Manuel Valera cronache martiane

Il brillante pianista cubano, con il concept album per big band «José Martí En Nueva York» dimostra anche notevoli doti compositore e orchestratore, «jazzificando» storiche quartine della poesia ispano-americana dell’Ottocento raccolte nei Versos Sencillos di José Martí, indipendentista, antirazzista e autore intellettuale della Rivoluzione cubana.

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Foto di Mariana Meraz

Il dossier «Tornano le big band» di Angelo Leonardi pubblicato su queste colonne (febbraio 2020) ha aperto una bella finestra sul rinascimento orchestrale nel jazz dell’ultimo decennio. Più o meno su un binario parallelo si è mosso anche il mondo del Latin jazz, e infatti quelli recenti sono anni in cui la scrittura per big band di stampo Afro-caraibico si è conquistata un discreto spazio nei cataloghi delle etichette discografiche. E non sono stati i dati quantitativi che hanno attirato la mia attenzione su quelle novità ma le qualità degli arrangiamenti, delle composizioni, le innovazioni e la raffinatezza di progetti davvero di altissimo livello. Per esempio, hanno confermato notevoli doti di compositore, arrangiatore, orchestratore o di leader di big band il superlativo pianista dominicano Michel Camilo, i pianisti-tastieristi colombiani Edy Martinez, Héctor Martignon e il loro connazionale percussionista Samuel Torres; i batteristi cubani Dafnis Prieto e Horacio «El Negro» Hernandéz, tanto per citarne alcuni. Ora a questa lista è doveroso aggiungere Manuel Valera, cubano, classe 1980, che non va scambiato con l’omonimo sassofonista e pertanto chiariamo subito questo punto. Poiché nel mondo musicale di Cuba i casi di omonimia in famiglia e anche all’esterno di essa sono frequentissimi, i profani spesso non riescono a raccapezzarsi di fronte a certi nomi che popolano la scena musicale e la discografia dell’Isla. Nel caso in questione, chi mastica un po’ di storia del jazz cubano da cinquant’anni quando legge il nome «Manuel Valera» pensa a uno dei sassofonisti di jazz più importanti nel panorama di Cuba degli anni Settanta e Ottanta; o pensa al leader del Quinteto de Saxofones che, secondo l’autorevolissimo critico Leonardo Acosta, fu il miglior gruppo del festival Jazz Plaza 1987 quasi a pari merito con la Liberation Orchestra di Charlie Haden; infine Valera è il sax alto e soprano della primissima formazione del Grupo Proyecto di Gonzalo Rubalcaba e della meravigliosa All Stars con Chucho Valdés, Arturo Sandoval, Juan Pablo Torres, Carlos del Puerto e altri formidabili musicisti diretti da Armando Romeu per accompagnare Dizzy Gillespie nel suo ultimo tour a Cuba. Bene, quel Manuel Valera Sr., che negli anni Novanta scomparve dai palcoscenici cubani e anche dalle nostre agende, è il padre dell’omonimo talentuoso e prolifico pianista-compositore sbarcato a New York nel 2003 dove sta mietendo notevoli consensi nella panorama jazz più importante del mondo e incassando prestigiosi riconoscimenti come strumentista, compositore, orchestratore e leader di vari formati musicali, trio, quartetto, sestetto e big band.

Temperamento apparentemente tranquillo, disciplinato il piccolo Manuel alla fine degli anni Ottanta inizia studi di sassofono al conservatorio Saumell dell’Avana; a quattordici anni, nel bel mezzo del difficilissimo periodo especial, si lascia le novanta miglia alle spalle per raggiungere l’altra Cuba ed è proprio in Florida che da un ascolto casuale viene folgorato dal fraseggio di Clifford Brown: così avviene la sua graduale e profonda immersione nel jazz afroamericano. Tra le collaborazioni principali incontriamo Paquito D’Rivera, Arturo Sandoval, John Patitucci, Horacio «El Negro» Hernandez, Antonio Sanchez, Ben Street, Joel Frahm, Brian Lynch, Dafnis Prieto, Yosvany Terry, Melissa Aldana, E.J. Strickland, Carlos Henriquez. Come leader ha firmato tredici album, e con il quattordicesimo appena uscito è al comando per la prima volta di una big band e tenta di sovvertirne i codici e cambiarne le regole dominanti applicando nuovi concetti, incorporando nuovi ingredienti e creando ibridazioni attraverso linguaggi e riletture originali. «José Martí En Nueva York» (Greenleaf Music, 2020), a nome della New Cuban Espress Big Band, è un magnifico omaggio all’Apostolo di Cuba, poeta, scrittore, politico, imprigionato più volte dagli spagnoli, il più grande dei cubani e uno dei più insigni sudamericani di tutti i tempi, nonché diretto ispiratore della Rivoluzione dei barbudos al comando di Fidel Castro e Che Guevara. Tra le opere più famose del versatile prosatore di romanzi e liriche spiccano i Versos Sencillos scritti nel quindicennio del suo esilio in terra newyorkese. Da una lettura attenta di quelle strofe in quartine emergono le crepe profonde, l’individualismo esasperato, il culto feticista del dollaro, la repressione violenta contro le classi deboli e la discriminazione razziale contro i neri e gli immigrati negli USA. Nessun altro come Martí – che all’inizio ebbe amore a prima vista con la realtà nordamericana – seppe affondare in maniera così impietosa il coltello nella piaga purulenta della società democratica statunitense. In ambito letterario quest’opera è considerata una produzione importantissima nella storia della cultura ispano-americana per l’originalità di intrecciare versi ai moduli della poesia popolare di fine Ottocento. Alcuni dei versi di quest’opera, che evocano tappe fondamentali della vita dell’indomabile e lungimirante Martí ora sono stati «jazzificati» su un’onda latina e recitati nel concept album da cui è scaturita questa lunga e profonda chiacchierata e all’insegna di una delle massime martiane più famose: «Il miglior modo di dire è fare!»

Manuel, prendo spunto proprio dalla frase appena richiamata per iniziare questo dialogo e per raccontare ai nostri lettori che da alcuni anni ti dai da fare moltissimo, che sei un prolifico e premiatissimo compositore, che non dormi sugli allori, che non riesci a stare con le mani in mano e a staccarti dalla musica nemmeno nei momenti più difficili, è così?

Grazie davvero di questa sensibilità e opportunità per dire che l’album che ha dato spunto a questa intervista lo dedico a mia moglie Lisa, che purtroppo ci ha lasciati nello scorso mese di ottobre, e a mia figlia Isabel con la quale ho condiviso il momento più brutto della mia vita. Un’esperienza indimenticabile, nel male e nel bene, poiché tutto ciò accadeva mentre stavo realizzando il mio grande sogno musicale, ossia preparare il materiale da incidere con una big band e su un progetto originale come questo dedicato a José Martí, il miglior cubano della storia, che ha influenzato anche un po’ della mia vita. La scrittura delle composizioni e le prove proseguivano nella fase in cui Lisa stava lottando contro un tumore rarissimo e in un clima di tristezza e preoccupazioni familiari ma anche lavorative, avendo già attivato per questo lavoro i miei collaboratori, produttori e gli amici musicisti. Ero abbattuto, ma a un certo punto ho capito che distrarmi con la musica aveva un effetto benefico su di me: le due ore al giorno che potevo dedicare alla scrittura esercitavano un effetto catartico, terapeutico, le composizioni e gli arrangiamenti erano salutari, una musicoterapia efficace.

Già, Martí, il migliore cubano di sempre. Allora prima parlare del disco e di come è nata l’idea di farlo con la big band, direi che si utile anche tracciare un profilo di colui che anche tu, come milioni di cubani, consideri il padre della Patria, il più grande dei cubani di tutti i tempi e uno dei tre grandi libertadores dell’America latina. Ha vissuto intensamente negli Stati Uniti, Messico, Venezuela, Santo Domingo, Haiti, Argentina, Guatemala, Spagna e Francia. Grande oratore, politico, simbolo di lotta per libertà dei popoli, amico degli oppressi, antirazzista, anticolonialista, precursore dell’antimperalismo moderno e indipendentista, ma anche giornalista, scrittore, fondatore della corrente letteraria del modernismo, intellettuale, autore di pensieri ancora di bruciante attualità. Insomma lui è tutto ed è dappertutto nella vita di Cuba. Pensando al ruolo pedagogico di Martí, e visto che hai trascorso l’infanzia all’Avana se ti dico La Edad de Oro, Nené Traviesa, Meñique, Don Pomposo, Tres Héroes, cosa rispondi?

Be’, non potrei aggiungere nulla al tuo quadro, ma nello specifico ti dico che i personaggi citati dell’Età dell’Oro mi ricordano i miei giorni nei circulos infantiles, circoli infantili, la scuola primaria, la partecipazione ai Pionieri «José Martí». Fanno parte dei suoi libri per bambini studiati durante i primi anni di formazione scolastica e che tendevano alla valorizzazione delle teorie dell’educatore e pedagogista cubano. Ci insegnavano ad amare i popoli, insomma un progetto educativo con valori belli, per rendere felici i bambini, così almeno il messaggio che ci veniva trasmesso.

Nel 1891 Martì, quando compose quei versi immortali, si trovava negli Stati Uniti e stava organizzando gruppi ribelli per tornare a Cuba, cacciare gli spagnoli ma anche di impedire agli statunitensi di prendere il loro posto. E quindi indipendenza voleva dire affermazione della cubanità di fronte alla de-identificazione giunta dall’esterno, dagli spagnoli, che nel Novecento la tentarono gli Stati Uniti con le varie invasioni culturali e politiche. Martí non vide tutto ciò perché fu ucciso a Dos Rìos, vicino a Bayamo, da due pallottole che lo portarono all’immortalità. Dagli anni Sessanta è una figura che viene contesa dai cubani dell’Avana e dagli esiliati negli USA. Quindi, perché hai scelto un personaggio così ingombrante per un progetto già molto impegnativo e che culturalmente e musicalmente richiede uno sforzo mentale considerevole?

Verissimo e ineccepibile quello che hai raccontato, ma per me la bellezza dei suoi messaggi abbraccia tutti i punti di vista: tu puoi essere anticastrista o castrista ma l’opera di Martí è in linea sempre con il tuo pensiero, perché le sue opere hanno a che vedere con Cuba, la sua indipendenza, la sua libertà, quindi capisco che lo si può accostare da punti di vista diversi. Certo, la storia racconta che Martí era anche contradditorio, come lo sono tanti esseri umani e politici, ma in merito a quello che dicevi bisogna tenere presente che dopo un primo idillio con la democrazia degli Stati Uniti cambiò idea mettendosi di traverso alla politica estera espansionistica nordamericana intravedendo pericoli futuri per i paesi dell’America Latina così da affermare di conoscere «il mostro perché ho vissuto nella sua tana».

Francamente non so se a questo punto della storia sarebbe d’accordo con la situazione cubana di oggi: io credo che darebbe battaglia per cambiarla, migliorarla. Il mio contributo è stato quello di rendere onore all’uomo, allo scrittore, giornalista, diplomatico, alle idee martiane e indirettamente riflettere sulle relazioni complicate tra gli Stati Uniti e Cuba.

Martì lottò per essere indipendente da tutti, e molti leader si sono poi identificati pienamente con la figura umanistico-rivoluzionaria dell’Apostolo per antonomasia, dai fratelli Castro all’argentino Ernesto «Che» Guevara. Non sarò certamente io l’avvocato del diavolo, ma quando ti chiedi legittimamente se Martí sarebbe d’accordo con la Cuba di oggi, prova a chiederti anche cosa direbbe lui del razzismo e delle profonde ingiustizie sociali della prima potenza del mondo. A me invece sarebbe piaciuto sapere se l’intellettuale Martí coltivasse anche interessi musicali e cosa ne pensasse dei viaggi e incontri pianistici ad Haiti, Cuba, Puerto Rico, Brasile, New York e New Orleans di Louis Moreau Gottschalk, e delle sue composizioni ispirate all’Habanera eccetera.

Molto chiaro il tuo ragionamento, e concordo che non gli piacerebbero certamente le violenze e la mancanza di giustizia sociale della realtà nordamericana.

Tuttavia, tornando alla figura omaggiata, ritengo che il suo pensiero politico, sociale e filosofico non sia ancora stato analizzato in maniera profonda e soddisfacente determinando un vuoto che contribuisce all’utilizzazione strumentale di alcune affermazioni estratte dal patrimonio ideale martiano e da fronti opposti. Quindi è diventato un gioco forzare le interpretazioni sul pensiero martiano, senza arrivare alla schieratissima Radio Martí di Miami e altri media che a volte sparano delle vere stupidaggini negando spesso l’evidenza per non dire altro. Ci vorrebbe coerenza e rispetto ma…

Sarebbe interessante parlare con te di tutto questo e della libertà di espressione, tuttavia non considero che sia tutto negativo nella Cuba socialista, e so bene che circa il novanta per cento dei cubani appoggiano il sistema in cui vivono.

Allora parliamo del letterato e poeta. Le tre unità fondamentali della sua opera poetica sono Ismaelillo, Versos Libres e la tua preferita Versos Sencillos, alcuni versi della quale sono diventati universali attraverso la celeberrima Guantanamera. Con quale criterio hai scelto dentro la raccolta Versos Sencillos le strofe da musicare e che sintetizzano la sua vita?

Indubbiamente le quartine che ho scelto per la suite sono tra le più famose e io volevo fornire un’onda differente, per esempio, a quella della Guantanamera tenendo però una metrica abbastanza similare e con la medesima melodia. Ispirandomi al libro ho voluto unire diverse esperienze e sentimenti che lui stava vivendo: alcuni versi parlano dell’amicizia, della solidarietà, altri della guerra, di amori, dell’identità cubana, o della Bibbia. Se i riscontri del primo disco saranno buoni probabilmente farò un secondo disco per riprendere altri materiali dei Versos Sencillos e forse anche da La Edad de Oro. Sarebbe un altro bell’omaggio alla cubanía o cubanità maturata grazie alle sue battaglie, che hai ricordato, e pagate a caro prezzo sulla sua pelle. Ricordo che il luogo dove fu imprigionato e condannato ai lavori forzati appena diciassettenne per opporsi al regime colonialista spagnolo è situato vicino a dove sono nato io, zona Centro Habana; era una cava dove spaccava pietre tutto il giorno, e lì esiste – oltre a una sua statua – anche il museo Fragua Martiana sulla storia anticoloniale.

Quando hai cominciato a capire che Martí è stato uno dei più insigni latino-americani di tutti i tempi? Così piccolo com’eri, non credo che tu avessi piena contezza degli episodi e delle avventure di quell’idealista.

Claro que no! Nonostante i suoi esempi illuminanti che ci spiegavano a scuola, da bambino non mi rendevo conto del suo reale valore seppur venisse richiamato ovunque nel sistema educativo, ma anche in ogni aspetto del vivere quotidiano cubano. Per esempio, i librii che hai citato prima e il suo La Edad de Oro per me erano super interessanti, un piccolo cofanetto di storia e cultura per i bambini. Comunque, ritornando con la mente a quella fase, riconosco che il suo esempio, i suoi pensieri hanno influito abbastanza in diversi aspetti della mia vita: lo spirito martiano è presente in ogni lato di Cuba e forse ancora anche in America latina.

Parliamo allora del progetto con la New Cuban Express Big Band, che mescola jazz, ritmi afrocubani, orchestrazione, declamazione e versi celeberrimi del più importante poeta e scrittore di Cuba. Qual è il motivo della scelta mirata al periodo newyorkese di Martí e, in particolare, quali sono i caratteri che hai voluto dare al progetto sonoro?

Come dicevo poco fa, è stato un po’ per riflettere sulle relazioni tra i nostri due Paesi; ma un altro motivo è che, a quanto mi è dato sapere, non si era ancora fatta una combinazione di questo tipo utilizzando il pensiero martiano. Quando ho cominciato a scrivere questa serie di composizioni per big band ispirate alle poesia martiana volevo per esempio evitare di utilizzare una cantante accompagnata dalla band, ma puntavo a che la voce facesse parte dell’organico, un tutt’uno ma moderno, come potrebbe essere un arroz con mango (riso e mango !) e non il tradizionale congrì (riso e fagioli!) della cucina cubana. Scusa la metafora ma desideravo lavorare con abbinamenti di sapori e ingredienti diversi in grado di attrarre e aprire nuovi cammini.

Foto di Mariana Meraz

Per realizzare questa produzione molto sofisticata hai voluto al tuo fianco un cast di stelle del jazz e alcuni musicisti con i quali hai condiviso molte incisioni per altri bandleaders. Una curiosità: i musicisti non latinos convocati nel progetto sapevano esattamente chi era il personaggio omaggiato e conoscevano la sua importanza nel Continente? E se il contenuto delle quartine in spagnolo è abbastanza chiaro per i latinos della band, per i nordamericani era tutto chiaro?

Sì, è vero, con Mauricio Herrera, Román Filiú, Michael Rodríguez, Joel Frahm o Samuel Torres ci intendiamo ad occhi chiusi perché i nostri percorsi si sono intrecciati spessissimo; molti degli altri musicisti coinvolti, che sono dei grandissimi professionisti e degli ottimi improvvisatori, conoscevano già il mio modo di lavorare e a tutti ho lasciato ampio spazio negli assoli poiché mi sembrava corretto e coerente per la riuscita collettiva del progetto con big band, che non è cosa semplice. Per questo ho utilizzato l’ampia gamma di colori che può offrire una band di questo spessore, così darappresentare sentimenti ed emozioni che via via uscivano dai versi su questioni politiche e sociali. Strumentalmente parlando, poi, ho voluto declinare in chiave jazzistica i più diversi stili della tradizione cubana, dal danzón e dal bolero al guaguancò, al fine di rivitalizzare i versi martiani. La tua seconda domanda ha centrato un aspetto importante poiché negli Stati Uniti pochissimi conoscono la dimensione politica, filosofica, letteraria, tantomeno i romanzi e le liriche di questo nostro brillante prosatore e non conoscono neppure lo spagnolo. Quindi man mano che dovevamo affrontare un brano spiegavo il significato di quei versi di Martí, un procedimento che si è rivelato utile per stimolare i vari solisti nell’improvvisazione. Naturalmente le due cantanti sudamericane, Camila Meza (cilena) e Sofia Rei (argentina), il colombiano Samuel Torres e i miei connazionali Mauricio Herrera e Roman Filiú conoscevano la figura di Martí e i significati di quei suoi versi. Così è stato tutto più piacevole e costruttivo per tutti; ovviamente l’interesse primario per alcuni era soprattutto dovuto alla musica. Comunque la parte vocale è stata importante quanto quella compositiva e nella parte strumentale ho cercato di diversificare con accorgimenti specifici armonizzando le voci con flauti, clarinetti eccetera. Per esempio ho mirato gli interventi di alcuni strumenti come il sax soprano o il trombone perché rappresentavano bene la guerra, i combattimenti delle fasi specifiche descritte dalle liriche.

A questo proposito, pensando alla crudeltà degli spagnol, ho sentito i toques de batà come guerrieri contro El Enemigo Brutal, pur sapendo che questa triade di percussioni accompagna solitamente le funzioni religiose della Santería. Di segno opposto, invece, Cultivo una Rosa Blanca dove la fa da padrone l’amicizia e la fratellanza nonostante uno «schiaffo ricevuto» dall’avversario.

Questo mi conforta poiché io quei suoni, per esempio quei toques che hai ricordato, li ho pensati proprio come uno spirito guerriero che va all’attacco, ed è vero che i batà hanno qui un ruolo esclusivamente estetico, per quanto Herrera sia anche un praticante di sincretismi religiosi mentre io no.

Ma quando è scattata la chispa, la scintilla per jazzificare con una big band quelle celebri quartine entrate nella storia della poesia popolare ispanoamericana? E prima ancora, quando e come nacque la tua ambizione di dirigere una big band?

Per la verità il progetto su Martí l’avevo già in parte sperimentato con il mio sestetto New Cuban Express suonando alcune di quelle musiche in concerti su un lavoro commissionatomi nel 2015 dalla Chamber Music America. Mi piaceva già così, poi mi resi conto che volevo qualcosa di più importante credendo che l’idea di ridare vita alla poesia di José Martí meritasse uno sviluppo più grandioso, con una big band, che è il formato che mi ha sempre affascinato. Tuttavia ero combattuto sul da farsi perché in origine avevo pensato di svolgere il progetto con un’orchestra da camera, ma quando capii delle enormi, almeno per me, difficoltà oggettive per farlo, mi buttai sulla versione big band con flauti, clarinetti, ottoni eccetera, con l’obiettivo di ottenere una sonorità in bilico tra jazz e una onda classicheggiante, più rilassata e una sezione ritmica Afro-latina. Inoltre l’anno scorso ebbi l’opportunità di concretizzare il sogno che tenevo nel cassetto grazie ai settantacinquemila dollari piovuti dal cielo, cioè dalla Guggenheim Fellowship, che è un riconoscimento prestigioso per compositori di jazz e del quale vado orgoglioso sapendo che prima di me lo hanno ricevuto artisti come Wayne Shorter e Paquito D’Rivera. Oltre a quel budget (che avrei potuto spendere senza nessuna giustificazione alcuna) mi è venuto in aiuto anche un mio amico, ospitandoci per fare dei concerti ogni mese nel suo club Terraza 7, iniziati nel marzo 2019 e che ci hanno consentito di affinare e aggiustare tutto il lavoro.

Ambizione di guidare una big band? Certamente la mia attrazione fatale per il grande formato orchestrale partì dalle esperienze con la big band della Florida State University di Tallahassee verso la seconda metà degli anni Novanta, i miei primi anni gli Stati Uniti: il direttore della band era un fanatico sfegatato di Thad Jones e così ci faceva lavorare moltissimo con le opere di quel grande maestro, poi nel repertorio aggiungeva qualcosina di Kenny Wheeler, Count Basie e anche pezzi di un altro grande Jones, ossia Quincy. Fu così che in quei giorni cominciai a fantasticare – almeno con il pensiero – di un futuro al comando di una big band, che oggi mi rendo conto non essere semplice da gestire, oltre a richiedere un notevole sforzo mentale.

L’arrangiamento e la scrittura per big band sembrano essere tornate in auge grazie a musicisti dell’ultima generazione, tra cui anche il tuo amico e connazionale Dafnis Prieto, con il quale c’è anche uno scambio di collaborazioni e a volte l’utilizzo di medesimi musicisti nelle vostre rispettive produzioni. Non credi che quest’ultimo aspetto possa influire sull’originalità dei progetti?

Domanda interessante, che richiede due risposte. Sì, negli ultimi cinque anni c’è stato un risveglio di interesse per le big band a New York e con molta gente che sta scrivendo partiture, ma non saprei dirti la ragione di questa rinascita. Stiamo però parlando di big band con un’onda modernissima, spirito innovativo, niente a che vedere con quelle della tradizione Swing. Non so se ho capito bene, ma non trovo tante similitudini tra il mio modo di scrivere e quello di Dafnis, che a mio avviso prosegue in modo moderno e con una certa linearità. La sua è una forma molto caratteristica, fantastica indubbiamente, utilizza poca armonia ed è più orientato a svolgere una linea melodica su una parte ritmica dominante. Come sai, ho lavorato spesso con Dafnis e sono ne onorato e riconoscente perché è un grande artista oltre che un amico, ma stilisticamente sono stato influenzato da altri modelli. Il mio modo di comporre si distacca dal suo poiché a me piace giocare e contrappuntare di continuo voci e solisti: per esempio, con questo nuovo disco cerco un’onda sonora in bilico tra Maria Schneider e il leggendario Tito Puente. Comunque possono esserci delle similitudini tra la mia modalità e quella di compositori che mi hanno influenzato abbastanza, ossia Kenny Wheeler, Thad Jones o Bob Brookmeyer, dai quali prendo elementi che incorporo in un’onda latina, però un po’ meno lineare e meno cubaneggiante rispetto alle creazioni di Mario Bauzá o anche di Puente. Tito mi affascinava ed era fantastico per come arrangiava negli anni Cinquanta, ma la sua non è stata la maggiore influenza sul mio modo di orchestrare. Assieme a quelli citati ci metto dunque Maria Schneider, che è stata per diversi anni forse l’unico baluardo della big band.

All’inizio del Duemila sei sbarcato a New York dove è iniziata la tua ascesa. Torniamo invece a Cuba con il il tuo carné de identidad e i primi passi musicali.

Il mio nome è Manuel Valera, nato all’Avana il 18 ottobre 1980 e cresciuto nel barrio Centro Habana in un ambiente di jazz e musica cubana, ma un’esperienza che vivevo come un gioco. A nove anni mio padre, noto jazzista, mi iscrisse al Conservatorio e lì incominciai a studiare musica anche se con poco entusiasmo. In casa mia si ascoltava la musica jazz che piaceva a mio padre, cioè artisti come Chet Baker, Jim Hall, Paul Desmond, Chick Corea, Michael Brecker ma anche jazzisti cubani o artisti di musica popolare come Beny Moré e Los Van Van.

Onde evitare disguidi da omonimia, tracciamo un piccolo profilo di tuo padre Manuel Valera cheper ragioni anagrafiche e di miei specifici interessi – rammento molto attivo con la rinascita del jazz post-rivoluzionario e protagonista nelle edizioni del festival Jazz Plaza dell’Avana tra il 1985 e il 1990, sia con il suo Quinteto de Saxofones sia con altre formazioni. E lo ricordo perché dopo la fuga all’estero di Paquito D’Rivera (1980), Valera e César Lopez erano diventati i nuovi depositari del sax alto all’Avana. Dal Novanta in poi del sassofonista Manuel Valera, tranne il contributo al cd «Tropicana Nights» di Paquito D’Rivera big band (miglior album di Latin Jazz al Latin Grammy, 2000) si sono perse le tracce. Quindi, se sei d’accordo, vuoi aggiornarci sulla vicenda di tuo padre che fu il tuo primo mentore?

Ti ringrazio anche a nome di mio padre, settantaduenne, che oggi vive a Miami, per averlo citato con precisione: lui cominciò ad essere molto noto a Cuba dalla fine degli anni Sessanta come jazzista sia al comando di sue formazioni sia collaborando con tutti i musicisti più importanti di quel periodo, ossia Chucho Valdés, Paquito D’Rivera, Arturo Sandoval, Emiliano Salvador, sia lavorando come strumentista di quella famosa nave-scuola di musica, l’Orquesta Cubana de Musica Moderna, da cui provenivano i musicisti che poi formarono gli Irakere. Mio padre fu il primo a formare un quintetto di sassofonisti jazz a Cuba e lavorò con altri numerosi e importanti artisti come José Maria Vitier e anche con il primo Grupo Proyecto dell’allora giovanissimo Gonzalo Rubalcaba. Nel 1992 si trasferì a New York dove visse per qualche tempo, collaborando con Paquito e svariatealtre orchestre, ma sfortunatamente non incontrò il successo sperato, cosa che accade a molti musicisti cubani e non solo negli Stati Uniti. Quindi decise di avvicinarsi al clima cubano stabilendosi in Florida. A proposito della sua figura di mentore, non so se te l’ho già detto ma avevo iniziato con il sax perché lo suonava mio padre; ma in definitiva quello strumento non mi affascinava più di tanto, e non avendo ambizioni particolari non smaniavo per imparare a improvvisare o a tirare giù assolo dai dischi.

Spiegaci meglio questo punto, poiché anche per i musicisti cubani, seppur privilegiati rispetto al cittadino comune, non è mai stato semplice andarsene dal Paese, se non per contratti avallati dallo Stato. Allora, quando dici che tuo padre si trasferì a New York, significa che aveva un contratto di lavoro o lasciò Cuba per motivi ideologici e/o economici?

La verità è che mio padre stava lavorando con un contratto in Messico, e per problemi e dissapori sorti con il leader del suo gruppo relativi a dei permessi governativi decise di non rientrare a Cuba ma di andarsene negli Stati Uniti, dove all’inizio fu ospitato nella casa newyorkese di Paquito D’Rivera, che era in esilio dal 1980. A New York iniziò a lavorare, come ho detto prima, e andò avanti per qualche tempo. Io, nel frattempo, continuai a vivere all’Avana fino a quando nel 1994 – assieme a mia madre e a mio fratello – raggiunsi i miei nonni che già vivevano a Hollywood, Florida.

Torniamo a te e alla solida formazione scolastica basica e musicale che hai ricevuto a Cuba: quale fu il tuo primo strumento?

A parte tutto, debbo riconoscere che un bambino a Cuba cresce più rapidamente rispetto ad luoghi dell’America latina e non solo, e questo lo si deve sia alle necessità del paese e sia al sistema educativo cubano che allora funzionava bene. Quando mi iscrissi al conservatorio Manuel Saumell iniziai gli studi con il sassofono, quasi sicuramente condizionato dall’esempio di mio padre. Pertanto mi accadde la stessa cosa che successe a diversi musicisti cubani tra cui Gonzalo Rubalcaba, Emiliano Salvador o anche Omar Sosa: tutti percussionisti che, appunto, cominciarono con uno strumento a percussione per poi finire sul pianoforte.

Ti ricordi la marca del tuo primo sassofono? E i tuoi idoli, oltre ovviamente a tuo padre, chi erano?

In principio il mio primo sassofono fu un Conn, poine ebbi uno fabbricato nella DDR, l’ex Germania Est. Il Conn, un soprano ricurvo, aveva una sonorità incredibile ma era difficile da tenere intonato, come tutti i sax soprano e forse anche di più: ma all’epoca non lo sapevo e ci diventavo matto. I miei favoriti sono comunque Selmer e Yamaha, e anche se non suono più il sax riconosco che averlo studiato mi ha aiutato moltissimo a capire come trattare gli strumenti a fiato nell’orchestrazione, e ti confesso che a livello di improvvisazione mi influenzano certamente i pianisti ma soprattutto mi piace la forma di improvvisare e il brio di certi sassofonisti. I miei idoli al sax? Da piccolo adoravo chi suonava jazz e non musica tradizionale cubana; tra gli altisti ne cito solo tre, Charlie Parker, Lee Konitz e Cannonball Adderley; tra i tenoristi, Dexter Gordon e John Coltrane, ma la lista sarebbe ben più lunga.