BILL FRISELL «Orchestras»

di Paolo Vitolo

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AUTORE

Bill Frisell

TITOLO DEL DISCO

«Orchestras»

ETICHETTA

Blue Note


Anche Frisell è giunto a realizzare la sua grande opera retrospettiva della tarda maturità, e come «sogno orchestrale»: un album doppio (in vinile e in cd) in cui il suo trio stabile è affiancato nel primo disco a un’orchestra sinfonica di circa sessanta elementi e nel secondo a una jazzistica di soli undici. Ma se da quest’ultima è quasi scontato che avrebbe ottenuto complementi sonori della sua musica non meno discreti di certi già collaudati con qualche formazione comprendente fiati, gli effetti di ridondanza dell’orchestra sinfonica – quello strato di cattivo gusto che pure è il caso di riconoscere, con un po’ di senno di poi, nella sinfonia classica otto-novecentesca – li avrebbe scansati con cura, evidentemente non ritenendoli parte del suo «so[1]gno». Probabilmente per questo ha affidato gli arrangiamenti di tutto l’album all’anziano amico Michael Gibbs (allora già ottantacinquenne), manovratore tanto spregiudicato quanto sensibile di musica no genre per grossa formazione. «Quando mi ascolta – dice Frisell – riesce a percepire gli armonici di ciò che sto suonando, e riesce così a espandere le mie sonorità». Qui infatti è evidente che Gibbs abbia lavorato a partire da ciò che la musica di Frisell già possiede o almeno emana, e da questo principio neppure si sarebbe discostato granché nel concedersi pieno arbitrio da compositore del prologo Nocturne Vulgaire. Impressionistico, espressionistico e immaginifico come una musica per film hitchcockiano di Bernard Herrmann, Nocturne Vulgaire suona come una premessa ambigua ma scorrevole, adeguata, all’ingresso di Frisell con il trio, che scivola senza soluzione di continuità dal commento di queste progressioni colte ai toni sensuali di Lush Life di Billy Strayhorn, mentre anche l’orchestrazione si assottiglia per trasformarsi in uno sfondo pop quasi tradizionale. Poi lo spartiacque tra orchestrazione colta e pop quasi svanisce nelle risonanze concepite da Gibbs volta a volta rispetto al potenziale della singola composizione. Ciascuna esecuzione presenta un tipo specifico di forma concertante e con un proprio specifico livello di invadenza. Motivo per cui la mano en[1]fatica dell’arrangiatore – come può apparire, per esempio, da un passaggio enfatico degli archi, data la circostanza – non la sentiamo che dove c’è da dare risonanza al paradossale, al «colore» che, come accade di rado nella musica di Frisell, prevale sulla «sfumatura»; giusto un pezzo spigoloso e humorous come Electricity e l’accidentata seconda parte di Richter 858, n. 7. Mentre è molto più frequente che la musica di Frisell metta in moto la mano dell’arrangiatore sensibile, attenta a catturarne le sottili sfaccettature: l’ambiguità emotiva del danzante Rag; la mediatissima evocatività dell’antico Beautiful Dreamer (di Stephen Foster); l’incanto estatico di Throughout, pezzo di forte coesione tra melodia e armonia mai rivisitato con tanta ricchezza (dopo la versione originale di Frisell in solo del 1982); la cupezza statica di Doom, pezzo di Ron Carter dove melodia e armonia sono un tutt’uno – che Frisell ha eletto ora a suo favorite, senz’altro ispirato non dalla nervosa versione incisa da Carter con il quintetto di Miles Davis nel 1965, chiamata Mood (in «E.S.P.»), ma da quella rivisitata con trio pianistico nel 1969 (in «Uptown Conversation»). E non meraviglia che questo principio di valorizzazione della pagina giri un po’ a vuoto in Sweet Rain, fascinosa creatura di Gibbs voluta da Frisell nel repertorio in omag[1]gio al maestro amico, ma che è musica sofisticata nei modi del Gibbs di un tempo. Frisell, perfettamente a suo agio, la affronta da perfetto erede di Jim Hall. Negli arrangiamenti «meno problematici» del disco con orchestra jazzistica Gibbs non si concede nulla di più enfatico di qualche contrasto e qualche massa sonora un po’ alla Gil Evans. Ma a prescindere dalla valutazione della sua originalità e non dimenticando che l’opera è di Frisell, il risultato importante è che abbiamo a disposizione versioni quanto mai ricche e coinvolgenti di grandi classici friselliani quali Lookout for Hope, Strange Meeting, Monica Jane, e del più recente Levees; versioni pure concertanti, «per trio e orchestra», e che non stratifi[1]cano affatto lingua comune del jazz su questi esempi magistrali di musica no genre. Un po’ scon[1]tata quella del We Shall Overcome, ma di certo in sintonia con l’uso di finale pacificante che Frisell ama farne, e non particolarmente incisive quelle dei replicati Doom e Electricity, pezzi entrambi che nelle versioni con orchestra sinfonica guadagnano risonanze significative soprattutto dagli archi. Del resto, la data jazzistica precede di parecchi mesi quella sinfonica. Esiste poi un terzo disco, desti[1]nato a una limited edition soltanto vinilica per misteriose scelte di politica discografica. Contiene alcuni standard eseguiti dal trio in concerto, un solo pezzo orchestrale, composto e arrangiato da Gibbs (nuovamente poco relazionabile al mondo di Frisell), e una bella versione di Monroe per gruppo medio comprendente forse un paio di archi, probabilmente anch’essa arrangiata da Gibbs. Una versione cameristica di questo pezzo più estesa di quelle usate come interludi nel doppio cd «History, Mystery» del 2008 (quindi molto diversa da quella compresa nel recente «Four»). Peccato che sia stata esclusa dall’edizione regolare dell’album.
Vitolo

recensione pubblicata sul numero di aprile 2024 della rivista Musica Jazz

DISTRIBUTORE

Universal

FORMAZIONE

Bill Frisell (chit.), Thomas Morgan (cb), Rudy Royston (batt), Michael Gibbs (arr.). Brussels Philharmonic, Alexander Hanson (dir.); Umbria Jazz Orchestra, Manuele Morbidini (dir).

DATA REGISTRAZIONE

Orvieto, 30-12-21 e 1-1-22; Gand e Bruxelles, 23 e 24-9-22.