Matt Bianco: Gravity

di Marta «Blumi» Tripodi (foto di Mariagrazia Giove)

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Mark Reilly (Matt Bianco) - foto di Mariagrazia Giove
Mark Reilly (Matt Bianco) - foto di Mariagrazia Giove

«Gravity», l’album dei Matt Bianco, popolare gruppo britannico sulla breccia da ben trentacinque anni, segna una dichiarata impostazione jazzistica.

Matt Bianco è un nome fittizio che nasconde in sé molti volti. Tutto è cominciato nel 1983, quando Mark Reilly, Danny White e Basia Trzetrzelewska fondano un trio cui danno appunto il nome del fantomatico agente segreto Matt Bianco, in omaggio alla loro passione per le colonne sonore di film di spionaggio. Le atmosfere rimandano al jazz ma strizzano l’occhio al pop, cosa che non è ben vista dai puristi. Ciononostante il gruppo riscuote un discreto successo in entrambi i territori, una costante che resta immutata nonostante diversi cambi di formazione: a White e Trzetrzelewska subentrano Mark Fisher e Jenni Evans, che poi verranno nuovamente sostituiti da White e Trzetrzelewska, e poi di nuovo dal solo Fisher. Con la scomparsa di Fisher nel 2016, a soli 57 anni, l’eredità e le redini del gruppo restano saldamente nelle mani di Reilly, che non ha alcuna intenzione di mandare il suo agente segreto in pensione: è da poco uscito «Gravity», un nuovo album in cui del pop delle origini è rimasto ben poco.

Come è nata l’idea di lavorare con la band di Jamie Cullum?
Ci siamo conosciuti tramite il sassofonista Dave O’ Higgins: nei primi anni novanta era in tour con i Matt Bianco e siamo sempre rimasti in contatto. Nell’ultimo anno pubblicava spesso sui social network i video delle sessioni che registrava nel suo studio, e l’ho contattato per chiedergli se gli andava l’idea di scrivere qualche canzone insieme. Lui, oltre ad accettare, mi ha suggerito i nomi di alcuni musicisti con cui pensava dovessi lavorare. Più che la band di Jamie Cullum, però, è quella di Dave: oltre a lui, solo il batterista Sebastiaan De Krom e il bassista Geoff Gascoyne suonano anche con Jamie.

L’intenzione era di ringiovanire il tuo sound, in qualche modo?
Sono molti anni che cerco di rinnovarmi, rinfrescando il mio suono, rendendolo più interessante. In questo caso, però, ho guardato al passato. L’idea mi è nata dal filmato di una seduta in studio di Chet Baker, risalente agli anni Sessanta: era un ensemble «vecchia scuola», per così dire, che comprendeva un contrabbasso, un piano e due trombe. Ho pensato che potesse essere interessante tornare alle origini del jazz contemporaneo.

Mark Reilly (Matt Bianco) - foto di Mariagrazia Giove
Mark Reilly (Matt Bianco) – foto di Mariagrazia Giove

Questo è il primo album targato Matt Bianco che esce con la tua sola firma…
Nell’ultimo periodo non avevamo collaborato, proprio perché da due anni combatteva contro la sua malattia: il nostro accordo era che io avrei continuato a lavorare mentre lui si ristabiliva. Nell’attesa ho registrato un album con i New Cool Collective, per occupare produttivamente il tempo in cui avrei dovuto attenderlo. Purtroppo i miglioramenti sperati non sono mai arrivati, e non siamo mai più tornati a suonare insieme.

Oggi come oggi, Matt Bianco è un collettivo con una formazione variabile o un progetto solista?
Al momento direi che sono io e basta. Non credo che la gente debba analizzare troppo la faccenda, però: le persone che fanno parte del progetto sono quelle con cui mi piace lavorare in un determinato, sia in studio che dal vivo, ma non è da intendersi come una band tradizionale.

Hai affermato che «Gravity» è un album molto più sofisticato rispetto alle produzioni tradizionalmente targate Matt Bianco. In che modo?
Se hai una lista di strumenti più ridotta, devi assicurarti che ogni elemento funzioni bene per ogni canzone. In passato, quando le nostre produzioni erano più pop, usavamo molti sintetizzatori, drum machine, effetti… In questo disco, invece, è tutto molto semplice, non ci sono troppe sovrastrutture a modificare il suono.

Quest’album ha ricordato a molti gli Incognito, per la moltitudine di voci e di strumentisti che ci hanno lavorato contemporaneamente…
In quel senso magari sì, ma per il resto siamo completamente diversi. Loro sono una band r&b, noi facciamo prettamente jazz; loro hanno effettivamente molti cantanti diversi, mentre nonostante ci siano varie voci in quest’album canto comunque io nella maggior parte dei brani.

Matt Bianco «Gravity»
Matt Bianco «Gravity»

È curioso che oggi tu ti identifichi pienamente col jazz: quando avete debuttato, la scena jazz non vi aveva accolto a braccia aperte, anzi, vi aveva aspramente criticato per le vostre velleità pop…
Ai tempi non stavamo cercando di diventare una jazz band, ma ci limitavamo ad usare dei musicisti jazz. Con il tempo, forse, siamo diventati un po’ più «jazz-friendly» e la polizia del jazz ci ha finalmente assolto dai nostri crimini! Scherzi a parte, essendo un genere prevalentemente strumentale, una formula libera e improvvisata, non saremo mai esattamente quello. La forma canzone per me è molto importante, quindi forse ha più senso dire che siamo un progetto fusion. In generale, però, non bado molto alle etichette: mi limito a fare il tipo di musica che mi piace.

In conclusione, quali sono le vostre aspettative per questo nuovo album?
Al momento lo stiamo portando in tour e siamo concentratissimi su questo, ma approfitteremo del tempo che passeremo insieme per confrontarci su qualche nuova idea e pensare a un nuovo album. Che comunque non arriverà prima di un anno abbondante.

Marta «Blumi» Tripodi