La voce di Tierney Sutton

Dopo quindici anni torniamo a intervistare la cantante del Nebraska, interprete raffinata e di gran classe, uno dei segreti meglio custoditi della vocalità jazzistica

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Madame Sutton ha modi gentili, sempre accorti, quasi come se fossero dei separé utili a mascherare la svelta ragazza del natio Nebraska, poi svezzata a Milwaukee nel Wisconsin, sulle rive di un lago, il Michigan, così vasto che sarebbe facile scambiare per un mare se non ci fosse la vicina Chicago a ricordarci che il blues si sposa meglio con le acque dolci che con quelle salate. Difatti la nostra bionda del Midwest, forse insofferente alle strettoie della provincia, dopo alcune peripezie che lei stessa ci racconterà, finisce in una certa città, che più che una città è un mondo a sé stante, un eterno luna-park senza centro dove la realtà è stata sempre virtuale: Los Angeles. Blondes have more fun, recita un famoso detto americano, e se le bionde si divertono davvero di più, da quelle parti, è per via di un take it easy che invece nell’altra costa, quella Atlantica, rimbalza come uno smash diventando un take it hard più reattivo. Tierney comincia tardi a cantare: voleva fare altro o ancora non sapeva di che natura fosse la sua strada, però lo fa così bene da diventare in breve tempo una grande interprete, devota al songbook americano ma con un piglio del tutto personale che la collocherà tra le giovani di gran talento nelle nuove voci del jazz. La sua qualità principale è un orecchio assoluto, quindi un’intonazione ineccepibile che, accoppiata a una sensibilità acuta e un’attenzione quasi maniacale per i testi – il significato intrinseco di ogni canzone che si rispetti –,  la colloca su un piedistallo tra le sue contemporanee. Molte di loro la seguono con devozione, alcune si dichiarano sue allieve entusiaste, altre diventano protagoniste ancor più di lei per via di quel miscuglio portentoso, che mescola in un crogiolo doti naturali, fortuna e savoir faire con risultati che a volte è difficile dipanare. Tierney non se n’è mai curata più di tanto: la sua carriera corrisponde a se stessa e a nessun’altra. D’altronde questo è il marchio di fabbrica principale di ogni outsider, come abbiamo già ben accertato. Eppure, nel suo condurre la professione di musicista senza seguire regole precostituite, per un verso o per l’altro (che in questo caso significa solo una cosa: talento) accumula ben nove nominations ai Grammy nel corso degli anni, la qual cosa sfiora solo leggermente il suo nobile aplomb anche quando viene ricordata con ammirazione da chi la presenta ai suoi concerti. Del resto è la raffinatezza ciò che conta di più per lei, il cesello ben curato che fa di ogni brano un capitolo a sé stante di un libro voluminoso, ma costruito su racconti brevi, non un romanzo che si dipana in vicende ramificate. Esempi di questa sua arte preziosa, levigata come un gioiello luccicate, sono i suoi album, come in «Blue in Green»  (Telarc, 2001) dove aleggia l’anima sublime di Bill Evans e con una Detour Ahead da sogno; oppure in due capolavori dell’età di mezzo, innanzi tutto «Dancing in the Dark».(Telearc, 2004), esplicitamente dedicato a Frank Sinatra e senza dubbio il più bell’omaggio di una cantante al genio interpretativo del leggendario old blue eyes, poi di seguito «After Blue» (Telearc, 2013), dove invece il songbook di Joni Mitchell non viene ripercorso ricalcandone le orme, ma riavvolto di una luce del tutto personale, devota e mai pedissequa. Quelle di Tierney Sutton è difficile considerarle vere e proprie cover: sono sublimi rievocazioni fatte senza inchini, piuttosto con immaginifici abbracci, rispettosi e per nulla formali. In epoca più recente, per via della pandemia, il gioco del destino la porta a Parigi, dove non solo ritrova un amore che sembrava perduto (poi culminato in matrimonio) ma riesce anche a raggiungere ancora una volta la sommità della sua arte con due volumi imperdibili, «Paris Sessions»  (2014) e «Paris Sessions 2» (2022), ambedue BFM Jazz Records,  accanto al marito, il chitarrista francese Serge Merlaud, il quale le infonde un’evidente nuova linfa creativa, con risultati eccelsi. Oggi Madame Sutton è una signora che ha ancora molto da raccontare. Nel frattempo i capelli sono diventati di un bel rosso ramato, simili a quelli di una caparbia Rita Hayworth che non avesse smesso prematuramente di recitare, voluminosi e affascinanti come la sua voce. Di lei abbiamo seguito passo dopo passo la parabola artistica, con tutti i suoi detours, cementando nel corso del tempo un’amicizia che risale fino al 2009 (intervista in Musica Jazz del gennaio 2010) e che ci ha fatto piacere rinverdire nell’intervista che segue.

Vorrei iniziare con una domanda un po’ brusca, diretta: cos’è per te, dentro di te, la bellezza?

Credo che la bellezza sia intimamente legata alla verità, dunque qualcosa che risuona dentro come un sincero sentimento, se vuoi un’emozione veritiera che restituisce un senso profondo di gioia, oppure può dare un senso profondo di dolore, oppure ancora un insieme di queste due emozioni, come lo è il blues. 

Immaginavo che avresti risposto così, perché tutto ciò è fortemente connesso con la tua musica. Dunque il tuo modo di cantare è un’estensione diretta di quelle sensazioni?

Penso proprio di si. Ciò che cerco sempre di realizzare è di diventare un tutt’uno con i musicisti con cui suono e allo stesso tempo servire come mezzo per restituire il senso della canzone che sto eseguendo in un determinato momento. Ciò con la perenne speranza di aver trovato una canzone che dica qualcosa, che racconti una storia per la quale io mi senta bene nel ritrovarmi dentro di essa. Perché quando sei sul palco o in uno studio di registrazione stai interpretando il mondo che quella canzone rappresenta nel corso di più o meno cinque minuti. Se non senti dentro sul serio la verità che quella canzone racconta, allora qualcosa si perde per strada e tutto il resto diventa secondario. 

Penso che in fondo ci siano due diversi tipi di cantanti: quelli che non si curano molto del significato della canzone e che pensano solo alla propria vocalità, e quelli che invece cercano di restituire il senso più intimo del brano. Non credi che sia così?

Ritengo che tu abbia centrato un argomento importante. Per esempio, io stessa sono cambiata nel corso degli anni, e anche tanto. Perché quando ho iniziato a cantare venivo da una specie di prospettiva del tutto strumentale: ero molto affascinata dallo stile di Bobby McFerrin e da canzoni che erano inusuali nel repertorio di un cantante. Vedevo la mia voce come se fosse solo uno strumento. Tutto è cambiato quando ho affrontato il songbook tipico di Frank Sinatra nell’album a lui dedicato, «Dancing in the Dark», che ho avuto modo di presentare dal vivo in concerto, ogni sera per un mese intero in questo stesso posto dove siamo ora, l’Algonquin Hotel di New York, circa vent’anni fa. Nel lavorare su quel disco mi sono resa conto che cantare un brano scritto da Wayne Shorter, da Chick Corea o da Bill Evans, come avevo fatto in precedenza era una cosa fondamentalmente diversa dal raffrontarmi col Sinatra delle ballad, e dico specificamente le ballad  perché lì, nello studiare il suo approccio, ho capito fino in fondo quale fosse la sua enorme maestria nel raccontare la storia insita in una canzone. Poco tempo dopo ho cominciato a frequentare i noti songwriters Alan e Marilyn Bergman, fino a diventare una cara amica, anzi quasi una figlia per loro. Marilyn è morta pochi anni fa, nel 2022, mentre Alan compirà cent’anni tra qualche mese e continua a scrivere canzoni come se fosse agli inizi della carriera. Una delle cose importanti che ho fatto e che faccio tuttora è cantare dei demos, provini delle nuove canzoni da loro composte, quindi che nessuno finora ha mai inciso. 

Pensi di farne un nuovo album?

Molto probabile, anzi dovrei proprio farlo. Comunque tutto ciò mi ha portato nel tempo a considerare quanto importanti siano i testi, le narrazioni, non solo le melodie delle canzoni. Lo dico anche in confronto ad altri autori, Cole Porter per esempio, che considero il più grande di tutti in questo senso. Credo dunque di essere cambiata per queste ragioni. Ho modificato il mio approccio nell’interpretazione, mettendo in primo piano il significato del testo. Niente è più importante per me ora della storia in una canzone. A volte faccio ascoltare a Alan qualche brava cantante e lui mi dice: «Per questa persona si tratta prima di tutto di lei, non della canzone. Non sa cosa sta cantando e soprattutto non gliene importa». Perciò passo gran parte del tempo con chi crea queste musiche, dove le storie sono in primo piano. In definitiva è stato un cambiamento radicale per me nel corso di questi anni. 

Si può dire che ti poni in maniera molto aperta, onesta, di fronte a una canzone. Vuoi renderne integralmente il significato ultimo?

Spero di sì. Ho ricevuto un giorno un grande complimento da Keith Jarrett, che non è certo noto per essere un uomo prodigo di congratulazioni! Ascoltando uno dei miei dischi mi ha detto: «Mi piace molto la tua band e anche tanto gli arrangiamenti: non sono, come dire… ingegnosi, se capisci cosa intendo». Penso proprio che Keith volesse dire che un arrangiamento deve servire la canzone, non farne qualcosa di diverso o strano, giusto per il piacere di trasformarla radicalmente e dunque perdendo per strada il suo significato. La gente deve esserne in grado si coglierne il senso. Questo per me è il significato dell’integrità nel lavoro di musicista.

Quando hai iniziato a cantare da professionista eri già consapevole del senso dell’integrità nel tuo essere musicista?

Be’, ho cominciato sul serio intorno ai trent’anni, quindi piuttosto tardi. Prima facevo altri lavori, dunque ancora non consapevole di ciò che volevo essere. Pensa che avevo studiato a fondo il russo alla Wesleyan University nel Connecticut, dove intanto mi ero trasferita, fino a prendere una laurea in letteratura russa. I primi lavori erano connessi con quella mia preparazione specifica, ma pur avendo un ottimo accento non mi sentivo dotata fino in fondo in campo letterario. Potrei anche adesso cantarti una canzone in russo senza problemi! Il fatto è che nel seguire dei corsi superiori dopo la laurea non avevo dentro quella spinta che per esempio aveva una mia collega che poi è andata a lavorare a tempo pieno per la CIA, giusto per farti capire il livello che era richiesto. Non era quella la mia strada. Però nel frattempo avevo iniziato a seguire dei corsi musicali nella stessa università, la Wesleyan, diretti da Bill Barron, il sassofonista fratello di Kenny. È ovvio che da quelle parti circolassero molti jazzisti, di conseguenza tanti studenti si erano indirizzati verso quel tipo di musica. Un giorno uno di loro, un pianista, mi disse che cercava una cantante con cui suonare dei brani bop. Pensa che io nemmeno sapevo cosa fosse il bop! Ma mi misi alla prova: finimmo col fare un concerto in un ristorante. Il pianista fu molto bravo nell’insegnarmi quei pezzi e mi diede il famigerato Real Book di spartiti usato da tanti giovani jazzisti per studiare le strutture dei brani più noti. Fu così, per esempio, che imparai Lush Life. Avevo orecchio, questo lo sapevo già fin da bambina quando canticchiavo le canzoni dei musical, ma in quel periodo capii che forse quella era la mia vera vocazione. Non conoscevo il lessico del jazz, né avevo seguito un’educazione formale in quella direzione, a parte i corsi generici di Bill Barron, però mi aiutò l’orecchio. Di sicuro sapevo che non ero interessata a comporre, né tantomeno a cantare pop music in modo pedissequo. Mi piaceva il feeling che mi comunicava il jazz: quel senso di libertà nell’interpretare le canzoni, dunque la maniera di trasmettere la mia personalità cantando. 

Puoi essere più specifica nello spiegare ciò che il jazz aveva di speciale per te, al punto di volerlo approfondire fino a determinare la tua esistenza futura?

Due cose principali: prima di tutto quando cantavo per divertirmi le canzoni che erano in voga in quegli anni, diciamo quelle di Stevie Wonder o degli Steely Dan, le mie preferite, cercavo di seguire nel modo più preciso possibile gli arrangiamenti originali, quelli dei dischi e che ascoltavo alla radio. Con gli standard di jazz invece le possibilità erano molteplici, visto che diversi erano i modi di interpretarli. Per me c’era più libertà e allo stesso tempo era come muoversi in una nebbia, senza vedere una strada precisa di fronte. Poi la cosa più entusiasmante era l’interazione con i musicisti, con l’improvvisazione che ne conseguiva. In testa mi era scattata lampante l’idea di fare qualcosa di molto più creativo che seguire il modo in cui qualcun altro aveva cantato quello stesso brano. Difatti non sono mai stata veramente interessata al teatro musicale o all’opera, forme musicali che ho ammirato ma che non sentivo consone alla mia personalità. 

Credo che anche lo swing, che è qualcosa di peculiare che appartiene totalmente al jazz, sia un elemento importante in queste tue scelte.

Certo che è così! Ne sono convinta. Mi viene in mente Al Jarreau: c’è un suo disco che risale addirittura al 1965, al tempo in cui aveva appena iniziato la carriera, dove lui canta solo standard, il piano è scordato, ma Jarreau ha uno swing incredibile! Davvero come nessun altro. Devo dirti che ho imparato a swingare sentendo Al Jarreau. Studiavo dove e come metteva gli accenti per ottenere quello swing micidiale. Ho usato quel disco anche per insegnare ai miei studenti come cantare jazz in una certa maniera: è una pura lezione di swing! [l’album in origine si chiamava semplicemente «Al Jarreau 1965», poi ristampato in altre edizioni, fino a essere incluso nella raccolta «Master Classics» , del 2004, assieme ad altri brani, ndr.]. Da quel momento ho capito fino in fondo che quella era la mia strada, invece di quella di fare l’interprete dal russo! Allora mi sono trasferita a Boston per studiare alla Berklee School of Music, dove ho poi incontrato tanti altri musicisti e ho capito qual era la mia vera professione. Era il 1987 e ci sono rimasta per un paio di semestri, poi mi sono ammalata e ho dovuto lasciare. Mi era stata diagnosticata la sclerosi multipla.

Come sei riuscita a venirne fuori?

Ho avuto un medico bravissimo che mi ha seguito molto bene e fino in fondo. Ricordo che mi disse: «Devi stare alla larga dai medici convenzionali e devi essere felice dentro». Aveva capito che la mia malattia non aveva un’origine soltanto fisica. D’altronde non era in stato avanzato, quindi curabile col tempo e la giusta predisposizione d’animo. Finita la cura mi sono trasferita a Los Angeles con la ferma intenzione di diventare una vera cantante di jazz. La vita ricominciava per il verso giusto.

Come mai proprio Los Angeles?

Perché lì avevo degli amici tra i musicisti, fin dai tempi in cui studiavo. In effetti sono stati loro a invitarmi per cantare in un gruppo vocale che si stava formando. È vero che la situazione del jazz a New York sembrava in apparenza più entusiasmante, ma a Los Angeles c’erano gli studi di registrazione, si incidevano le colonne sonore dei film e l’atteggiamento dei musicisti era più professionale, di una qualità assolutamente ineccepibile rispetto alla media di qualsiasi altra città. Oltretutto avevo gli amici e del lavoro già a disposizione. Se sei una cantante e vuoi avere attorno dei musicisti molto preparati, che ti capiscono al volo e in breve tempo imparano alla perfezione il repertorio, allora devi andare a Los Angeles, non altrove. Ma non pensare che io disprezzi la scena jazz di New York: tutt’altro. Qui ci sono musicisti straordinari, solo che il desiderio principale è quello di emergere, di diventare delle star, mentre a Los Angeles si tende verso la bravura tecnica, la capacità di rendere al meglio ciò che si deve suonare. Lì mi sono adattata benissimo, e ho anche conosciuto colui che sarebbe diventato il mio primo marito, il trombonista Alan Kaplan, anche lui musicista eccelso, soprattutto in studio, e col quale sono ancora in buoni rapporti. Un’altra cosa importante è che a Los Angeles ero una delle poche cantanti completamente dedite al jazz, per cui diventai ben presto molto richiesta quando c’era bisogno di una voce con quel tipo di approccio stilistico. 

Sei diventata o eri già una perfezionista?

Probabilmente lo sono sempre stata, ecco perché mi sono trovata subito bene in quell’ambiente. 

E sei anche molto raffinata, con uno stile talmente personale da non essere di immediata comprensione in ciò che canti. Insomma l’ascoltatore medio dovrebbe già conoscere i brani che tu esegui per poter capire bene come vengono da te trattati. Non credi?

È possibile, ma secondo me dipende molto dal tipo di canzone. Forse nei brani dal tempo veloce la comprensione può diventare più complicata. Penso molto spesso, sai, a come il jazz viene recepito dal pubblico che ho di fronte, Il jazz è soprattutto variazione sul tema: guarda John Coltrane alle prese con una canzone come My Favorite Things! Se c’è un pubblico che conosce già bene il brano che stai interpretando, allora lo puoi condurre con te verso dimensioni sempre più folli, altrimenti devi semplificare lo stile per fare in modo che la gente ti segua. Non puoi mai escludere il pubblico che ti sta ascoltando. 

Penso all’album che hai fatto con le canzoni di Sting («The Sting Variations», BFM Jazz, 2016): se qualcuno non conoscesse già quei brani potrebbe comunque apprezzarli a un livello differente, come se si trattasse di materiale del tutto nuovo. 

Quel disco è stato tutto arrangiato e prodotto da Trey Henry, il contrabbassista col quale spesso collaboro. Trey ha completamente «riletto» la musica di Sting, pur rendendola accessibile a chi non la conosceva già. Per me è stato un gran bel lavoro, e sono d’accordo con quello che dici: l’album infatti è stato apprezzato anche di chi non era avvezzo a quelle canzoni. Trey ha fatto un qualcosa di sorprendente, penso a come ha riarrangiato Fragile oppure The Gentle Rain: canzoni ultra-note vestite con un abito del tutto nuovo. Trey si è dimostrato anche un musicista molto collaborativo, e la cosa mi ha fatto molto piacere. Il disco è piaciuto tantissimo e ha pure avuto una nomination ai Grammy. 

Eppure, sai, ogni tanto qualcuno dice che sei «fredda» sulla scena o anche nei dischi. Per me è facile dire che si sbagliano, che non è così, ma a volte sento quel tipo di commenti.

Capisco bene ciò che vuoi dire, e a volte recepisco anch’io quella sensazione da parte della gente. 

Penso che molto derivi dal fatto che non fai «scenate» sul palco o non usi ammiccamenti e trucchetti per attirarti le simpatie, al di là della musica che proponi.

È vero! Mi fai venire in mente un concerto di qualche anno fa, quando un giornalista scrisse poi nella recensione: «Sarebbe stato carino se i musicisti avessero anche improvvisato suonando». Ma noi avevamo suonato in maniera così pulita e precisa, in particolare la band,  tanto che a un orecchio non esperto non appariva alcuna improvvisazione. Il che non era affatto vero! I ragazzi improvvisavano, eccome! Solo che la loro nitida precisione non lasciava spazio a «sbavature» o giochini di sorta. 

Non credo tu debba modificare alcunché per andare incontro a certi gusti. È il tuo stile, la tua maniera di trattare la musica, e anche quella di chi suona con te. È ciò che hai dentro.

Penso alle figure importanti per me nel jazz, le mie eroine: Carmen McRae, Ella Fitzgerald e più di tutte Shirley Horn. Pochi, tra i non appassionati, la citerebbero oggi tra le più grandi. Invece Shirley era speciale e aveva un modo tutto suo di cantare: per questo non invecchierà mai. È lì il nocciolo del discorso: fare le cose che senti fino in fondo, nel modo che desideri. È proprio quello che anch’io cerco di fare: se non diventerò davvero famosa andrà bene lo stesso. La mia integrità di musicista vale più di tutto quanto.

 

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