Makaya McCraven, quali nuove prospettive?

L'acclamato concerto di Fiesole non sgombra il campo da alcuni legittimi dubbi

178

Fiesole, Teatro Romano

22 luglio

«In These Times» è il titolo dell’ultimo lavoro di Makaya McCraven, con il suo quintetto ospite del Music Pool nello splendido scenario del Teatro Romano di Fiesole. Il batterista e compositore è uno di quei musicisti afroamericani che – con indubbia convinzione, ma anche con esiti alterni – stanno cercando di applicare una differente chiave di lettura alla propria musica. Il loro obiettivo principale è quello di ampliare orizzonti e prospettive, inglobando in un linguaggio di estrazione essenzialmente jazzistica elementi desunti da altre forme musicali afroamericane, dal funk allo hip hop. Insomma, parafrasando il titolo dell’album di McCraven, gli scopi sembrano essere quelli di vivere, interpretare e rappresentare i nostri tempi confusi e travagliati anche sotto il profilo socioculturale.

Il repertorio proposto nella serata fiesolana era appunto tratto essenzialmente dal suddetto «In These Times». Il quintetto è formato da musicisti residenti a Chicago e/o facenti capo al suo circuito, come del resto lo stesso McCraven: Marquis Hill (tromba), Matt Gold (chitarra) al posto di Jeff Parker, Joel Ross (vibrafono) e Junius Paul (basso elettrico). L’odierna scena di Chicago – città fondamentale per il jazz e il blues fin dagli anni Venti – è molto composita e comprende innovatori come Rob Mazurek, animatore di progetti quali Chicago Underground ed Exploding Star Orchestra, e figure storiche dell’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta come Roscoe Mitchell.

Come dimostra anche l’ascolto dei suoi ultimi lavori, McCraven si colloca invece su un versante molto più accessibile, che strizza l’occhio anche a forme più commerciali di black music. Sul piano compositivo confeziona temi fragili, talvolta inconsistenti, centrati come sono sul ruolo predominante della batteria. Strumentista brillante, generoso ma certamente non originale, alterna spesso giochi ingegnosi tra charleston e rullante – tipici degli stili jungle e drum’n’bass – a serrati up tempo portati sul piatto ride. Predilige ovviamente il groove, ma talvolta opta per un funk fin troppo ripetitivo. Dal repertorio, piuttosto eterogeneo, non traspare un’identità ben definita. McCraven sembra dunque voler attingere a varie fonti senza però tradurre queste risorse in forma compiuta. L’unica composizione che emerga da questo appiattimento è quella eponima, In These Times. Da una figura iterativa, che ricorda il minimalismo di Steve Reich e Philip Glass, scaturisce un tema melodico di ampio respiro, che poi riconduce allo schema iniziale, trasposto su un up tempo vertiginoso e terreno fertile per uno strepitoso assolo di Ross.

Il vibrafonista, ormai ben conosciuto e apprezzato da critici e appassionati, è l’unico elemento di levatura superiore del gruppo. Usa costantemente due soli battenti (alla maniera di Milt Jackson, per intenderci) e dimostra di aver sviluppato la lezione di Bobby Hutcherson alle estreme conseguenze, applicandovi un piglio percussivo. Peccato che in questo contesto goda di poco spazio, come del resto anche gli altri compagni. Ad esempio, si pensi all’apporto di Hill, veramente modesto anche sul piano qualitativo, confinato ad eseguire molti obbligato e in alcuni frangenti apparso privo di idee.

Nonostante certa critica non abbia lesinato apprezzamenti lusinghieri per la musica di McCraven, talvolta perfino incensandolo, qui siamo ben lontani dalle frontiere di un (presunto) nuovo jazz. Si tratta di una proposta accessibile, a tratti gradevole, che senz’altro può avere una funzione propedeutica per avvicinare al jazz il grande pubblico.

Enzo Boddi

Foto di Giampaolo Becherini