«Early 17». Intervista a Francesco Cavestri.

di Lorenza Cattadori

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Il ventenne pianista bolognese si esibirà martedì 31 ottobre alla Triennale di Milano per la rassegna Jazzmi.

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«Guardiamoci: siamo un cimitero degli elefanti!» La frase a effetto l’ho colta da un collega mentre eravamo tutti riuniti in un convegno, e naturalmente ha generato, a piacimento, musi lunghi, tentativi critici, ideazione di percorsi bizzarri per attirare i «giovani», qualunque cosa volesse significare. Poi qualcuno mi dice che alla recente conferenza stampa di JazzMi il direttore artistico ha presentato al pubblico il musicista scelto per il primo concerto della Halloween Night alla Triennale martedì 31 ottobre, appena prima dell’esibizione di Don Karate e Sun Ra Arkestra: Francesco Cavestri, pianista. Vent’anni di età. Parlare con lui è stato naturale, ma la padronanza di linguaggio, i congiuntivi al loro posto, l’entusiasmo negli occhi mi hanno veramente predisposta a pensare che noi «elefanti» saremo finalmente e fortunatamente scalzati da persone come Francesco. Quanto meraviglioso ossigeno: in quella musica e nelle sue parole veloci.

Camicia meravigliosa! Complimenti, somiglia alla rappresentazione grafica della tua musica… Una vera questione estetica.
L’ho messa anche per la laurea al conservatorio, è molto più che abbigliamento. Una dichiarazione di intenti quasi.

Ho letto che ti si usa definire musicista che sposa hip hop, drum’n’bass, jazz ed elettronica, ma non è così, perdonami se dovessi apparirti aggressiva: secondo me invece tutto quel materiale sta tutto dentro di te. Non c’è nessun «matrimonio»: è tutta roba tua.
Sono molto d’accordo con quest’osservazione. Posso dirti che per me è anche una scelta, mi ritrovo semplicemente a rendere il mio stile e le cose che conosco e amo. È quello che ci rende diversi da un ascoltatore (meno male che esistono), ma che come musicisti tocca a noi rendere personale quello stile. Quel che ci differenzia è che noi ciò che ascoltiamo e assorbiamo poi lo reinterpretiamo.

Nel tuo album «Early 17» c’è un pezzo che mi ha ricordato tantissimo l’intro di Wy di Bugge Wesseltoft. Parliamo di In the Way of Silence, pezzo davvero totale.
È un brano cui sono davvero molto legato, e infatti lo ripropongo spesso in modi e contesti diversi. Pensa che ho realizzato una colonna sonora per la RAI  – per un podcast che si trova su Rai Play Sound e si intitola «Una morte da mediano», realizzato e diretto da un giornalista-regista che ha anche vinto un David di Donatello nel 2011, Filippo Vendemmiati: racconta la storia di Denis Bergamini (il calciatore del Cosenza deceduto nel 1989 in circostanze a dir poco misteriose) e io ho registrato questa colonna sonora originale divertendomi tantissimo, perché poi tra le mie influenze – che sicuramente hai scorto nell’album – negli ultimi tempi ho approfondito soprattutto il linguaggio di Ennio Morricone e di Ryuichi Sakamoto, ai quali mi ispiro ogni giorno… Insomma: in questa colonna sonora ho registrato una versione in solo piano di In the Way of Silence di circa 7 minuti, giocando anche con gli effetti del piano a mezza coda, quindi usando anche le corde con suoni e una ritmica realizzata con gli anelli dentro il piano. Un esperimento molto bello, e i pezzi miei che mi piacciono in modo particolare li ripropongo in diverse salse…

Parlami degli altri tuoi musicisti.
Sul disco siamo un trio composto da me e da due strumentisti molto più grandi di me, Max Turone e Roberto Rossi, due eccezionali musicisti della scena bolognese. Ho iniziato a suonare con loro quando avevo quindici anni, le prime serate le facevo al Bravo Caffè e mi ero affidato a due musicisti più adulti perché la loro esperienza, il fatto che fossero così  navigati mi aiutava a stare sul palco e gestire i primi concerti; poi con loro ho registrato l’album e ho fatto il concerto di presentazione con Fabrizio Bosso; poi ho sentito l’esigenza – soprattutto quando stavo delineando questo linguaggio sempre più immerso tra jazz, hip hop, musica elettronica – di avere un gruppo che parlasse la mia stessa lingua e che fosse più vicino alla mia generazione in termini di età e orientamenti musicali. A ottobre dello scorso anno ho esordito al Bologna Jazz Festival con il mio gruppo con il contrabbassista Riccardo Oliva – palermitano che vive a Milano – e il batterista Joe Allotta – un trapanese che vive a Bologna – a dimostrazione che la Sicilia si conferma fucina di talenti straordinari. Riccardo vive la propria musica nei confini tra jazz ed elettronica, Joe tra jazz e hip hop… Sono i miei musicisti ad hoc, ed è tutto molto coerente. Sul web ci sono molti esempi di questo tipo di atmosfera e, in particolare, nel concerto dell’ottobre scorso al Bologna Jazz Festival Riccardo Oliva, oltre al basso, suona anche il moog distillando sonorità davvero interessanti.

Sentiremo in anteprima qualcosa a JazzMi?
Sì, dopo la lezione-concerto e prima dell’esibizione della Sun Ra Arkestra mi esibirò con Riccardo Oliva e Joe Alotto presentando tra l’altro il primo brano da questo nuovo lavoro, realizzato campionando il monologo di Steiner dalla Dolce Vita di Fellini. Film che adoro, e il monologo è tanto emozionante quanto struggente. Alla Triennale lo presenterò con l’ausilio di alcune immagini e un sottofondo elettronico calzante.

Cosa è stato a folgorarti sulla via del jazz?
Sarò banale: «Kind of Blue», naturalmente, tra i dodici e i tredici anni, anche se in realtà a folgorarmi è stato Bill Evans.
Lorenza Maria Cattadori

* L’intervista completa sarà pubblicata prossimamente sulla rivista Musica Jazz