Quando Hair esordì il 17 ottobre 1967, al Public Theater dell’East Village newyorkese, non fu accolto da critiche completamente benevole. Un po’ di pubblico riuscì comunque a catturarlo, e tanto gli bastò per ottenere finanziamenti sufficienti a traslocare a Broadway. Qui ebbe una nuova «prima» il 29 aprile 1968 e fece il botto. Di colpo la storia di quegli hippies abbigliati con l’intero catalogo della controcultura, all’ombra del conflitto in Vietnam e della rivoluzione sessuale, divenne uno spettacolo di successo e altrettanta fama si conquistarono le musiche scritte da Galt McDermot su testi di James Rado e Gerome Ragni. Come pani e pesci, anche brani come Aquarius, Good Morning Starshine, I Got Life, Let the Sunshine In iniziarono a moltiplicarsi in versioni d’ogni genere e taglio.
Su quel tesoretto si lanciò anche Mort Garson, un canadese classe 1924 trasferitosi da ragazzino a New York per studiare musica alla Juilliard School, dalla quale uscì pianista e arrangiatore. Ai tempi in cui Garson mise mano alle musiche di Hair la sua carriera aveva già svoltato, o meglio, si era del tutto ribaltata rispetto ai primi passi negli anni Cinquanta. L’anno fatale era stato il 1967, il luogo l’Hollywood Roosevelt Hotel di Los Angeles, l’occasione la convention della Audio Engineering Society, l’associazione professionale nel campo della tecnologia audio, e l’uomo che illuminò la via a Garson si chiamava Robert Moog. Fu da quel momento che il Nostro si dedicò a concepire e realizzare musica per il sintetizzatore messo a punto da quell’ingegnere newyorchese che tanto somigliava agli inventori matti della proto-fantascienza. Scelse il meglio, a parer suo, di Hair e registrò «Electronic Hair Pieces», album pubblicato dalla A&M nel 1969 e mai più ristampato, non considerando il bootleg pubblicato nel 2015 dalla tedesca Fifth Dimension. È l’unico disco del magnum opus garsoniano a mancare oggi all’appello, poiché da qualche anno la Sacred Bones, etichetta discografica indipendente di New York, ha avviato un prezioso piano editoriale di ristampe e inediti, tuttora in corso. L’ultima uscita è dello scorso luglio: un recupero di materiale vario pubblicato con il titolo «Journey to the Moon and Beyond».
Gli arrangiamenti che Garson realizzò per le musiche di Hair, a base di moog e percussioni, mescolavano bizzarro e orecchiabile. Il trattamento di Three-Five-Zero-Zero, per esempio, è singolare, per metà composto da rumore proto-industrial e per metà dolcemente melodico. Le canzoni originali erano per loro natura leggere, ma Garson conferì all’insieme un andamento traballante e un po’ alieno, con la voce cinguettante del moog e ritmi meccanici consoni più a una macchina che a un hippie strafatto. Talora aleggia una vaga cupezza, come Let the Sunshine In che non è del tutto luminosa. Infine, una nota la merita la strepitosa copertina che riporta il volto di una modella, bianco come un calco pompeiano tanto da parere un manichino, salvo ciglia e sopracciglia psichedeliche, calva ma con un nugolo di cavi che le spuntano dal cranio al posto dei capelli («hairpiece» in inglese è il parrucchino, da qui il gioco di parole: e Garson di capelli in testa ne aveva ben pochi). Metà gorgone, metà cyborg, una rappresentazione perfetta della musica che si andava a proporre: una mostruosità elettronica.
Il musicista canadese fu tra i mattatori di quella Moog Era che segnò l’apice dell’elettronica analogica. Una febbre trasversale che contagiò tutti i generi grazie a qualche genio e a una pletora di onesti professionisti e di mestieranti d’ingegno, cosicché tra chi si innamorò di quei suoni via via più sofisticati e chi inseguì la moda del momento, tra coloro che ne intuirono le potenzialità e quelli che ne fiutarono le opportunità commerciali, a partire dalla fine degli anni Sessanta il pianeta vide un’invasione di ultrasuoni e di strane macchine di cui non c’era stata più traccia da quando, nel decennio precedente, si avvistavano frotte di oggetti volanti non identificati.
La Moog Mania esplose come un big bang. In un certo senso il suo rumore di fondo è ancora percepibile, anche perché dietro quel fenomeno non c’era soltanto una novità che l’industria discografica non perse tempo a sfruttare appieno, e non si trattò unicamente di una rivoluzione sonora dovuta alla nascita di uno strumento complesso e versatile come non si vedeva dai tempi del pianoforte: i sintetizzatori erano anche messaggeri della volontà di potenza della macchina e, a ben vedere, i primi vagiti del post-umano, del virtuale e di tutte le altre speculazioni dei tecno-gnostici californiani, emessi dai marchingegni di Bob Moog prima di assumere altre forme.
Tornando alla musica, tutto iniziò nel 1964 in occasione dell’edizione newyorchese della già citata convention dell’Audio Engineering Society. Fu lì che Robert Moog, fino ad allora arrangiatosi costruendo e vendendo dei theremin in kit di montaggio per mantenersi agli studi, presentò il suo primo modello di sintetizzatore: un insieme di scatole contenute in un mobile di legno, ciascuna scatola sede di un circuito con determinate funzioni. I circuiti condividevano lo stesso percorso di alimentazione elettrica e potevano essere adoperati mediante spezzoni di cavi audio, decidendo volta per volta quali circuiti collegare, un po’ come i vecchi centralini. La possibilità di impiegare moduli e spezzoni di cavi audio fece sì che nel 1967 il nuovo strumento venne definito dal suo creatore «sintetizzatore modulare» e proposto in taglie piccole (il Moog Modular System 15) o enormi come il Moog 3C. La macchina, come un robot asimoviano, era talmente legata al suo creatore da assumerne il nome, divenuto a un certo punto anche sinonimo stesso di sintetizzatore.
Il dado era tratto e l’invenzione compiuta: si trattava di catturare l’interesse degli addetti ai lavori. Bastò un volano costituito da un manipolo di audaci per far spiccare il volo al moog e segnare la fortuna del suo creatore, che l’ebbe vinta sul concorrente David Buchla (anche in questo secondo caso lo strumento prese il nome del suo progettista). Già in quell’ottobre del 1964 qualcuno notò il nuovo strumento, e poco dopo Moog iniziò a venderne qualche esemplare. Certo è che lui non perdeva la minima occasione, recandosi di persona nei meeting professionali e alle fiere a promuovere la sua creatura. Si era anche affidato a tre venditori per coprire quelle che riteneva le tre piazze principali: New York, Los Angeles e Londra. E qui entra in scena il primo dei personaggi chiave dell’intera faccenda: Paul Beaver, musicista e rappresentante di Moog/moog sulla West Coast. Beaver era tra i pochi a sapersi destreggiare con quel nuovo oggetto, dall’allestimento all’esecuzione, cosicché, come il prezzemolo, presenziò a tutte le gesta del neonato strumento a iniziare dalla prima uscita ufficiale su disco.
Si deve quindi tornare a quella convention del 1967, all’incontro tra Moog, Garson, il moog e Beaver, il quale dava dimostrazioni della versatilità dello strumento. Garson, invece, era al lavoro su un progetto sonoro piuttosto bislacco, all’altezza dei tempi, un disco dedicato ai segni zodiacali. L’idea era del giovane fondatore nonché presidente della Elektra, Jac Holzman, ai tempi impegnato a far transitare l’etichetta dalle sonorità folk a quelle elettriche ingaggiando la Paul Butterfield Blues Band, i Love e soprattutto i Doors. Holzman stava cercando qualcosa che potesse risultare attraente per il popolo dell’underground. Siamo sempre ai tempi di Hair, all’età nascente dell’Acquario, e l’astrologia impazzava (anche qui primi vagiti, quelli della new age). Nacque così «The Zodiac Cosmic Sounds», con musiche psichedeliche scritte, arrangiate e dirette da Garson su brevi testi di Jacques Wilson narrati da Cyrus Faryar e in studio, a registrare con loro, anche valenti jazzisti come l’onnipresente Bud Shank. Il retro di copertina forniva alcune preziose informazioni. Ordinava perentoriamente di ascoltare il disco al buio, probabilmente per valorizzare al meglio i suoni decisamente weird del moog affidato a Beaver, e indicava il segno zodiacale di tutti i partecipanti, da Holzman, (Vergine) a Garson (Cancro) passando per Beaver (Leone). Apriva le danze Aries, con il suono di un oscillatore che si trascinava dietro i musicisti in studio in un crescendo interrotto all’improvviso per consentire alla voce da un altro spazio di Faryar di fare il suo ingresso, annunciando «Nove volte il colore rosso esplode come sangue incandescente: la battaglia è iniziata!». Le musiche alternavano momenti più pastorali ad altri concitati e psichedelici, di sapore orientale, con passaggi spaziali, cioè i suoni del moog.
Beaver e il suo collaboratore Bernie Krause capirono che qualcosa di grosso bolliva in pentola e che era il caso di andare fino in fondo. Oltre a prestare servizio in un bel po’ di dischi, la coppia produsse diversi lavori, inaugurando la Nonesuch, nuova sotto-etichetta dell’Elektra che, nelle intenzioni di Holzman, doveva dedicarsi a musiche accademiche, in particolare d’avanguardia o barocche. Fu così che, per guadagnarsi credibilità, il discografico puntò forte sul moog e produsse nel 1968 «The Nonesuch Guide to Electronic Music», un doppio album che dava modo alla ditta Beaver & Krause di far sfoggio della loro abilità di esecutori e delle meraviglie sonore che traevano dal nuovo strumento.
La coppia Beaver & Krause andò avanti e realizzò qualche altro disco, tra cui il celeberrimo «Gandharva» che vantava le partecipazioni di Mike Bloomfield e Gerry Mulligan, fino a quando, nel gennaio del 1975, al termine di un concerto, Beaver fu colpito da un aneurisma cerebrale che in un paio di giorni se lo portò via. Pare che della sua morte imminente avesse già avuto sentore una settimana prima. La sua appartenenza a Scientology, poi, aggiunse altro condimento al minestrone dell’ideologia californiana, quel lato oscuro che toccò il suo zenit con Charles Manson. Quanto a Mort Garson, il dado era tratto. Il futuro era nel segno del moog, altro che Scorpione o Bilancia! Eppure il compositore e arrangiatore canadese aveva tutt’altri trascorsi. Il suo mondo era quello dell’easy listening e della popular music: aveva anche scritto un brano divenuto un hit nel 1963, Our Day Will Come, portato in classifica da una formazione di r&b di Akron, Ohio, Ruby & the Romantics, e poi finito anche in tempi recenti nel repertorio di molti artisti, come Amy Winehouse. Ancora più luccicante la sua carriera di arrangiatore al servizio dei Sandpipers per la loro versione multimilionaria (1966) di Guantanamera, prodotta da un giovane Tommy LiPuma, e addirittura prima (fine 1964) il lavoro per Doris Day (si ascolti la versione di Sentimental Journey, sul bell’album omonimo, per capire quanto Garson sapesse quali corde… toccare), e poi ancora arrangiando la sezione d’archi di By the Time I Get to Phoenix, brano di Jimmy Webb che, nella versione di Glen Campbell, sbancò le classifiche e divenne un classico ripreso da mezzo mondo; ma l’elenco degli artisti con cui Garson collaborò lungo tutti i Sessanta è ben più esteso e variegato, da Mel Tormé – You Don’t Have to Say You Love Me, cover di Io che non vivo (senza te) di Pino Donaggio – agli Hollyridge Strings.
Alle soglie della sua conversione al suono elettronico, Garson aveva sfornato alcuni album di raffinato easy listening, una sua declinazione sentimentale dell’exotica con l’album «Sea Drift» a nome Dusk ‘Til Dawn Orchestra, e soprattutto «Love Sounds» intestato a The Love Strings of Mort Garson, easy listening para-jazzistica di gran classe e formidabile nel suo genere, disco concepito come un commento sonoro alla vita di una giovane coppia in una metropoli prototipo della giungla di cemento, tra grattacieli incombenti e folle senza volto. Un film sonoro ricco di inquadrature montate con disinvoltura, che passano dal jazz a echi barocchi, dal blues a melodie carezzevoli. Ma ormai si era nel 1968 e Garson, al bivio dopo la realizzazione di «The Zodiac Cosmic Sounds», non ebbe dubbi, anche perché il moog stava guadagnando consensi. Avevano iniziato a farne uso, per esempio, un paio dei musicisti presenti proprio alle sedute «zodiacali». Il primo a farsi avanti era stato il leggendario batterista Hal Blaine, membro del collettivo Wrecking Crew, quel gruppo di musicisti di studio, di base a Los Angeles, che forniva servizi di alta qualità laddove occorresse gente per registrare. Blaine sfornò «Psychedelic Percussion», una mezz’ora di musica a base di percussioni (opera sua) e di psichedelia fatta da suoni elettronici spruzzati qua e là da un moog: suonato, guarda un po’, da Beaver. Coevo fu il disco di un altro membro della Wrecking Crew, l’altrettanto leggendario vibrafonista e percussionista Emil Richards (ovvero l’italo-americano Emilio Radocchia, 1932-2019). Intitolato «Stones», e intestato a un fantomatico Emil Richards New Sound Element, ricalcava la logica dei segni zodiacali dedicando ciascun brano a una pietra associata a un mese dell’anno. Richards restò indifferente alle suggestioni psichedeliche, puntando su facili motivetti e lasciando al moog il compito di realizzare i new sounds. Inutile dire chi fosse a suonarlo.
Ma ci fu un’altra coppia che spostò gli equilibri, facendo del moog lo strumento di una nuova era: quella composta dal francese Jean-Jacques Perrey e dal tedesco – poi statunitense – Gershon Kingsley. Entrambi edificarono negli anni una cospicua discografia personale nonché una parallela in duo, da cui erano partiti pioneristicamente nel 1966 con un album poi divenuto di culto: «The in Sound From Way Out!», che ricorreva a suoni preregistrati e a una ondioline, tastiera elettronica della prima ora, per generare sonorità del futuro: in pratica un mix di motivi orecchiabili forniti di un sound insolito, esplicitamente macchinico. Presto la coppia passò al moog, sin dal secondo disco, «Kaleidoscopic Vibrations: Spotlight on the Moog» dando inizio ai rifacimenti di grandi successi riadattati e alternati con propri brani, una formula che di lì a breve avrebbe spopolato. Qui i due infilarono hit ed evergreens come Lover’s Concerto, Stranger in the Night, Winchester Cathedral e via di seguito. Anni dopo, nel 1970, Perrey compose un vero inno della psichedelia elettronica, E.V.A., mentre Kingsley varò addirittura un Moog Quartet e scrisse Popcorn, che nella versione (sempre per moog) degli Hot Butter fece il bello e il cattivo tempo nelle classifiche del 1972; ma l’elenco delle loro stranezze sarebbe troppo lungo da riportare per intero.
Insomma nella seconda metà dei Sessanta, i segnali di un imminente «big bang» c’erano tutti. Anche i gruppi rock e pop avevano iniziato a maneggiare lo strano strumento di Robert Moog. Gli Electric Flag di Mike Bloomfield lo usarono per la colonna sonora del film The Trip, affidando il compito di suonarlo all’onnipresente Beaver e intrecciando una volta di più stadi superiori di coscienza, visionarietà ed elettronica. Si era ancora nel 1967, e a fine anno un altro gruppo impiegò il moog: i Monkees per il loro «Aquarius, Capricorn & Jones Ltd.», quando in qualche modo smisero di scimmiottare gli altri e iniziarono a prendere possesso della loro musica. Il fascino dei segni zodiacali colpì anche loro: stavolta a comparire c’erano soltanto quelli dei quattro membri della band. Ancora, non vale la pena precisare chi suonò il moog in quelle sedute… e sempre Beaver si presentò alla chiamata dei Byrds, che vollero usare il nuovo strumento nelle registrazioni di «The Notorious Byrd Brothers», producendo anche un album dei Sagittarius (ennesimo segno zodiacale!), «Blue Marble». Si trattava di un gruppo inesistente, composto da sessionmen convocati da Gary Usher, cantautore poi diventato produttore per la Columbia e che aveva lavorato nel disco di David Crosby e compagni. Per non essere da meno, la no-band usò il sintetizzatore in diversi brani. E suoni distorti emanati da un moog spuntarono fuori pure in «Bookends» (1968) di Simon & Garfunkel per aprire il brano Save the Life of My Child.
La svolta, quindi, era nell’aria. L’uomo della provvidenza – uomo ancora per poco, comunque – si chiamava Walter Carlos e arrivava dalla Columbia University, dove studiava e faceva pratica con i suoni elettronici avvalendosi di un insegnante di tutto rispetto, il russo (ma nato in Cina) Vladimir Ussachevsky, uno dei pionieri della musica elettroacustica, che insieme a Otto Luening aveva fondato il Columbia-Princeton Electronic Music Center. Fu proprio Ussachevsky a suggerire al suo allievo più promettente di fare una capatina alla convention AES di New York nel 1964, e fu lì che Carlos conobbe Moog. I due si intesero a meraviglia e per qualche anno lavorarono alla messa a punto di uno strumento su misura per il geniale musicista, già alle prese con problemi d’identità di genere. Lui/quasi lei aveva preso a studiare il suono elettronico come sfida al mondo accademico da cui rifuggiva. La sua prima composizione, che risaliva all’anno precedente l’incontro con Moog, si guardava bene dal considerare melodia, armonia e ritmo, ed era iconoclasta sin dal titolo: Dialogues for Piano and Two Loudspeakers.
Era nella musica elettronica Carlos che cercava la riconciliazione con la grande tradizione, ma ancora non disponeva di uno strumento all’altezza. Moog cambiò tutto, e quando alla fine del 1968 venne pubblicato «Switched-On Bach», i circuiti della macchina si integrarono a meraviglia con le visioni di Carlos, mentre il contatto tra futuro e passato scatenò un cortocircuito mentale tra gli ascoltatori.
Risultato: il disco scalò rapidamente le classiche diventando il più venduto nella storia della musica classica e scalzando la leggendaria versione di Van Cliburn del primo Concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskij, che pareva insuperabile; si aggiudicò premi e legò per sempre il nome di Carlos a quello del moog, mentre gli elogi fiorivano. E che elogi! Basterà ricordare che tra gli entusiasti vi fu Glenn Gould. Tutto meritato: Carlos suonava ogni singola voce delle partiture bachiane, tutte distintamente ascoltabili, e al tempo stesso ri/creava quella musica. Accuratezza filologica, novità timbrica e maestria nella realizzazione fecero la differenza. In seguito, il compositore pubblicò altri lavori rileggendo il barocco, cambiò sesso diventando Wendy e abbandonò l’analogico per il digitale all’alba degli Ottanta, quando scrisse la colonna sonora di Tron (1982).
Tolto il tappo, venne fuori di tutto. Fin da subito spuntarono emulazioni/variazioni dell’ormai celebre titolo a seconda del repertorio prescelto, dischi spesso di improbabile valore musicale ma indicativi del fenomeno. Sotto pseudonimo (Christopher Scott) Perrey si cimentò con «Switched-On Bacharach» (1969), Kingsley replicò con un disco fatto a quattro mani con lo strambo pianista classico Leonid Hambro intitolato «Switched-On Gershwin» (1970), una fantomatica The Moog Machine propose «Switched-On Rock» (1969), Gil Trythall azzardò un «Country Moog (Switched-On Nashville)» nel 1970, Sy Mann andò sull’ultra-sicuro con «Switched-On Santa» (1970) e i Moog Machine alzarono la posta con «Christmas Electric» (1970). A queste si affiancarono altre operine che ripescavano repertori eterogenei o insistevano sul repertorio classico, per esempio l’esilarante «Chopin à la Moog (With a Lot of Strings Attached)», un album del 1970 di Hans Wurman, oppure si affidavano alle tradizioni nazionali come in «Moog Espãna» di cui fu colpevole Sid Bass nel 1969 condendo con l’elettronica Granada, Malagueña e altri evergreens iberici. Soprattutto, però, ci si affidava ai successi rock e pop del momento, e probabilmente a un censimento accurato non si salverebbe nessuno.
Basti qui ricordare un paio di titoli, a iniziare da «Moog!» (1970) album intestato a Claude Denjean and His Moog Synthesizer, che si lanciava nella mischia con numeri uno del calibro di Venus, Bridge Over Trouble Water, Nights in White Satin, Come Together, Proud Mary e altri ancora. Altrettanto solida la selezione proposta in «Moog Groove» (1969) della Electronic Concept Orchestra, che aveva tra i suoi pezzi migliori Aquarius, Hey Jude, Penny Lane, Oh Happy Day e Windmills of Your Mind. A sua volta, Marty Gold calò gli assi con «Moog Plays the Beatles» (1970). Inevitabilmente il fascino del moog iniziò a catturare anche il mondo dell’easy listening, non solo il veterano Gold. Nella mischia si lanciò subito Les Baxter, uno dei signori dell’exotica. Con furbizia, il suo disco si intitolava «Moog Rock» ma in realtà, a parte la coppietta di giovani à la page in copertina, proponeva un repertorio classico ma proprio classico: Borodin, Chopin, Debussy, Rachmaninov, Grieg e Bach. Altri signori della space-age, dell’easy listening e dell’exotica si diedero da fare. Un direttore d’orchestra avvezzo a sbrigarsela con tutto, Hugo Montenegro, disse la sua con «Moog Power» (1969); a sua volta Martin Denny riprese qualche classico dell’exotica – ma non solo – in «Exotic Moog» (1969), mentre un tuttologo di alto livello come Dick Hyman sparò due bordate non trascurabili con «Moog: The Electric Eclectics of Dick Hyman» e «The Age of Electronicus», entrambi del 1969.
Si sfiorava insomma la follia, il kitsch, il becero opportunismo, ma un pizzico di genialità lo si trovava sempre, magari soltantoo un grammo, come nel caso di «The Plastic Cow Goes MOOOOOG» (1969), disco intestato a Mike Melvoin che vedeva alle tastiere i soliti Krause e Beaver. Troneggiava in copertina una mucca coeva a quella di «Atom Earth Mother», ma con tanto di cavo collegato a una presa elettrica e nuvoletta da fumetto con scritta, diciamo, onomatopeica: Mooooog (sic!). La scaletta mozzafiato includeva: Spinning Wheel, Born to Be Wild, Sunshine of Your Love, Lay Lady Lay, Lady Jane e The Ballad of John and Yoko. Resta il fatto che la fascinazione di quell’epoca per le mucche è tuttora uno dei misteri irrisolti dell’età tardo-moderna. Prova ne sia che spuntò fuori anche un altro album, tutto di musiche country oriented eseguite al moog: «Switched-On-Country» di Rick Powell: ancora con una mucca in copertina, nuvoletta che più sobriamente recitava soltanto «MOOG», ma con le mammelle sostituite da valvole…
Operazioni quantomeno stravaganti, il cui merito principale fu nel complesso di creare familiarità con suoni altrimenti alieni, creando un gusto, dando cittadinanza agli strumenti elettronici fuori dagli studi di registrazione, dove qualche pioniere aveva fino a quel momento sperimentato in modo autoreferenziale.
Il moog oramai faceva capolino ovunque. Convinse anche i Fab Four, che lo utilizzarono in ben quattro brani di «Abbey Road»; nel jazz fu Paul Bley assieme alla sua partner di allora, Annette Peacock, a darsi da fare non poco (si veda MJ, novembre 2019). Più avanti riprese il testimone Herbie Hancock, che era già apparso come complice in un album del 1970 del sassofonista John Murtaugh, «Blues Current», dove prestò servizio come pianista affiancando il leader al moog in uno dei lavori migliori di quello sciame post-«Switched-On Bach». Infine non si può dimenticare la sperimentazione di Sun Ra, che non si lasciò sfuggire certo di cimentarsi con il moog. E il progressive rock alzò il tiro: in Svezia apparve la versione in musica di Lord of the Rings, a cura di Bo Hansson che utilizzò anche il moog, e arrivarono le esibizioni monstre di Keith Emerson e di Rick Wakeman. I sintetizzatori oramai dilagavano, l’offerta si era arricchita, era tornato in gioco il Buchla, era arrivato l’A.R.P. (dalle iniziali del suo costruttore Alan Robert Pearlman), tutto il rock elettronico tedesco avviò i suoi viaggi cosmici. Library music e colonne sonore furono altro terreno fertile, basti ricordare l’impegno profuso da Piero Umiliani, ma il moog spuntò anche nelle musiche di Armando Trovajoli per un film come Sesso matto (1973). Ci fu anche un tormentone moog tricolore: Il gabbiano infelice (in realtà una cover del celebre inno religioso Amazing Grace) firmato dal Guardiano del Faro, al secolo Federico Monti Arduini.
In questa baraonda di tastiere, cavi, moduli, valvole, piatti rifacimenti di brani noti e geniali intuizioni, il lavoro di Mort Garson spicca per più di un motivo. Convinto assertore delle virtù possedute dal moog, dopo i segni zodiacali Garson lavorò per la causa a ritmi da stakanovista, ma a differenza dei più seppe costruire una discografia concepita appositamente per lo strumento, con l’unica eccezione proprio delle musiche di Hair. La faccenda dei segni zodiacali non si concluse con quel primo disco contaminato dall’elettronica, anzi. Garson ne pubblicò altri dodici, ciascuno dedicato a un singolo segno e sonorizzato con dosi massicce di moog alternate con voci recitanti i dodici profili astrali. La sbandata per il racconto sonoro non finì lì, perché Garson diede alla luce anche una sua versione del Mago di Oz, «The Wozard of It. An Electronic Odyssey», sorta di concept album che si avvaleva di diverse voci narranti e testi ancora di Jacques Wilson, vecchio collaboratore di «The Zodiac Cosmic Sounds». Impregnato di psichedelia e pacifismo, «The Wozard of It» certificò definitivamente la fede di Garson nel moog.
Mondi alternativi, porte da oltrepassare, l’ignoto e l’inconoscibile, visioni cosmiche, e macchine in grado di oltrepassare l’umano: l’intero mood californiano aveva fatto breccia in questo signore ormai di mezza età, non certo un giovane hippie che disertava la chiamata in Vietnam. E i dischi successivi lo confermarono. In quel fine decennio, Garson realizzò la musica di commento all’allunaggio dell’Apollo 11, Moon Journey, oggi recuperata dalla Sacred Bones nel succitato «Journey to The Moon and Beyond», brano che pare un compendio di pregi e difetti di quei suoni, tra atmosfere davvero spaziali e banalità timbriche. Il disco include diverse rarità, tra cui spiccano Zoos of the World, musica leggiadra per un documentario omonimo del National Geographic datato 1970, bella miscela di sintetizzatore e passaggi orchestrali; un frammento dalla colonna sonora di un classico della blaxploitation, ovvero Black Eye (1974, incredibilmente diventato in Italia Con tanti cari… cadaveri detective Stone) e diverse musiche per la pubblicità. Una menzione meritano anche le varie parti di Western Dragon, brani che non recano indicazioni su ciò cui erano destinati, anche se si direbbero musica per cinema d’azione. Non tutti sono affidati al moog, ma rendono comunque giustizia al mestiere di Garson.
Musica tutta per un lungometraggio era invece quella di «Didn’t You Hear?» per un film sperimentale diretto da Skip Sherwood sempre nel 1970. Ristampata da Sacred Bones, è una delle prime colonne sonore elettroniche ed evidenzia la padronanza dello strumento da parte di Garson, sempre in equilibrio tra atmosfere futuristiche e linee melodiche efficaci. Ma lui nel frattempo si era interessato di occultismo, satanismo e altre oscurità che fruttarono un paio di dischi da non trascurare. Il primo è «Black Mass» (1971), album accreditato alla band Lucifer, sotto il cui nome si nascondevano però Garson e i suoi moog. Musica cupissima, carica di tensione, quasi un’anticipazione dei Goblin, a tratti tribale, insomma da cerimonia satanica, e seppure con qualche ingenuità regge il tempo trascorso. Il secondo, «The Unexplained», è anch’esso mascherato, perché uscì firmato Ataraxia. Era sottotitolato Electronic Musical Impressions of the Occult, e qui Garson ci diede dentro, tra tarocchi, proiezioni astrali, I Ching, la cabala e chi più ne ha più ne metta. Musicalmente maturo, anche perché siamo oramai nel 1975, l’album regalava momenti di tensione e d’inquietudine ma sempre accompagnati da una leggerezza di fondo. L’armonia tra la macchina e il soprannaturale vi trovava una congiunzione senza attrito. Il vertice si ascolta in Déjà vu, una costola di Tubular Bells persa tra mille altri ricordi.
Per il cinema Garson compose anche la musica per un film porno, «Music for Sensuous Lovers», lp uscito soltanto come promo. Una striscia sonora a base di moog e sospiri, gemiti e altre manifestazioni di gioia di una donna. Lo pseudonimo era qui d’obbligo, e Garson scelse di firmarsi Z. Un estratto da quei ventisei minuti è stato incluso in un’altra raccolta di materiali pubblicata dalla Sacred Bones, «Music From Patch Cord Productions», ennesimo proficuo affondo negli archivi di Garson e che assembla altre musiche per pubblicità forse mai utilizzate (ma che jingles!), e altri tesori tra cui Space Walker, ritmo rock trainato da una chitarra volteggiante e segnali dal futuro emessi dal sintetizzatore, uscito nel 1967 su un 45 giri promozionale col medesimo brano su entrambi i lati e firmato The Time Zone. Il disco contiene anche versioni alternative di brani presenti su quello che è un cult della discografia di Garson: «Mother Earth’s Plantasia» (1976). Ristampato dalla benemerita Sacred Bones, è di fatto un inedito, poiché ai tempi si vendeva soltanto da un fiorista di Los Angeles, la Mother Earth Plant Boutique. In qualche modo l’album chiude il cerchio garsoniano dei saperi alternativi e dei misteri del mondo. Questa volta il tema è il benessere delle piante d’appartamento, che a detta di Garson potevano beneficiare dall’ascolto della sua musica. O almeno questo era l’intento: ma l’uomo era fatto così. Si era convinto a scrivere questa musica, pensata per i vegetali e non per gli animali, leggendo The Secret Life of Plants, un libro scritto da Peter Tompkins e Christopher Bird (in Italia lo pubblicò SugarCo) che ipotizzava che le piante comunicassero tramite telepatia, che custodissero nelle loro cellule verdi un’antica saggezza e, naturalmente, che amassero la musica. Tra legami chimici sotterranei e campi elettromagnetici, il libro divenne un bestseller e dette origine a un documentario (e un doppio lp) con le musiche di Stevie Wonder. Sedotto ormai da culti e nuove religioni che fiorivano in quegli anni, Garson preparò questa ambient music per begonie et similia.
Ironia a parte, difficile restare indifferenti di fronte ai suoni rigogliosi e carezzevoli di brani come Concerto for a Philodendron & Pothos. Semi di quella musica si ritrovarono anni dopo nelle colonne sonore dei videogames e nella library music, mentre nulla si sa sull’opinione delle dedicatarie. Fatto sta che Garson continuò a lavorare nel cinema ma anche nel mondo dei videogiochi, fino a quando nel 2008 staccò i cavi e spense per sempre i suoi moog.