: Refresh.

Alcune piccole note. Il pubblico: sold out per ogni concerto (le sale sono capienti, non piccole…), a fronte di concerti senza i soliti nomi dello star system americano che piacciono in Italia. Ha sempre partecipato con gioia e con religioso silenzio: non c’erano telefoni urlanti o luminescenze da social nelle sale. E, ancora, tantissimi giovani provenienti da ogni dove. Traete voi le conclusioni…
Poi, a far da corollario al festival una bella mostra fotografica curata da Patrick Van Vlerken, che vale la pena di essere vista e divulgata.
Alceste Ayroldi

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