«Pieces of Treasure». Parla Rickie Lee Jones

di Paolo Romano

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Un colloquio con la famosa cantautrice americana in occasione dell’uscita di «Pieces of Treasure», disco che ne riapre lo storico rapporto col jazz

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«Credo di muovermi nella giusta direzione, seguendo un percorso più che forgiando la strada. Sono spinta in avanti da eventi apparentemente casuali, legati tra loro dal fatto di finire, in qualche modo, in circostanze migliori di quando ho iniziato. Certo, le cose brutte ci sono, ma se spingo per diventare la mia scommessa, passo dal dolore in un posto più luminoso». Sono queste le parole con cui Rickie Lee Jones chiude il prologo della sua autobiografia Last Chance Texaco – Chronicles of Troubadour (Grove Press UK, 2021), e che meglio di qualsivoglia citazione aprono il varco su una vocazione interpretativa fuori scala, cresciuta e coltivata nel segno dell’eresia e dell’indipendenza tra le routes dell’America, dalla pancia alla costa: tra il Pacifico e il Golfo del Messico in linea orizzontale, lungo tutto il Mississippi da Chicago (dove è nata) a New Orleans (dove vive) in linea verticale.

Rickie Lee Jones
credit Coolsville Inc

Una storia tutta americana, che rischierebbe di apparire il remake di tanta cinematografia on the road se nella biografia della musicista non s’addipanasse in vita vissuta tra polveri e altari; rinunce, sconfitte, ribalte, inabissamenti nella dipendenza e redenzioni si proiettano sotto il neon della fiducia in sé stessa e nelle possibilità dell’esistenza. La Jones ha seguito un percorso sghembo e alla fine virtuoso, come il gioco della fortuna raccontato da Mingus a Joni Mitchell: «Non sono ricco, ma ho avuto sempre qualche spiccio in tasca e non so perché, ma quello che toccavo diventava oro»; girovaga di seconda (o terza) generazione, discendente da una famiglia di vaudevillians, il suo peregrinaggio ha sussunto nella capacità interpretativa le visioni di un Paese terribile e dolcissimo, contraddittorio ed esemplare. Certi songwriters americani, d’altronde, intrapresero la vita itinerante per corroborare l’eredità della cultura musicale delle loro terre, da Woody Guthrie a Hank Williams fino ad arrivare – con i debiti distinguo – alla generazione di Joan Baez, Joni Mitchell, Leonard Cohen e Bob Dylan. Soprattutto quest’ultimo, che portò in giro la sua Rolling Thunder Review tra il 1975 e il 1976, una vera e propria carovana ambulante che si esibì in cinquantasette concerti, spesso annunciati qualche minuto prima dell’inizio e lontani mille miglia da ogni autorità che non fosse l’impulso del libero autodeterminarsi. Rickie Lee Jones riparte, in qualche modo da lì, allungando una tradizione che è poi il DNA di ogni ramo fruttuoso della pianta del blues. Riparte con questi «Pieces of Treasure» (BMG), che anticipano una promettente nuova primavera.
A distanza di un secolo da quando le prime songs vennero prodotte per iniziare a confluire in quello che per tutti sarebbe diventato il Great American Songbook, l’album di famiglia di generazioni di musicisti, il vestito buono con cui gli Stati Uniti vinsero la Guerra e polarizzarono l’Occidente per i decenni successivi, Rickie Lee Jones sceglie, sulla soglia dei settanta, di confrontarsi con dieci standards talmente frequentati da suonare, solo apparentemente, come una sfida aperta a precedenti illustri. In realtà, come racconterà lei stessa nel corso di questa intervista, il Great American Songbook è qualcosa che ha molto più a che fare con l’essere e il restare umani, è un viaggio sulle tracce dell’identità propria, familiare e di un popolo che ha saputo raccontarsi, principalmente, attraverso le emozioni delle piccole cose. Ancora una volta si tratta di seguire un percorso, senza forgiare, senza ipotizzare paragoni; declinare, piuttosto, i colori secondo la luce della propria iride. Da There Will Never Be Another You a Nature Boy, da September Song a On the Sunny Side of the Street, Jones illumina le melodie con una voce più matura, che non abbandona i registri quando sensuali quando malinconici che l’hanno resa famosa; ma in ognuno di questi pezzi celebra il valore del passaggio, la capacità trasformativa dell’esistenza e lo fa con arrangiamenti alternativamente tradizionali o desueti grazie al supporto di un produttore di primo rango come Russ Titelman. Fu lui il primo, nel 1978, a fare un balzo sulla sedia quando Lenny Waronker, che aveva da poco preso le redini della Warner circondandosi di professionisti come Tommy LiPuma, Gary Katz e lo stesso Titelman, mandò la demo in cui Rickie Lee cantava Chuck E.’s in Love, Easy Money e Company: nel giro di poche settimane convocò a Los Angeles la giovane troubadour, che portò al successo prima con l’album omonimo (1979) e poi col premiatissimo Pirates (1981).

Russ Titelman e Rickie Lee Jones
credit: Vivian Wang

«Nei giorni di Natale del 2019», ci racconta la cantante, «io e Titelman siamo andati a mangiare nell’Upper West Side di Manhattan. È stato bellissimo rivedere Russ dopo tanto tempo. All’improvviso mi dice: dobbiamo fare un disco di jazz! Suonava più come una minaccia che un invito… ma dopo tanto che ne parlavamo ho accettato volentieri». E così, dopo un assaggio sostanzioso delle capacità sul genere date con «Pop Pop» del 1991 (con l’ottima compagnia, tra gli altri, di Charlie Haden, Robben Ford, Joe Henderson, Dino Saluzzi), Rickie Lee Jones ha sposato un progetto di coerente interpretazione dei «suoi» standard e lo ha fatto in compagnia di Russell Malone (chit.), Rob Mounsey (p.), Mark McClean (batt.) e David Wong (cb.), con i quali ha presentato i suoi Pieces of Treasure al Birdland di NYC.
Quando parla, Rickie Lee Jones è allegra e concentrata, un’ombra di stanchezza malinconica correda la sua evidente resilienza, l’assenza di trucco valorizza i segni del tempo sul viso luminoso; racconta liberamente le sue idee e la sua musica dallo studio di casa a New Orleans, dove appesa al muro ha una invidiabile collezione di chitarre acustiche ed elettriche. Se distrae lo sguardo è solo per guardare fuori dal finestrone, quando vede passare un uccello di raro piumaggio: si ferma ed esclama «Wow!» con l’estasi aggraziata di una bambina; se parla delle sue canzoni, ne canta direttamente un frammento, con intensità e precisione di intonazione che spiazzano l’interlocutore sbalzato dentro un privilegio inatteso.

L’American Songbook, credo tu sia d’accordo, ha grande attualità nel ricordarci attraverso quelle canzoni cosa perdiamo o rischiamo di perdere in termini di umanità; sono piccoli gioielli, un’antologia sentimentale. Come hai scelto questi dieci Pieces of Treasure?
Vedi, ogni canzone è una storia d’amore, una vita fatta di sfumature e ricordi passati; può durare tre o quattro minuti, ma è destinata a riecheggiare ora, proiettata verso l’infinito. È come incidere il proprio nome nel cielo, in attesa che sugli occhi piovano pezzi d’oro. La prima forza attrattiva per me è stata la loro melodia e se essa risuonasse bene nel mio registro vocale, parallelamente ho cercato di evitare un tono troppo malinconico. Come sai, queste canzoni possono davvero scendere in profondità e alcune delle più grandi sono anche quelle più tristi. Bisogna stare molto attenti quando le si interpreta. Ci sono Here’s That Rainy Day, September Song, It’s All in the Game, quindi ho dovuto scegliere con cura come distanziarle tra loro. Voglio solo che, dopo aver ascoltato il disco, il cuore delle persone si elevi, esca migliore. Non importa quanto la canzone sia triste, se vieni elevato dalla sua interpretazione accade ciò che mi auguro.

Ascoltando fino alla fine It’s All in the Game, che chiude l’album, si può distinguere qualcosa che sembra un pianto, una forte commozione. È così?
Ci sono molti singhiozzi in questo album. Non credo, ripensandoci, che stesse accadendo nulla a livello personale; cantare la canzone è stato però come immergersi in acque profonde e trovare soluzioni. Finisco sempre dentro un picco di emozioni ed è come indossare una muta senza gomma; sono fatta così, ma è ciò che mi consente di entrare in modo immediato in un feeling; diventa tutto molto concreto e reale per me, anche il solo fatto di parlarne adesso evoca quello stato e ogni tanto mi spinge a dire: «Scusami, dev’essere che sono un po’ raffreddata» …

Rickie Lee Jones
Beret Logo Photo

Qualcosa del genere sembra accada anche in September Song
Mi sono concentrata nell’articolare questa canzone più di quanto non avessi fatto con qualunque altro testo nella mia vita. Volevo che tutti potessero ascoltare ciò che avevo da dire, volevo far capire con quanta profondità, quanta acutezza ogni cosa venga percepita un istante prima che cessi di esistere. C’è una foglia autunnale, c’è la luna, c’è il tuo volto. C’è la vita che è rivolta ai vecchi, che ne addolciscono il senso, perché sanno che il mondo appartiene ai giovani

Dopo molti anni, dicevi, sei tornata a lavorare con Russ Titelman, che ha prodotto il disco. Nella tua esperienza, quanto è importante la figura del produttore per arrivare ad un risultato soddisfacente, per dare alla musica la giusta struttura?
Penso che il produttore sia, come dire, la casa in cui vivi. O meglio: stai per andarci a vivere e ti porti dietro il produttore; è come se loro riuscissero a vedere il film prima che venga montato. È già il loro film! Hanno una visione esatta di ciò che potrebbe essere, nel caso di «Pieces of Treasure» questa visione l’abbiamo condivisa. Ma io non ho mai, mai, mai davvero capito quanto sottile e profondo fosse il suo lavoro, finché non abbiamo finito di registrare; perché la cosa inspiegabile è questa: tira fuori il meglio di me. Se sono in studio, sono sicura di poter dire a chi c’è lì come settare un microfono, fare questo o fare quello; anzi, se mi ritrovo con un gruppo di uomini, la prima cosa che faccio è cercare di sfondare questa specie di muro invisibile. Ma se ho un sostenitore, cioè il mio produttore, è lui l’unico con cui parlo davvero; e quando è sensibile, pieno d’amore per ciò che stiamo facendo, allora canto solo per lui e non mi confronto con altri. L’obiettivo di quel che faccio si raggiunge mettendo da parte il proprio ego e lasciandosi andare, ecco perché tutto ciò di cui ho bisogno posso comunicarlo a lui; è chiaro, riconosco di aver bisogno di tutte queste persone che lavorano con me e lo fanno egregiamente. Col passar del tempo, ho capito che per arrivare al risultato mi serve solo questo: entrare in studio e cantare. Cantare e basta, non voglio occuparmi d’altro.

Rickie Lee Jones e Russ Titelman
credit: Vivian Wang

Mi è molto piaciuta la tua versione di Nature Boy, che è una song un po’ strana, irregolare nella forma. Come l’hai scelta?
È una delle canzoni che mi ha insegnato il mio papà, era settembre, avrò avuto undici o dodici anni, l’ho imparata in un paio di giorni e da allora, per quanto distante la vita mi abbia potuto portare, mi riecheggiano in testa quei versi meravigliosi: «The greatest thing you’ll ever learn, is just to love and be loved in return» [è la prima volta che durante la chiacchierata la canta, con emozione condivisa, ndr]. Mi piace la sua melodia ma mi piace ancora di più la sua stranezza, è una canzone che sembra vagare, non andare da nessuna parte ma va bene così. Ho davvero sentito mio padre accanto a me mentre la registravo, è successo anche in un altro paio di canzoni di questa seduta.

L’hai valorizzata con un arrangiamento molto particolare: c’è una lunga intro con l’oud di Ara Dinkjian, la canzone si mette un vestito mediorientale con i tuoi interventi vocali e poi vira su altri colori ancora.
Questa era esattamente l’idea che Russ voleva realizzare. Io desideravo che avesse un gusto particolare ma non avevo chiaro in mente quale, e così lui ha portato in studio Ara Dinkjian, al quale ho fatto ascoltare per un paio di minuti la canzone. E Ara se n’è uscito con quell’introduzione così bella che hai ascoltato, l’abbiamo rimodulata per interpolarla con quella che era la nostra versione, ci ho cantato un po’ sopra e alla fine il risultato è stato sopra le nostre aspettative.

Tutti questi brani hanno, ovviamente, illustri interpreti che si sono succeduti nella storia, sia in versioni strumentali sia cantate. Immagino che la sfida fosse nel cercare di non imitare nessuno, ma tirare fuori la «tua» storia.
Non ho mai pensato che l’imitazione potesse essere un problema, per una semplice ragione: le canzoni sono dentro di me, non fuori. Ma vogliamo che voi, gli ascoltatori, non pensiate neanche per un istante a nessun altro. In un paio di brani questa impostazione è stata più difficile da affrontare e superare: uno è Nature Boy e l’altro It’s All in the Game, perché in questi casi le incisioni fatte negli anni Cinquanta sono davvero definitive, uniche. Quindi volevo realizzare una versione che non avesse nulla a che fare con quei precedenti, che gli ascoltatori avessero qualcosa di nuovo. È rimasta la mia speranza che in It’s All in the Game ci fosse una novità, è diventato un pezzo quasi parlato, sussurrato, volevo creare l’attesa di una piccola dolce serata fuori con un uomo per te importante. Se lo hai vissuto, sai come ci si sente nei momenti in cui aspetti che qualcuno ti chiami ma sai che potrebbe non chiamarti mai. Ci siamo passati tutti, quindi mi sono rivolta all’esperienza condivisa di ciò che potrebbe salvarci l’anima. «Abbi coraggio!» Questo è il messaggio della canzone.

On the Sunny Side of the Street diventa con te una canzone piena di diverse possibilità emotive, tristezza e felicità. Hai scelto di eseguirla in duo con un maestro della chitarra come Jon Herington, che qui ha un suono molto acoustic folk, quasi vintage.
Si tratta di un altro pezzo che mi ha insegnato papà quando avevo otto anni; qui ne ho fatto una versione carica d’affetto, volevo ricordare le persone che sono passate nel guazzabuglio della Grande Depressione con una canzone piena di speranza e di grazia. Come mio padre o mio nonno, Peg Leg Jones, che ai suoi tempi cantò questa canzone dal vivo. Una volta mi dissero che con la mia voce potevo «cantare un sorriso» e penso che un sorriso passi attraverso tutte le canzoni di questo album; e allora mi torna in mente un artista il cui sorriso era talmente ampio da non poter evitare di metterlo in tutto ciò che cantava o suonava: Louis Armstrong. Sento di aver condiviso questa gioia con Louis, la gioia di cantare, perché queste caratteristiche riassumono in fondo tutte le mie interpretazioni: l’emotività e il sorriso. E poi, sì, Jon Herington! Più che accompagnarmi, è diventato una parte stessa della canzone; ci siamo incontrati e ne abbiamo parlato un paio di volte in un bistrò, avevamo entrambi la nostra idea personale della canzone ma poi, diamine! ha funzionato davvero. Siamo esseri umani che fanno musica nello stesso modo in cui amano le persone.

Credit: Astor Morgan

Come ti sei avvicinata al jazz?
Ho iniziato ascoltando i grandi musicisti jazz, bluegrass, rock, molti sono finiti sulle mie pareti. Riguardo al jazz devo dire che è strettamente connesso al rapporto con mio padre. Detto questo, non mi piace perdermi troppo in definizioni sui generi musicali… Vedi, le canzoni popolari dei miei genitori erano altrettanto belle e divertenti e poi mi ricordano quanto li amassi. E così, quando le canto, ho l’impressione che mio padre e mia madre siano felici.

Hai vissuto in città diverse e girato gli Stati Uniti in lungo e largo. Credi che l’ambiente possa influenzare la tua musica, le tue canzoni?
Uhm, interessante. Ho sempre pensato che l’ambiente non avesse molto a che fare con la mia musica; ho sempre sentito che quella provenisse dal mio mondo immaginario nel suo evolversi, più che da dove vagassi in un momento o l’altro della vita. Ma quando sono arrivata qui a New Orleans qualcosa è cambiato; è una città piena di musica, è ciò che connota la loro identità e io ho iniziato lentamente a entrarci dentro, in parte perché è musica che non ho mai suonato e quindi avrei potuto imparare tanto, e in parte perché porta dentro una gaiezza che mi è congeniale e potrei usare. Quindi, in questo caso, credo che New Orleans stia influenzando la mia scrittura… Quando ascolterai il mio prossimo lavoro, credo che sentirai come ho incorporato quell’ambiente nella musica.

Non vedo l’ora! A proposito di New Orleans, so che hai lavorato con Mac Rebennack, ovvero Dr. John, che di quella città è stato una delle anime nobili e maledette. Avete registrato insieme «Makin’ Whoopee», che è stato un successo e ha incassato un Grammy…
In quel periodo, Tommy LiPuma era il suo produttore, e stiamo parlando di uno dei più importanti nel panorama jazz. Dunque, e devo essere onesta fino in fondo, la carriera di Dr. John era in un momento di stallo, non andava da nessuna parte. Così quei due decisero di fare un album di standard jazz, «In a Sentimental Mood», e fu questo a determinare la mia partecipazione a quel progetto, che riuscì a cambiare la traiettoria della carriera di Mac. Tommy mi chiamò a collaborare, incisi due takes e tornai a lavorare al mio album, però fu fantastico davvero, mi ricordo di essermi divertita molto con loro. Anche per Mac fu importante avere un successo di tale portata.

Nella tua carriera hai lavorato per etichette indipendenti e grandi compagnie. Che tipo di mondi differenti sono?
Mah, sai, il mio è un percorso abbastanza unico, quindi non posso rispondere in generale e la mia storia è questa: ovunque io vada, devo avere il controllo di ciò che faccio. Che siano piccole o grandi, sanno sempre chi stanno ingaggiando, quindi alla fine tutto si riduce a una questione di soldi. Può darsi che una piccola etichetta chieda prestiti o anticipi e sia in grado di pagare di più, ma una grande compagnia può essere più capillare nella promozione; però si tratta di faccende che non hanno nulla a che fare con il pieno controllo artistico che voglio io, e quindi la mia scelta cade sempre sulla presenza di qualcuno che voglia esaudire questa mia richiesta.

Le esperienze, le collaborazioni accumulate si sono snodate attraverso quella che tu descrivi come la vita di una troubadour in Last Chance Texaco, la tua autobiografia. Che significa per te vivere con questo spirito nomade?
È abbastanza semplice: è ciò che sono, ha a che fare con il vivere tutta la vita sopra un palco ed essere orgogliosa, alla fine di una carriera popular, di poterci essere ancora; questa è la mia identità, non si tratta di ciò che faccio, si tratta di ciò che sono e io sono una cantante.

Credit: Astor Morgan

Nel libro scrivi: «Dopo tutti i nostri progetti, troppo spesso il destino è deciso da fattori incontrollabili». È una visione in qualche modo pessimista?
Ma no, non credo. Anzi, credo di essere una donna ottimista, che non smette di fare progetti e cerca di realizzarli. Nessuno sa cosa accadrà, ma la mia natura vira in senso positivo. È ovvio, ho avuto momenti difficili in cui sono caduta, come chiunque; è difficile, è faticoso, ma per quanto possa durare poi ci si risolleva. Anche la carriera, come dico alla fine del libro, è un qualcosa che respira come ogni altro organismo. Ci sono anni buoni e cattivi, grandi decenni e altri tremendi. Sono lieta di aver vissuto abbastanza da poterlo dire e da poterci credere; ho avuto le più grandi occasioni, ho vissuto una vita di destino e possibilità e alla fine sono contenta di potermi presentare anche ai più giovani e farmi ascoltare per chi veramente sono adesso.

Scrivere la tua storia è stata anche il modo per confrontarsi con le ombre del passato? Come hai deciso di scrivere un’autobiografia?
Perché pensavo che la mia famiglia e la mia vita fossero straordinariamente narrative, brillanti, adatte a diventare un romanzo, e che quindi meritassero di essere scritte. Le ragioni sono state molteplici: in primo luogo si tratta di una storia americana che sta scomparendo, ho una famiglia, degli avi che hanno passato momenti difficili. È la storia di un gruppo in perenne movimento, di un viaggio, la mia famiglia è unica, i miei parenti sono stati dei vaudevillians e anche questo è unico. Ecco perché ho ritenuto che meritassero di essere raccontati, anche per la ricchezza delle vicende che ho ascoltato fin da quando ero piccola. Chissà, magari mi sentivo anche un po’ in colpa per essere alla fin fine l’unica di loro della quale si parlasse, così ho pensato che tutti loro meritassero di essere raccontati così da restare nella memoria per sempre.

Posso chiedere che rapporto hai con il tempo che passa? È liberatorio o difficile per te?
Beh, nel mio caso è assolutamente liberatorio. Vedi che la fine non è poi troppo lontana, e allora ti alzi in piedi e ti affretti ancora di più. Voglio cercare di fare tutto quel che ho in mente senza perdere tempo, e voglio farlo nel miglior modo possibile. Sono disposta a chiamare chiunque per poi supplicarlo di leggere le mie cose, non hai idea della botta di energia. E poi, sai, questa storia della bellezza… Di solito la si lega all’età, ma ho visto donne anziane irradiare una tale lucentezza da farti capire con la massima precisione dove risieda la bellezza vera. Mi piace pensare di essere importante, di ispirare le persone a essere fiduciose e dare speranza nel loro viaggio. Davvero, è questa la cosa che voglio.

Restando su temi un po’ polarizzanti, il tuo rapporto col successo qual è?
Sta’ a sentire, certo che il successo è molto meglio del fallimento, però dipende da che accezione gli dai, da quale definizione scegli per il successo. Stiamo parlando di soldi? Riconoscimento? Capacità di continuare a lavorare? Queste sono grandi cose. Quando decidi di realizzare un progetto, qualunque esso sia, e per caso fallisci, hai l’occasione di farlo meglio la volta successiva. Non sono certo una sostenitrice del fallimento, ma voglio decidere prima, fin da subito, cos’è il successo, così da sapere in seguito se l’ho raggiunto oppure no. Mi spiego meglio: molte case discografiche non ti dicono mai se sono contente del tuo lavoro; potresti pure vendere un milione di copie e loro si comportano come se avresti dovuto fare di più, metterci più del tuo. Quindi devi decidere in anticipo se tale situazione è per te un successo e poi esserne felice. Questa è la mia saggezza attuale.
«Ma guarda che incantevole uccellino! Aspetta, prendo il telefono per fotografarlo», sbotta Rickie Lee guardando fuori dalla finestra, mentre le si allarga un sorriso pieno di incanto. Mantiene anche intatta la sua antica passione per il giardinaggio e consiglia di vedere le foto che lascia su Instagram: «l’altro giorno ho messo immagini di magnifici tulipani, finalmente sono sbocciati! In fondo, si tratta di saper guardare la vita dentro qualcosa che cresce o è già cresciuto». La vita, ecco la parola, il tesoro di cui i dieci brani di questo disco sono alcuni dei «pezzi».
Paolo Romano